Prima edizione: novembre 2013
Errico Malatesta
Anarchismo e coesistenza politica
Un anarchico alle prese con se stesso
Cosa fare? (Risposta ad un articolo di “Outcast”)
Gli anarchici ed i socialisti
Affinità e contrasti
A proposito di “revisionismo anarchico”
Nota introduttiva
Insieme agli altri, compagni di viaggio più o meno in buona fede, per contribuire ad abbattere il nemico? Sulle prime sì, Malatesta lo dice chiaramente, e lo dice anche la pratica insurrezionale, prima di tutto, rivoluzionaria e anarchica poi, se non si vuole dar fiato alle corde del velleitarismo. Però ci sono due ma, ed è bene dirli fuori dai denti.
Bisogna avere un progetto insurrezionale, dettagliato per quanto possibile, oltre che la buona volontà e il coraggio necessari ad attaccare gli strumenti nei quali si concretizza il dominio di classe: padroni, polizia, esercito e collaboratori di ogni specie. Quindi bisogna sapere che fare, non solo come e chi e cosa distruggere, ma anche quali mezzi procurarsi e come impiegarli, non rimandare tutto alla fase emotivamente coinvolgente dell’attacco.
E poi il secondo ma. Bisogna sapere dove interrompere il viaggio iniziato in concomitanza con le altre forze insurrezionali non anarchiche, quelle con le quali non dobbiamo fare la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Cioè prepararsi per tempo, individuando e isolando i meccanismi che rendono significative queste forze, per bloccarle nel momento in cui dovremo fare da soli, come che sia, a insurrezione sfociata nella rivoluzione o abortita in una repressione di cui, come accade spesso, siamo i primi a fare le spese.
Nel linguaggio di Malatesta questo è il problema della coesistenza politica. Oggi si dirà diversamente ma la complessità dei suoi aspetti e la difficoltà di come risolverlo permangono le stesse.
I puristi del bel gesto anarchico sono pregati di leccarsi le ferite da qualche altra parte. L’insurrezione, tanto per cominciare, non è una piacevole passeggiata scolastica.
Trieste, 30 novembre 2011
Alfredo M. Bonanno
Un anarchico alle prese con se stesso
Nel numero di domenica scorsa pubblicai letteralmente l’intervista che, dietro mia preghiera, il compagno Sandomirsky dettò. Feci così perché, abituato a veder falsato o almeno alterato il mio pensiero quasi ogni volta che ho avuto la dabbenaggine di concedere un’intervista, non volevo correre il rischio di alterare, anche io, benché involontariamente, il pensiero altrui.
Quello dunque che pubblicai sono le parole stesse del Sandomirsky fedelmente tradotte in italiano, e ne risponde lui. Quello che dirò ora sono le mie impressioni sull’intervista pubblicata e su quell’altro che si disse nella conversazione generale – e di questo rispondo io.
Dirò in breve che il Sandomirsky mi sembrò un uomo sincero, imbarazzato dalla sua missione, tanto che in certi momenti ne provai una sensazione dolorosa. Né c’è d’altronde da meravigliarsi che il Sandomirsky si trovi a disagio, quando egli, anarchico convinto e devoto, che per l’anarchia ha lottato e sofferto, crede di dovere, nell’interesse della rivoluzione, difendere un governo tirannico, il quale oltre seguire, come sarebbe comprensibile, metodi diametralmente opposti ai metodi anarchici, arriva all’eccesso di voler sopprimere come contro-rivoluzionario ogni espressione del pensiero anarchico, ed a cacciare, imprigionare, fucilare gli anarchici!
Il Sandomirsky riconosce vera l’accusa di tirannia che si fa al governo russo, ed egli stesso ci raccontò di persecuzioni, arbitri, fucilazioni senza processo e malefiche stupidaggini poliziesche, che farebbero invidia ai peggiori poliziotti nostrani. Egli conviene che i Soviet (i consigli di operai e contadini) non sono oramai sopportati che quando risultano composti da elementi ligi, che si prestano ad essere semplici strumenti del governo centrale. E riconosce che della Rivoluzione, specie dopo Kronstadt, non resta più nulla, o quasi – salvo l’effetto morale prodotto nelle masse dalla scossa e dall’esperimento rivoluzionario, per cui si può essere sicuri che, passata la stanchezza e la transitoria reazione, la Russia riprenderà la sua grandiosa marcia in avanti.
Ma egli sostiene che allo stato delle cose, qualunque regime sostituisse il regime attuale sarebbe più reazionario, più tirannico, più sanguinario.
È questo l’argomento fondamentale con cui il Sandomirsky giustifica la sua collaborazione col governo bolscevico, e la sollecitazione ch’egli, più o meno esplicitamente, faceva a noi di attenuare la nostra opposizione ad esso governo.
Il popolo russo, egli diceva, è oggi ridotto dalla fame in tali condizioni che seguirebbe qualunque usurpatore che fosse in grado di offrirgli un pezzo di pane. In queste condizioni una terza rivoluzione, che ristabilisse il potere reale dei soviet è impossibile; ed il governo bolscevico, che oggi rappresenta la rivoluzione, è il meno peggio possibile in questo momento. Esso non potrebbe essere rovesciato che dai reazionari, o zaristi, o democratici, o sedicenti socialisti, i quali avendo imparato dai bolscevichi il modo di mantenersi al potere, imiterebbero, come essi stessi confessano, ed esagererebbero ancora più il regime poliziesco e sanguinario dei bolscevichi stessi.
Ed anche gli anarchici ora detenuti nelle prigioni della Ceka, se messi in libertà riconoscerebbero, secondo il Sandomirsky, la necessità di difendere il governo bolscevico per salvare la rivoluzione.
A me sembra una strana, inaudita pretesa quella di obbligare all’inazione ed al silenzio i propri avversari e nello stesso tempo sfruttare una loro ipotetica (molto ipotetica) adesione. Comincino i bolscevichi col ridare agli anarchici la libertà, e poi si vedrà quello che questi diranno e faranno.
Per conto mio non esito a credere che, in mancanza di una terza rivoluzione che abbatta il potere bolscevico per opera di popolo e ristabilisca la supremazia reale del lavoratori, un nuovo regime in Russia varrebbe per ora quanto quello bolscevico o peggio. E “Umanità Nova”, quando unì la sua protesta a quella di tutti i socialisti del mondo contro la minacciata condanna ed esecuzione dei cosiddetti socialisti rivoluzionari, fece ben notare che noi protestavamo perché vogliamo la giustizia e la libertà per tutti, e non già per speciale simpatia verso quei processati, che “sono uomini di governo e farebbero, se andassero al potere, quello che fanno tutti i governanti”.
Ma non vorrei per questo appoggiare il governo esistente.
Fra due mali equivalenti io non ne scelgo alcuno. Ed al Sandomirsky, il quale insisteva perché io gli dicessi se avrei preferito al governo bolscevico un governo democratico, o sedicente tale, risposi che se mi trovassi nella posizione di dover scegliere tra la forca o la ghigliottina io sceglierei... la vita, e la libertà; e se non potessi proprio fare altrimenti mi lascerei trascinare al supplizio, ma non darei mai il mio consenso.
Il che è poi la condotta che tennero gli anarchici, d’accordo in questo colla maggioranza dei socialisti italiani e russi, di fronte alla guerra mondiale. Dovendo scegliere tra l’imperialismo tedesco a quello dell’Intesa, tra il capitalismo germano-austriaco e quello anglo-francese, essi si rifiutarono a prendere partito, combatterono come poterono, non fosse altro che coll’astensione tutti gl’imperialismi e tutti i capitalismi, e salvarono così l’avvenire impedendo che anarchismo e socialismo perissero ignominiosamente.
Del resto, avversario come sono del regime parlamentare e democratico, non trovo perciò meno assurdo il voler difendere la tirannia coll’addurre che la libertà di altri regimi è una menzogna. Io so, gli anarchici tutti sanno, che la libertà e le garanzie costituzionali valgono pochissimo per tutti e niente affatto pei poveri. Ma non vorrei per questo erigermi a difensore del governo assoluto. Io so, per esempio, gli orrori che si commettono nelle questure e nelle caserme d’Italia, so tutta l’infamia dei vigenti metodi d’istruttoria penale, ma non vorrei per questo il ristabilimento ufficiale della tortura e le esecuzioni senza processo, come d’altra parte non vorrei scusare e sopportare le infamie che si commettono in Italia colla scusa che in Russia se ne commettono delle eguali e peggiori.
Che avrebbe detto Sandomirsky dell’impudenza dello zar, se questi si fosse servito degli argomenti di Kropotkin contro il regime costituzionale per difendere la sua autocrazia?
E trovo poi molto equivoco e pericoloso quel che dice Sandomirsky, appoggiandosi su Monmousseau, che “quando si è posti in posizione di dover scegliere tra una dottrina e la rivoluzione bisogna dimenticare la dottrina”. In questo caso dottrina non può significare che il programma, lo scopo per il quale si vuole la rivoluzione, ed abbandonare il proprio programma nel momento più favorevole per tentarne la realizzazione significa veramente mettersi ai servizi di chiunque sia riuscito a dominare e sfruttare la rivoluzione. È ancora il vecchio inganno della “realtà storica” con cui ci si voleva indurre ad appoggiare la guerra! La missione nostra invece è quella di combattere tutte le realtà che ci sembrano cattive. Non importa se esse si chiamino rivoluzionarie e siano il prodotto di un cataclisma sociale. La Rivoluzione non è per noi una entità astratta, una Dea, a cui rendiamo culto. Vi possono essere delle rivoluzioni buone e delle rivoluzioni cattive, delle rivoluzioni che spingono in avanti verso la giustizia e la libertà e delle rivoluzioni che sono un ritorno verso il passato di tenebre e di oppressione. Noi vogliamo il diritto di scegliere con criteri che ci suggerisce il nostro programma.
* * *
Finisco, o almeno sospendo qui le mie osservazioni, poiché lo spazio ci è tanto avaro.
Sandomirsky è per il fronte unico, ed io pure, quando questo si possa realizzare nell’interesse della rivoluzione liberatrice.
Intanto, pur non avendo più nessuna fiducia nella capacità rivoluzionaria dei bolscevichi, domando ancora, e spero, ch’essi non si mettano al pari o al disotto del boia americano, del torturatore spagnolo, del birro italiano, e comprendano che il meno che possono fare è di cessare le persecuzioni e mettere immediatamente in libertà gli anarchici e tutti gli altri detenuti politici.
[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 105 del 4 agosto 1922]
Cosa fare? (Risposta ad un articolo di “Outcast”)
“Che fare?” è la domanda che con più o meno forza tormenta sempre l’animo di tutti gli uomini lottanti per un ideale e che risorge imperiosa nei momenti di crisi, quando un insuccesso, una disillusione spinge al riesame della tattica seguita, alla critica degli errori eventuali, ed alla ricerca di mezzi più efficaci. E ben fa il compagno Outcast a rimettere la questione sul tappeto ed invitare i compagni a riflettere ed a decidere sul da farsi.
La situazione oggi è per noi difficile ed in certe regioni addirittura disastrosa. Ma insomma chi era anarchico resta anarchico, e, se da una parte siamo indeboliti dalle molteplici sconfitte, abbiamo guadagnato dall’altra una preziosa esperienza, che aumenterà in seguito la nostra efficienza, se poco poco sappiamo farne tesoro. Le defezioni, del resto rare, che si sono prodotte nel campo nostro in fondo ci giovano perché ci hanno sbarazzato di elementi deboli ed infidi.
Che fare dunque?
Non m’intratterrò dell’agitazione fatta all’estero contro la reazione italiana. Certamente tutto ciò che serve a far conoscere al proletariato mondiale le vere condizioni d’Italia e le infamie inaudite, che sono state commesse e continuano a commettersi dagli scherani della borghesia per soffocare e distruggere ogni movimento emancipatore, non può che giovare. Già leggiamo di un comizio internazionale di protesta contro il fascismo che ha avuto luogo a Nuova York il 18 corrente – e siamo sicuri che i nostri amici e quanti han senso di libertà e di giustizia faranno tutto quello che possono in America, Inghilterra, Francia, Spagna, ecc.
Ma a noi interessa sopratutto quello che si deve fare qui in Italia, perché siamo noi che dobbiamo farlo, e perché, se è bene tener conto di tutte le forze ausiliarie, è essenziale però non contare troppo sugli altri e cercare la salute in noi stessi, nell’opera nostra.
Noi in questi ultimi anni ci siamo accostati per un’azione pratica ai diversi partiti d’avanguardia e ne siamo usciti sempre male. Dobbiamo per questo isolarci, rifuggire dai contatti impuri, e non muoverci o tentare di muoverci se non quando potremo farlo con le sole nostre forze ed in nome del nostro programma integrale?
Io non lo credo.
Poiché la rivoluzione non possiamo farla da soli, cioè poiché non possiamo colle nostre sole forze attirare e spingere all’azione le grandi masse necessarie alla vittoria, e poiché anche aspettando un tempo illimitato le masse non potranno diventare anarchiche prima che la rivoluzione sia incominciata, e noi resteremo necessariamente una minoranza relativamente piccola fino al giorno in cui potremo cimentare le nostre idee nella pratica rivoluzionaria, negare il nostro concorso agli altri ed aspettare per agire di essere in grado di farlo da soli, sarebbe in pratica, e malgrado le parole grosse ed i propositi radicali, un fare opera addormentatrice, ed impedire che s’incominci colla scusa di volere con un salto arrivare di botto alla fine.
So bene – se non lo sapessi da lungo tempo lo avrei appreso recentemente – che meno individui e gruppi che mordono il freno della disciplina dei partiti autoritari e vi restano colla speranza che i loro capi un qualche giorno si decideranno ad ordinare l’azione generale, noi, gli anarchici, siamo i soli a volere la rivoluzione davvero, ed a volerla più presto possibile. Ma so anche che le circostanze sono spesso più forti della volontà degli individui, e che una volta o l’altra, se i nostri cugini dei varii lati non vorranno morire ignominiosamente come partiti e fare omaggio alla monarchia di tutte le loro idee, e di tutte le loro tradizioni, di tutti i loro sentimenti migliori, dovranno decidersi a rischiare la lotta finale. Oggi potrebbero anche esservi spinti dalla necessità di difendere la loro libertà, i loro beni, la loro vita.
Noi dovremmo quindi essere sempre disposti a secondare chi vuole agire, anche se questo implica il rischio di essere poi lasciati soli e traditi.
Ma nel dare agli altri il nostro concorso, o meglio nel cercare sempre di utilizzare le forze degli altri e profittare di tutte le possibilità di azione, noi dobbiamo restare sempre noi stessi, e metterci in grado di far sentire la nostra influenza, e contare almeno in proporzione delle nostre forze reali.
E per questo importa intendersi, collegarsi, organizzarsi sul modo più efficace possibile.
Altri, per fini che non vogliamo qualificare, continui pure a svisare e calunniare i nostri scopi. Tutti i compagni che vogliono fare davvero, giudicheranno che cosa convenga loro di fare.
In questo momento, come in tutti i periodi di depressione e di stasi, siamo afflitti da una recrudescenza di bizantinismo; e v’è chi si diverte a discutere se siamo un partito o un movimento, se bisogna unirsi in unioni o federazioni e mille altre simili sciocchezze; forse sentiremo dire un’altra volta che “i gruppi non debbono avere né segretario né cassiere, ma debbono incaricare un compagno di tenere la corrispondenza ed un altro di custodire il denaro”. I bizantini son capaci di tutto; ma gli uomini fattivi lascino cuocere nel loro brodo quelli in buona fede e sopratutto quelli in cattiva fede, e pensino a fare.
Ciascuno faccia quello che gli pare, con chi gli pare, ma faccia.
Nessun uomo di buona fede e di buon senso negherà che per agire con efficacia bisogna intendersi, unirsi, organizzarsi.
Oggi la reazione tende a soffocare ogni movimento pubblico, e naturalmente il movimento tende a “nascondersi sotto terra”, come dicevano i russi.
Ritorniamo alla necessità dell’organizzazione segreta, e sia. Ma l’organizzazione segreta non può esser tutto e non può comprendere tutti.
Noi abbiamo bisogno di mantenere e di accrescere il nostro contatto colle masse, abbiamo bisogno di cercare nuovi proseliti facendo la più ampia propaganda possibile, abbiamo bisogno di serbare nel movimento tutti quegli elementi che non sono adatti per un’organizzazione segreta e quelli che per essere troppo conosciuti rischierebbero di comprometterla. Non bisogna dimenticare che i membri più utili per un’organizzazione segreta sono quelli di cui gli avversari non sanno le idee, e che possono lavorare senza essere sospettati.
Non bisogna dunque, secondo me, disfare nulla di quello che esiste. Bisogna aggiungervi; e quest’altro sia fatto in modo che risponda ai bisogni del momento.
Non si aspetti l’iniziativa degli altri, che ciascuno prenda le iniziative che crede nella sua località, nel suo ambiente, e cerchi poi, colle dovute precauzioni, di collegare la propria alle altrui iniziative per arrivare a quell’intesa generale che è necessaria per un’azione che valga.
Siamo, è vero, in un momento di depressione. Ma oggi la storia cammina veloce, apprestiamoci per i prossimi avvenimenti.
[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 185 del 26 agosto 1922]
Discorrendo di rivoluzione
Giova ripetersi.
Secondo alcuni noi vorremmo “allearci coi partiti autoritari di governo per fare una rivoluzione purchessia che, nel caso concreto, non essendo anarchica sarà governativa”...
Evidentemente si tratta di una interpretazione delle nostre idee, contraria a tutto quello che noi abbiamo mai detto o fatto, che è un povero espediente polemico degno solo di chi vuole ad ogni costo gettare la scissione nelle nostre file.
Noi abbiamo sempre ricercata l’alleanza di tutti quelli che vogliono fare la rivoluzione per potere abbattere la forza materiale del comune nemico, ma abbiamo sempre altamente proclamato che questa alleanza doveva durare solo il tempo del fatto insurrezionale, e che subito dopo o magari, se possibile e necessario, durante la stessa insurrezione cercheremmo di attuare le idee nostre opponendoci alla costituzione di qualsiasi governo, di qualsiasi centro autoritario, e trascinando le masse alla presa di possesso immediata di tutti i mezzi di produzione e di tutta la ricchezza sociale ed all’organizzazione diretta della nuova vita sociale conformemente al grado di sviluppo ed alla volontà delle stesse masse nelle varie località.
Purtroppo i partiti sovversivi autoritari italiani han mostrato di non avere capacità e voglia di fare la rivoluzione e dureranno a non potere e non volere farla sino a quando saranno affetti dalla lue parlamentaristica. Ma ciò non impedisce che noi, non potendo fare la rivoluzione da soli, dobbiamo spiare tutte le occasioni che potrebbero, magari contro la volontà dei capi, determinare un movimento insurrezionale.
E d’altra parte, se anche vedessimo la possibilità di fare da soli una insurrezione vittoriosa, non dovremmo noi – poiché il nostro scopo non è fare un colpo di mano per impossessarci del potere, ma è quello di suscitare tutte le energie popolari ad iniziare l’era della libera evoluzione – non dovremmo noi far appello a tutti i partiti sovversivi, a tutte le organizzazioni proletarie per cercare di trascinare nel movimento tutta la massa che sta divisa tra i vari partiti e le vane organizzazioni?
Noi non vogliamo “aspettare che le masse diventino anarchiche per fare la rivoluzione”, tanto più che siamo convinti che esse non lo diventeranno mai se prima non si abbattono violentemente le istituzioni che le tengono in ischiavitù. E siccome noi abbiamo bisogno del concorso delle masse, sia per costituire una forza materiale sufficiente, sia per raggiungere il nostro scopo specifico di cambiamento radicale dell’organismo sociale per opera diretta delle masse, noi dobbiamo accostarci ad esse, prenderle come sono, e come parti di esse spingerle il più avanti che sia possibile. Questo, s’intende, se vogliamo davvero lavorare per l’attuazione pratica dei nostri ideali e non già contentarci di predicare al deserto per la semplice soddisfazione del nostro orgoglio intellettuale.
* * *
Ci si accusa di “mania ricostruttoria”, si dice che parlare di “indomani della rivoluzione”, come facciamo noi, è una frase che non significa nulla perché la rivoluzione è un profondo cambiamento di tutta la vita sociale, che è già cominciata e che durerà secoli e secoli.
Tutto questo è un semplice equivoco di parole. Se si piglia la rivoluzione in quel senso, essa è sinonimo di progresso, sinonimo di vita storica, che attraverso mille vicende metterà capo, se i nostri desideri si realizzano, al trionfo totale dell’anarchia in tutto quanto il mondo. Ed in quel senso era un rivoluzionario Bovio e sono rivoluzionari anche Treves e Turati e magari lo stesso d’Aragona. Quando ci mettete di mezzo i secoli; ognuno vi concederà tutto quello che volete.
Ma quando noi parliamo di rivoluzione, quando di rivoluzione parla il popolo, come quando si parla di rivoluzione nella storia, s’intende semplicemente insurrezione vittoriosa.
Le insurrezioni saranno necessarie fino a che vi saranno dei poteri che colla forza materiale costringeranno le masse all’obbedienza; ed è probabile, purtroppo, che di insurrezioni se ne dovranno fare parecchie prima che si sia conquistato quel minimo di condizioni indispensabili perché sia possibile l’evoluzione libera e pacifica e l’umanità possa camminare senza lotte cruenti ed inutili sofferenze verso i suoi alti destini.
Ma ora dobbiamo occuparci della prossima insurrezione, che come ogni insurrezione non potrà durare che un breve tempo, prepararci a quello che dobbiamo fare mentre essa dura e nel suo immediato indomani per trarne il massimo profitto possibile in favore dei nostri ideali.
Poiché non possiamo e non vogliamo imporre le nostre idee a nessuno ed in fin dei conti se la gente crede necessario un governo noi non possiamo impedire che se lo faccia e se lo goda, noi dobbiamo reclamare per noi e per coloro che riusciremo ad attirare nella nostra orbita, il diritto ai mezzi di lavoro e la piena libertà di non riconoscere il governo costituito; e questa libertà siamo disposti a difendere, potendo, anche colle armi.
Ma se non riconosciamo il governo bisogna pure che troviamo modo di vivere per liberi accordi, senza governo, nonché un modo per mantenere le necessarie relazioni economiche colle masse che ad un governo stanno sottoposte.
Noi abbiamo sempre reclamata la libertà di propaganda e di esperimentazione. Che cosa esperimenteremmo se non avessimo qualche idea concreta da mettere in pratica?
Noi fidiamo per la propagazione delle nostre idee, in periodo insurrezionale e post-insurrezionale, sulla efficacia dell’esempio, ma quali esempi potremmo dare se non sapessimo che cosa fare? Se non riusciamo a vivere meglio degli altri, come potremmo sperare che le masse accettino i metodi nostri?
Se un governo intelligente, conoscendo la nostra incompetenza, la nostra impreparazione, ci facesse il tiro birbone di lasciarci per un momento la libertà che noi reclamiamo, che figura faremmo se non sapessimo come organizzare una vita sociale rispondente ai nostri ideali?
La nostra missione di anarchici, secondo alcuni, sarebbe solo quella di distruggere. Ma mentre distruggiamo dobbiamo pur vivere, cioè consumare; vorremo noi che gli altri lavorassero e producessero per provvedere ai nostri bisogni, mentre noi ci dedichiamo all’opera geniale del distruggere?
E poi, distruggere che cosa? Una volta distrutta la forza brutale che ci opprime, non si distrugge più se non quello che si sostituisce con qualche cosa di meglio.
Io non credo negli schemi logici, direi quasi nelle fantasticherie storico-filosofiche di Vico e di Ferrari, le quali del resto non si applicano realmente che alle forme più appariscenti, ma meno sostanziali della vita sociale. Non vi sono generazioni che distruggono e generazioni che edificano. La vita è un tutto inscindibile, e la distruzione e la creazione sono atti contemporanei. Vi sono soltanto periodi in cui si crea e si distrugge rapidamente, ed altri in cui si crea e si distrugge meno rapidamente.
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All’amico mio Dante Pagliai, del quale conosco tutta la bontà, tutto lo spirito di sacrifizio, ma anche tutta la confusione d’idee che ha nella mente, a Dante Pagliai il quale si meraviglia che io, non essendo milionario, mi preoccupo della possibile necessità di conservare una qualche specie di moneta per gli scambi coi produttori che non sono né anarchici né comunisti, ricorderò un certo dialogo, che dovrebbe aver lasciato qualche traccia nel suo cervello.
Si parlava del problema dell’alimentazione in tempo di rivoluzione.
Il mio contraddittore sosteneva che la cosa non lo preoccupava. – Io, egli diceva, saprò ben prendere il pane dove si trova.
– Ma, e gli altri? E tu stesso, anche supposto che tu abbia forza sufficiente, non potresti prendere quello che non c’è. Vedi dunque la necessità, per te stesso e per la salvezza della rivoluzione, che si ricerchino i mezzi di assicurare a tutti il necessario per la vita.
– Oh! questo non è cosa che mi riguarda. A questo debbono pensare i dirigenti!!!
Io mi misi le mani nei capelli e mi domandai come è possibile dirsi anarchico, affermare che non si vuole governo, e poi rimettersene tranquillamente ai “dirigenti” per la soluzione teorica e pratica dei più urgenti problemi.
Ed è proprio così: chi non vuole preoccuparsi di cose pratiche e crede che tutto si riduca a distruggere, deve poi necessariamente finire col sottomettersi a quello che fanno gli altri.
E questo lo chiamano anarchismo puro!
[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 195 del 23 novembre 1922]
Gli anarchici ed i socialisti
Affinità e contrasti
L’articolo seguente è stato scritto dopo la lettura della “Giustizia” di Reggio Emilia (20 aprile) in cui Zibordi e Saccani discutono di anarchismo, il primo con sufficiente serenità, il secondo con serenità... così, così, ma tutti e due, ci pare, con insufficiente cognizione.
Il compagno Torquato Gobbi ci aveva mandato una lunga e ragionata risposta; ma noi preferiamo trattare l’argomento da un punto di vista più generale e domandiamo scusa al Gobbi di non pubblicare la sua lettera.
Vogliamo solo rilevare, per ciò che riguarda specialmente Reggio Emilia, il fatto riferitoci dal Gobbi, che i socialisti cercano di ostacolare la vendita di “Umanità Nova” e che rifiutavano di pubblicare in “Giustizia” l’annuncio della conferenza di Malatesta mentre poi facevano la più smaccata reclame al Prestito Nazionale ed ai pescicani dell’industria.
Se non conoscessimo la serietà dell’amico Gobbi e se non fossimo, purtroppo!, illuminati da altri casi simili, noi riterremmo impossibile che degli uomini certamente sinceri, desiderosi che i lavoratori apprendano a pensare con la loro testa ed a scegliere la loro via con conoscenza di causa, siano poi talmente accecati dallo spirito di parte da non comprendere tutta la meschineria e l’odiosità di certi mezzi, che possono essere degni dei preti, ma non sono certamente adeguati alla dignità di un nobile ideale quale è il socialismo.
Del resto, malgrado il tentato boicottaggio, “Umanità Nova” si fa strada lo stesso, ed il teatro dove parlò Malatesta era riboccante di gente.
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Anarchici e socialisti siamo ugualmente nemici della società borghese. Gli uni e gli altri vogliamo abolire il capitalismo, abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: vogliamo che le ricchezze naturali ed il lavoro umano servano a soddisfare i bisogni di tutti e non più a dare un profitto agli usurpatori dei mezzi di produzione. Socialisti ed anarchici vogliono che gli uomini cessino di vivere sul dolore altrui, di essere lupi che si divorano l’un l’altro, e che la società tra gli uomini serva ad assicurare a tutti il maggior benessere possibile, maggior sviluppo materiale, morale ed intellettuale.
Noi, anarchici e socialisti, vogliamo dunque sostanzialmente la stessa cosa, e, anche quando appariamo avversari e nemici, siamo naturalmente fratelli.
Ma differiamo, dice Zibordi, sul mezzo per demolire e sul modo di ricostruire.
Perfettamente: però non bisogna equivocare sui mezzi che noi preconizziamo e sul modo come noi intendiamo attuare la trasformazione sociale ed arrivare alla realizzazione del nostro ideale.
Noi anarchici siamo tutti, o quasi tutti, convinti che la società borghese basata sulla violenza non cadrà che sotto i colpi della violenza dei proletari, e quindi miriamo ad una preparazione morale e materiale che possa condurre ad una insurrezione vittoriosa.
Mal si cerca di far credere che noi vorremmo provocare scioperi, scaramucce, conflitti violenti ogni momento. Noi vogliamo vincere, e perciò non abbiamo nessun interesse a consumare le nostre forze e quelle del proletariato alla spicciolata. Malgrado le bugie dei fogli di polizia, è noto a tutti che in tutti gli episodi sanguinosi degli ultimi tempi non vi è stato mai un vero e proprio conflitto, ma sempre aggressione non provocata, spesso assassinio premeditato da parte della forza pubblica.
La nostra predicazione, dando speranza e fiducia in un movimento generale risolutivo, tende ad evitare i fatti singoli sperperatori di forze ed a spingere ad una preparazione metodica che possa assicurar la vittoria.
Ma ciò non vuol dire che noi dobbiamo frenare, quando avvengono, gli scatti dell’ira popolare. La storia è mossa da fattori più potenti di noi, e non possiamo pretendere ch’essa aspetti il comodo nostro. Pur continuando la nostra preparazione, noi intendiamo agire ogni volta che l’occasione si presenta e trarre da ogni agitazione spontanea il massimo dei risultati possibili ai fini dell’insurrezione liberatrice. E siccome siamo anche convinti che il Parlamento e tutti gli organi statali non possono servire come strumenti di liberazione e che tutte le riforme fatte in regime borghese tendono a conservare e rinforzare il regime stesso, noi siamo decisamente contrari ad ogni partecipazione alle lotte elettorali e ad ogni collaborazione colla classe dominante; noi vogliamo approfondire l’abisso che separa il proletariato dal padronato ed acuire sempre più la guerra di classe.
In tutto questo noi siamo nettamente in contrasto con i socialisti riformisti, ma potremmo trovarci perfettamente d’accordo coi socialisti cosiddetti massimalisti. Ed infatti vi è stato un periodo in cui sembrava assicurata una cordiale cooperazione tra noi ed i detti massimalisti; e se le relazioni si sono poi andate raffreddando è stato perché in noi va diminuendo la fiducia nella loro reale volontà rivoluzionaria. Malgrado l’assurdo del voler farsi mandare al parlamento quando si dichiarava che in parlamento non si poteva far nulla, noi credemmo alle buone intenzioni manifestate nell’“Avanti!” e nei comizi elettorali. Ma poi... è venuto quel che è venuto, e noi dubitosi ci siamo domandati se tutto quel fuoco rivoluzionario era effetto di transitorio eccitamento o era semplice trucco elettorale.
In ogni modo se i dirigenti socialisti vorranno fare, sanno che noi non resteremo indietro. Intanto ci rivolgiamo direttamente ai giovani ed alle masse socialiste, che la rivoluzione la vogliono davvero.
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Passiamo ora alla questione di quello che intendiamo fare dopo l’insurrezione vittoriosa.
Questa è la questione essenziale, poiché è il nostro modo di ricostruire che costituisce propriamente l’anarchismo e che ci distingue dai socialisti. L’insurrezione, i mezzi per distruggere sono cosa contingente, e a rigore si potrebbe essere anarchici anche essendo pacifisti, come si può essere socialisti essendo insurrezionisti.
Si è detto che gli anarchici sono antistatalisti ed è giusto: ma che cosa è lo Stato? Stato è parola soggetta a cento interpretazioni, e noi preferiamo adoperare parole chiare che non dan luogo ad equivoci.
Malgrado la cosa possa sembrar nuova a chi non ha penetrato il concetto fondamentale dell’anarchismo, la verità è che i socialisti sono dei violenti, mentre noi siamo contrari ad ogni violenza, salvo quando essa, ci è imposta, per ragion di difesa, dalla violenza altrui. Siamo per la violenza oggi perché è il mezzo necessario per abbattere la violenza borghese; saremmo per la violenza domani se ci si volesse porre violentemente un modo di vita che non ci convenisse. Ma il nostro ideale, l’anarchia, è una società fondata sul libero accordo delle libere volontà dei singoli. Siamo contro l’autorità perché l’autorità è la violenza, in pratica, di pochi contro i molti; ma saremmo contro l’autorità lo stesso, se essa fosse, secondo l’utopia democratica, la violenza della maggioranza contro la minoranza.
I socialisti sono dittatoriali o parlamentari.
La dittatura, s’intitoli pure dittatura del proletariato, è governo assoluto di un partito, o piuttosto dei capi di un partito che impongono a tutti il loro speciale programma, quando non siano i loro speciali interessi. Essa si annunzia sempre provvisoria, ma, come ogni potere, tende sempre a perpetuarsi e ad ingrandire il proprio potere, e finisce o col provocare la ribellione o col consolidare un regime di oppressione.
Noi anarchici non possiamo non essere avversari di ogni e qualsiasi dittatura. I socialisti, che preparano gli animi a subire la dittatura, pensino almeno ad assicurarsi che al potere vadano i dittatori che essi desiderano, giacché, se il popolo è disposto ad ubbidire, c’è sempre pericolo che ubbidisca ai più abili, cioè ai più malvagi.
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Resta il parlamento, la democrazia.
La lunghezza limitata di un articolo non ci consente ora di rifare la critica del parlamentarismo e dimostrare come esso non possa mai interpretare i bisogni e le aspirazioni degli elettori e finisca necessariamente col creare una classe di politicanti con interessi proprii distinti da quelli del popolo e spesso ad essi contrari.
Noi, anche nella migliore ed utopistica ipotesi che i corpi eletti riescano a rappresentare la volontà della maggioranza, non potremmo mai riconoscere nella maggioranza il diritto d’imporre la propria volontà alla minoranza per mezzo della legge, cioè per mezzo della forza bruta.
Ma vuol dire questo che noi non vogliamo organizzazione, coordinazione, divisione e delegazione di funzioni?
Niente affatto. Noi comprendiamo tutta la complessità della vita civile e non vogliamo rinunziare a nessuno dei vantaggi della civiltà; ma vogliamo che tutto, anche le necessarie limitazioni di libertà, sia il risultato del libero accordo, in cui la volontà di ciascuno non è violentata dalla forza altrui, ma è temperata dall’interesse che tutti hanno ad accordarsi, nonché dai patti naturali indipendenti della volontà umana.
L’idea della libera volontà sembra spaventare i socialisti. Ma, in tutto ciò che dipende dagli uomini, non è sempre la volontà che decide? E perché allora la volontà degli uni piuttosto che degli altri? E chi deciderebbe della volontà che ha diritto a prevalere? La forza brutale? quella che sarebbe riuscita ad assicurarsi un corpo di poliziotti abbastanza forte?
Noi crediamo che si potrà raggiungere l’accordo ed arrivare al miglior modo di convivenza sociale solo se nessuno può imporre la volontà sua colla forza, e ciascuno quindi dovrà cercare, per necessità di cose oltre che per impulso di spirito fraterno, il modo di conciliare i desideri proprii con quelli degli altri. Un maestro di scuola, mi si passi l’esempio, che abbia il diritto di bastonare i discepoli e si fa ubbidire colla sferza, risparmia ogni lavoro intellettuale per comprendere l’animo dei fanciulli a lui affidati ed alleva dei selvaggi; un maestro invece che bastonare non può o non vuole cerca di farsi amare e ci riesce.
Noi siamo comunisti; ma il comunismo imposto dai birri no. Questo comunismo non solo violerebbe la libertà che ci è cara, non solo non riuscirebbe a produrre effetti benefici perché gli mancherebbe il cordiale concorso delle masse e dovrebbe contare solo sull’azione sterile e perniciosa dei burocratici, ma condurrebbe certamente alla ribellione, la quale, essendo per le circostanze anti-comunista, rischierebbe di finire in una restaurazione borghese.
Questa differenza di programma tra noi ed i socialisti ci farà nemici l’indomani della rivoluzione, ed indurrà gli anarchici, che probabilmente saranno in minoranza, a preparare una nuova insurrezione violenta contro i socialisti?
Non necessariamente.
L’anarchia, lo abbiamo ripetuto spesso, non si fa per forza e noi non potremmo voler imporre agli altri le nostre concezioni, senza cessare di essere anarchici. Ma noi anarchici vorremo vivere anarchicamente per quanto le circostanze esteriori e le capacità nostre ce lo permetteranno.
Se i socialisti ci lasceranno libertà di propaganda, di organizzazione, di esperimentazione; se non vorranno obbligarci colla forza ad ubbidire alle loro leggi quando noi sapessimo vivere ignorandole, allora non vi sarà nessuna ragione di conflitto violento.
Una volta conquistata la libertà ed assicuratoci il diritto di disporre dei mezzi di produzione, noi contiamo, per il trionfo dell’Anarchia, solo sulla superiorità delle nostre idee. Ed intanto potremo concorrere tutti, ciascuno coi metodi suoi, al bene comune.
Che se invece i governanti socialisti volessero, colla forza dei poliziotti, sottoporre i recalcitranti al loro dominio, allora... sarebbe la lotta.
[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 55 del 1° maggio 1920]
Ideale e realtà
Trascuriamo le definizioni “filosofiche”, cioè difficili, confuse... e inconcludenti. Ideale significa: ciò che si desidera. Realtà significa: ciò che è.
È carattere specificamente umano l’essere malcontento di ciò che è, il desiderare sempre qualche cosa di meglio, l’aspirare a maggiore libertà, a maggiore potenza, a maggiore bellezza. L’uomo che trovasse tutto buono, che pensasse che tutto ciò che è dev’essere così e non si deve né si può cambiare, e si adattasse tranquillamente, senza lotta, senza protesta, senza moto di ribellione, alla posizione che le circostanze gli fanno, sarebbe meno che uomo: sarebbe... un vegetale, se pure è lecito dir così senza calunniare i vegetali.
Ma d’altra parte l’uomo non può essere e non può fare tutto ciò che vuole, perché è determinato, costretto, oltre che dalla bruta natura esteriore, anche dall’azione di tutti gli altri uomini, dalla solidarietà sociale che, volente o nolente, lo lega alla sorte di tutto il genere umano.
Bisogna dunque tendere a ciò che si vuole, facendo quel che si può.
Chi si adattasse a tutto sarebbe un povero essere paragonabile, come dicevo, a un vegetale. Chi invece credesse poter fare tutto quello che vuole senza tener conto della volontà degli altri, dei mezzi necessari per raggiungere un fine, delle circostanze in mezzo alle quali si trova, sarebbe un semplice acchiappanuvole, destinato ad essere perpetuamente vittima, senza far avanzare d’un passo la causa che gli è cara.
Il problema dunque per noi anarchici – poiché lo scopo di questa nostra pubblicazione è quello di giovare come possiamo al movimento anarchico – il problema per noi anarchici che consideriamo l’anarchia non già come un bel sogno da vagheggiare al chiaro di luna, ma come un modo di vita individuale e sociale da realizzare per il maggior bene di tutti, il problema, diciamo, è di regolare la nostra azione in modo da ottenere il massimo effetto utile nelle varie circostanze che la storia ci crea attorno.
Non bisogna ignorare la realtà; ma se essa è cattiva bisogna combatterla, servendosi di tutti i mezzi che la realtà stessa ci offre.
Allo scoppiare della guerra mondiale, di cui sono ancora evidenti le malefiche conseguenze, vi fu in certi ambienti, che si dicevano e forse erano stati sovversivi, un gran parlare di “realtà”. Tutte le mezze coscienze, tutti coloro che cercavano un pretesto onorevole per fare ammenda dei loro trascorsi giovanili e attaccarsi ad una greppia qualsiasi, tutti gli stanchi a cui mancava l’onesto coraggio di dichiararsi tali e ritirarsi a vita privata e ve ne furono molti tra i socialisti e parecchi anche fra gli anarchici – accettarono e predicarono la guerra “perché era un fatto”, facendosi forti dell’adesione di alcuni generosi i quali, in buona fede, traviati da una erronea concezione della storia e da tutta una propaganda di menzogne, credettero si trattasse davvero di una guerra liberatrice e vi parteciparono pagando di persona.
Ed oggi non mancano di quelli che fanno adesione al fascismo “perché è un fatto” e nascondono, e credono giustificare la loro dedizione ed il loro tradimento dicendo del fascismo, come già, della guerra, che il suo scopo è rivoluzionario.
Sì, la guerra mondiale e “la pace” che ne è risultata sono una realtà, come furono una realtà tutte le guerre passate, tutti i massacri e tutti i mercati di popolo. È una realtà il manganello fascista, come fu una realtà il bastone tedesco, “che l’Italia non doma!”
Sono purtroppo una realtà tutte le oppressioni, tutte le miserie, tutti gli odii, tutti i delitti che affliggono, dividono e degradano gli uomini.
Bisognerà dunque tutto accettare, sottomettersi a tutto, perché tale è la situazione che la storia ci ha fatto?
Tutto il progresso umano è fatto di lotte contro realtà naturali e realtà sociali! E noi che vogliamo il progresso massimo, la più grande felicità possibile per tutti quanti gli esseri umani, siamo assediati e battuti da tutte le parti da realtà ostili, e contro queste realtà dobbiamo combattere. Ma per combatterle dobbiamo conoscerle e tenerne conto.
L’anarchia per trionfare, o anche semplicemente per marciare verso il suo trionfo, deve essere concepita, oltre che come faro luminoso che illumina ed attrae, come una cosa possibile, realizzabile non colla consumazione dei secoli, ma in un tempo relativamente breve e senza bisogno di miracoli.
Ora, noi anarchici ci siamo molto occupati dell’ideale; abbiamo fatto la critica di tutte le menzogne morali e di tutte le istituzioni sociali che corrompono ed opprimono l’umanità, abbiamo descritto, con quel tanto di poesia e di eloquenza che ciascuno di noi poteva possedere, un’auspicata società armonica, fondata sulla bontà e sull’amore; ma, bisogna confessarlo, ci siamo occupati poco delle vie e dei mezzi per realizzare i nostri ideali.
Riconosciuta la necessità del moto rivoluzionario, o piuttosto insurrezionale che deve abbattere gli ostacoli materiali, potere politico e accaparramento dei mezzi di lavoro, che si oppongono alla propaganda ed alla esperimentazione dei nostri ideali, noi abbiamo pensato, o fatto come se pensassimo che tutto si sarebbe accomodato da sé, senza piano preconcetto, naturalmente, spontaneamente – ed abbiamo risposto alle difficoltà prospettateci con delle formula astratte e con un ottimismo che è contraddetto dai fatti attuali e da quelli prevedibili. Abbiamo insomma risolto tutto supponendo che la gente vorrà proprio quello che vogliamo noi e le cose si accomoderanno esattamente secondo i nostri desideri.
I governi sono tutti malefici! Ebbene “li aboliremo tutti ed impediremo che se ne costituiscano dei nuovi”. Ma come? con quali forze? “Il popolo o il proletariato ci penserà”. E se non ci pensa?
“Ciascuno farà come vorrà”. Ma se questi ciascuno, che uniti formano la folla, volessero il contrario di quello che vogliamo noi e si sottomettessero ad un tiranno e si lasciassero adoperare come strumenti contro di noi?
Se i contadini si rifiuteranno di approvvigionare le città? “I contadini non sono degli sciocchi e si affretteranno a portare in città i generi alimentari per ricevere prodotti industriali… o promesse di prodotti di là da fabbricare”.
Se la gente non vorrà lavorare? “Il lavoro è un piacere e nessuno vorrà privarsene”.
Se vi saranno dei delinquenti che attenteranno alla vita od alla libertà degli altri? “Non vi saranno più delinquenti”.
E così di seguito, rispondendo a tutto con affermazioni e negazioni gratuite, negando tutte le cose brutte, supponendo realizzate tutte le cose belle.
V’è stato perfino chi, nella foga dell’entusiasmo, anticipando forse di secoli i risultati sperabili della educazione e della eugenica (scienza ed arte di ben procreare), ha intravisto per l’indomani stesso dell’insurrezione vittoriosa un’umanità composta tutta di gente buona, intelligente, sana, forte e bella!
La verità è che ci siamo aggirati sempre in un circolo vizioso. Mentre da una parte abbiamo sostenuto che la massa non può emanciparsi moralmente fino a quando durano le attuali condizioni di soggezione politica ed economica, dall’altra parte abbiamo supposto che gli avvenimenti si svolgerebbero come se essa massa fosse già composta tutta quanta, o in grande maggioranza, di individui coscienti ed evoluti, gelosi della libertà propria e rispettosi di quella degli altri. Mentre abbiamo sostenuto che l’anarchia, che è tutta materiata di libertà, non può imporsi con la forza “per la contraddizione che non lo consente”, non abbiamo pensato a prepararci perché altri non potesse imporsi a noi.
Ci è mancato insomma un programma pratico, attuabile l’indomani stesso della insurrezione vittoriosa, tale che senza violare la libertà di nessuno permettesse a noi di attuare, o cominciare l’attuazione delle nostre idee, ed attirasse a noi le masse coll’esempio e con la prova della superiorità dei nostri metodi.
E perché quella frazione di popolo che aspira all’emancipazione e che farà la storia novella, non ci ha compresi ed ha in gran parte accettato o il comunismo autoritario ed oppressore, o l’ibrido sindacalismo.
E noi ci siamo trovati impotenti quando le circostanze sembravano le più favorevoli.
È tempo di rimediare alle nostre deficienze per trovarci pronti alle future occasioni che non mancheranno.
Ed è a quest’opera di elaborazione di un programma pratico di realizzazioni immediate che noi convochiamo tutti i nostri amici.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 3 del 1° febbraio 1924]
A proposito di “revisionismo anarchico”
Un compagno mi scrive: “Dopo l’atto di contrizione del n. 3, è tuo dovere dirci apertamente quali sono i mezzi pratici da seguire per fare la nostra rivoluzione. Allora soltanto possiamo discutere”.
Un altro domanda ch’io “mi sbottoni”; altri parecchi stanno in attesa come di una formula magica che debba risolvere tutte le difficoltà.
Strana mentalità per degli anarchici!
Premetto che di “atti di contrizione” non ne ho fatto alcuno. Io potrei facilmente documentare che quello che dico adesso sono andato dicendolo da anni; e se ora v’insisto di più ed altri vi fa più attenzione di prima si è perché i tempi sono più maturi, in quanto la esperienza ha persuasi molti, i quali prima si pascevano di quel beato ottimismo kropotkiniano, che io solevo chiamare “provvidenzialismo ateo”, a scendere dalle nuvole e tener calcolo delle cose quali sono, tanto differenti da quelle che si vorrebbe che fossero.
Ma lasciamo questi ricordi storici d’interesse personale, e veniamo alla questione generale ed attuale.
Noi di questa rivista, al pari di altri compagni in altre pubblicazioni nostre, non abbiamo per nulla preteso di avere bell’e pronta la soluzione infallibile ed universale di tutti i problemi che ci si affacciano alla mente; ma, riconosciuta la necessità di un programma pratico, adattabile alle varie circostanze che possono presentarsi nello svolgersi della vita sociale prima, durante e dopo la rivoluzione, abbiamo invitato tutti i compagni che hanno delle idee da esporre e delle proposte da fare a concorrere alla elaborazione di detto programma. Quindi, quelli che trovano che tutto è andato bene finora e che bisogna continuare come per il passato, non hanno che da difendere il loro punto di vista; mentre gli altri che d’accordo con noi pensano che bisogna prepararsi intellettualmente e materialmente alla funzione pratica spettante agli anarchici, anziché aspettare passivamente il verbo nostro dovrebbero cercare di dare essi stessi il loro contributo al dibattito che li interessa.
Per conto mio, io credo che non vi sia “una soluzione” ai problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale.
In fondo, tutte le istituzioni, tutti i progetti, tutte le utopie sarebbero egualmente buoni a risolvere il problema, cioè a contentar la gente, se tutti gli uomini avessero gli stessi desideri e le stesse opinioni e si trovassero nelle stesse condizioni. Ma questa unanimità di pensiero e questa identità di condizioni sono impossibili e a dir vero non sarebbero nemmeno desiderabili; e perciò nella nostra condotta attuale e nei nostri progetti d’avvenire dobbiamo tener presente che non viviamo, e non vivremo neppure domani in un mondo popolato da soli anarchici. Invece siamo e saremo ancora per lungo tempo una minoranza relativamente piccola. Isolarsi non è generalmente possibile, e qualora lo fosse sarebbe a detrimento della missione che ci siamo data, nonché del nostro benessere personale. Bisogna dunque trovare il modo di vivere in mezzo ai non anarchici nel modo il più anarchico possibile e con il maggior vantaggio possibile per la propaganda e per l’attuazione delle nostre idee.
* * *
Noi vogliamo fare la rivoluzione perché crediamo nella necessità di un cambiamento radicale, che non può essere pacifico a causa della resistenza dei poteri costituiti, degli ordinamenti politici ed economici vigenti per creare un nuovo ambiente sociale che renda possibile quell’elevamento morale e materiale delle masse che la propaganda, l’educazione è impotente a produrre nelle circostanze attuali. Ma non potremmo fare una rivoluzione esclusivamente “nostra” appunto perché siamo una piccola minoranza, perché non abbiamo il consenso delle masse e non vorremmo, anche potendo, imporre con la forza la volontà nostra per non andare contro i fini che ci proponiamo. Dunque, per uscire dal circolo vizioso, dobbiamo contentarci di fare una rivoluzione il più “nostra” che sia possibile, favorendo e partecipando, moralmente e materialmente, ad ogni movimento diretto nel senso della giustizia e della libertà, e, ad insurrezione trionfata, adoperarci perché la rivoluzione non si arresti e proceda sempre verso maggiore libertà e maggiore giustizia. E questo non significa “accodarci” agli altri partiti, ma spingerli avanti e mettere le masse in presenza dei vari metodi affinché possano giudicare e scegliere. Potremo essere abbandonati, traditi, come ci è avvenuto altre volte; ma bisogna ben correre il rischio se non si vuol restare praticamente inattivi e rinunziare ad apportare la forza delle nostre idee e della nostra azione nel corso della storia.
* * *
Altra osservazione. Vi sono stati molti anarchici, e tra i più noti, e dirò anche i più eminenti, i quali, o perché lo credessero realmente o perché lo giudicavano utile alla propaganda, han propagato l’idea che la quantità di merci prodotte ed esistenti nei depositi dei proprietarii è talmente sovrabbondante che non ci sarebbe che da attingere liberamente in quei depositi per soddisfare ampiamente i bisogni ed i desideri di tutti senza che per lungo tempo occorresse preoccuparsi dei problemi del lavoro e della produzione. E naturalmente trovarono la gente disposta a credervi. Gli uomini hanno purtroppo la tendenza a scansare la fatica ed i pericoli. Come i socialisti democratici trovavano largo consenso nelle masse facendo credere che bastava per emanciparsi il mettere un pezzo di carta in un’urna ed affidare ad altri la propria sorte, così certi anarchici trascinavano altre masse dicendo loro che bastava un giorno di lotta epica per poi godere senza sforzo, o con un minimo sforzo, il paradiso dell’abbondanza nella libertà.
Ora questo è precisamente il contrario della verità. I capitalisti fanno produrre per vendere con profitto, e perciò arrestano la produzione non appena si accorgono che il profitto diminuirebbe o sparirebbe. Essi trovano generalmente maggior vantaggio nel mantenere i mercati in uno stato di relativa penuria: e lo prova il fatto che basta una cattiva raccolta perché la roba scarseggi e manchi realmente. In modo che si può dire che il maggior danno del sistema capitalista non è tanto l’esercito di parassiti ch’esso alimenta quanto gli ostacoli che esso pone alla produzione di cose utili. L’affamato, il mal vestito resta abbacinato quando passa innanzi ai magazzini rigurgitanti di generi di tutte le specie: ma provatevi a distribuire quelle ricchezze fra tutti i bisognosi e vedrete quanto poco ne spetterebbe a ciascuno!
Il socialismo, nel senso largo della parola, l’aspirazione al socialismo si presenta quale problema di distribuzione in quanto è lo spettacolo della miseria dei lavoratori di fronte all’agiatezza ed al lusso dei parassiti, è la rivolta morale contro la patente ingiustizia sociale che hanno spinto i sofferenti e tutti gli uomini di cuore a ricercare ed immaginare dei modi migliori di convivenza sociale. Ma la realizzazione del socialismo – sia esso anarchico o autoritario, mutualista o individualista, ecc. – è eminentemente problema di produzione. Quando la roba non c’è, è vano cercare il miglior modo di distribuirla, e se gli uomini sono ridotti a contendersi il tozzo di pane, i sentimenti di amore e di fratellanza si trovano in gran pericolo di cedere il passo alla lotta brutale per la vita.
Oggi fortunatamente i mezzi di produzione abbondano. La meccanica, la chimica, l’agraria, ecc. hanno centuplicata la potenza produttiva del lavoro umano. Ma bisogna lavorare, e per lavorare utilmente bisogna sapere: sapere come si deve lavorare e come si può economicamente organizzare il lavoro.
Se gli anarchici vogliono agire efficacemente fra la concorrenza dei diversi partiti bisogna che si approfondiscano ciascuno nel ramo in cui si sente più adatto, nello studio di tutti i problemi teorici e pratici del lavoro utile.
* * *
Ancora. Noi non siamo più in tempi ed in paesi in cui bastava ad una famiglia un pezzo di terra, una vanga, un pugno di semi, una vacca ed un po’ di galline per vivere soddisfatta. Oggi i bisogni si sono moltiplicati e complicati in modo enorme. La ineguale distribuzione naturale delle materie prime obbliga ogni agglomerazione di uomini ad avere rapporti internazionali. La stessa densità della popolazione rende, nonché miserabile, assolutamente impossibile la vita dell’eremita, se fossero molti ad avere di quei gusti.
Noi abbiamo bisogno di ricevere i prodotti di tutto il globo, noi vogliamo la scuola, la ferrovia, la posta, il telegrafo, il teatro, la pubblica igiene, il libro, il giornale, ecc.
Tutto questo, che è il frutto della civiltà, bene o male funziona: funziona a vantaggio principalmente delle classi privilegiate, ma funziona; ed i benefizii possono con relativa facilità essere estesi a tutti, quando fosse abolito il monopolio della ricchezza e del potere.
Vogliamo noi distruggerlo?
O siamo in grado di organizzarlo subito in modo migliore?
La vita sociale, specialmente la vita economica non ammette interruzione. Bisogna mangiare ogni giorno, bisogna ogni giorno alimentare i fanciulli, i malati, gl’impotenti; e vi sarebbe anche chi dopo aver fatto le schioppettate durante la giornata vorrebbe la sera andare al cinema. Per provvedere a questi bisogni improrogabili – lasciamo stare il cinema – vi è tutta un’organizzazione commerciale, che compie male, ma in qualche modo compie la sua funzione. Bisogna evidentemente utilizzarla togliendole quanto più è possibile del suo carattere sfruttatore ed accaparratore.
È tempo di finirla con quella rettorica – poiché non si tratta che di rettorica – che voleva compendiare tutto il programma anarchico nel famoso “demoliamo”.
Demoliamo, sì, o cerchiamo di demolire, ogni tirannia, ogni privilegio. Ricordiamoci però, che governo e capitalismo sono solamente delle superstrutture che tendono a restringere i benefici della civiltà ad un piccolo numero d’individui, e che per abolirli non occorre rinunziare a nessuno dei portati dell’ingegno e del lavoro umano. E quindi è ben più quello che bisogna conservare di quello che bisogna distruggere.
In quanto a noi non dobbiamo distruggere se non quello che possiamo sostituire con cosa migliore. Ed intanto lavorare in tutti i rami per migliorarci e migliorare: rifiutandoci s’intende ad esercitare qualunque funzione coercitiva.
* * *
Ho gettato qualche osservazione. Altre ne farò quando capiterà l’occasione.
I compagni le tengano nel conto che credono, e se pare loro la pena, ne facciano argomento di discussione.
Ma per carità, non aspettino da noi la formula magica.
Noi non siamo e non vogliamo parere dei padri eterni.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 9 del 1° maggio 1924]
Repubblica e rivoluzione
Il nostro dichiarato proposito di prender parte a qualunque movimento rivoluzionario mirante alla conquista di maggiore libertà e maggiore giustizia, nonché le recenti affermazioni di qualche nostro compagno, che forse nella redazione frettolosa di articoli di giornale è andato oltre il suo pensiero reale, han fatto credere a qualcuno, ignaro delle nostre idee, che noi accetteremmo, sia pure provvisoriamente, una repubblica, decorata per l’occasione degli aggettivi sociale e federativa. V’è perfino chi ci manda degli articoli di propaganda repubblicana, dicendosi sicuro della pubblicazione, come se noi fossimo un organo repubblicano!
Non parrebbe necessario spendere molte parole sulla questione, visto che gli anarchici non hanno mai lasciato luogo ad equivoci nei loro rapporti coi repubblicani. Nullameno è bene ritornare sull’argomento, poiché il pericolo della confusione è sempre grande quando dalla propaganda si vuol passare all’azione e quindi bisogna coordinare l’opera propria con quella delle altre forze che prendono parte alla lotta. Ed è cosa certamente molto difficile il ben distinguere in pratica dove finisce la cooperazione utile nella lotta contro il nemico comune e dove comincerebbe una fusione che menerebbe il partito più debole alla rinunzia ai suoi scopi specifici.
È urgente intendersi su questa questione della repubblica, perché repubblicano sarà molto probabilmente il regime che verrà fuori dal movimento risolutivo verso cui più o meno rapidamente si avvia l’Italia; ed a noi pare che se alla repubblica facessimo adesione tradiremmo non solo i nostri scopi di anarchici, ma gli stessi ideali libertarii ed ugualitarii che per mezzo della repubblica intende raggiungere la parte migliore dei lavoratori repubblicani e di quei giovani che, pur trovandosi in condizione privilegiata, sono animati da un bisogno di giustizia che coi lavoratori li rende solidali.
Dicevamo che il regime, che sostituirà in Italia le istituzioni vigenti sarà probabilmente la repubblica. Infatti, quale modo di connivenza politica potrebbe immediatamente sostituire le istituzioni che ci han dato il fascismo e che col fascismo hanno oramai legata la propria sorte? Non vogliamo fare i profeti e prevedere quanto tempo ancora durerà il dominio fascista, tanto più che temiamo che il desiderio non ci renda troppo ottimisti; ma insomma ci sarà permesso di credere che l’Italia non si lascerà ricacciare sempre più indietro verso la barbarie medioevale e che un giorno o l’altro saprà scuotere il giogo che le si aggrava sul collo. Ma dopo?
La gente non si muove se non per qualche cosa immediatamente realizzabile, ed in fondo ha ragione perché non si vive di sole negazioni e se non si ha niente di nuovo da stabilire si ritorna fatalmente all’antico.
Un ritorno alle condizioni dell’antiguerra e dell’antifascismo non ci pare possibile, e certamente sarebbe una jattura che dovremmo fare il possibile per evitare.
L’anarchia non è compresa ancora dalla grande maggioranza, e non si può ragionevolmente sperare che la massa, tutta la massa, vorrà e saprà organizzare da se stessa la vita sociale, per libero accordo, senza attendere l’ordine dei capi e senza subire imposizioni di sorta. Abituato ad essere governato, il popolo, salvo le frazioni arrivate alla concezione anarchica, non abbatte un governo se non per sostituirvi un altro governo che spera migliore.
Escluso dunque, come indesiderabile, il ritorno all’ipocrisia monarchico-costituzionale, che ci porterebbe ad un nuovo fascismo quando monarchia e borghesia si vedessero di nuovo in imminente pericolo; esclusa l’Anarchia come inapplicabile immediatamente, non vediamo che o la dittatura cosiddetta comunista o la repubblica.
La dittatura comunista ci pare abbia poche probabilità di successo, neanche temporaneo, sia per lo scarso numero dei comunisti, sia per il loro spirito autoritario che mal riuscirebbe ad imporsi in un movimento che sarebbe sopratutto un’esplosione del bisogno di libertà, sia per le difficoltà pratiche che si oppongono all’attuazione del loro programma, sia per i cattivi risultati dell’esperimento russo che sta riportando quel paese verso il capitalismo ed il militarismo.
Resta la Repubblica, la quale avrebbe l’adesione dei repubblicani propriamente detti, dei socialdemocratici, dei proletari ansiosi di cambiamento ma senza idee determinate sull’avvenire, ed anche quella della massa dei borghesi i quali s’affrettano sempre ad appoggiare quel qualsiasi governo di fatto che appaia capace di garantire “l’ordine”, che per loro è poi niente altro che la sicurezza del loro privilegio economico.
Ma che cosa è la Repubblica?
* * *
I repubblicani, o quella parte di essi che desiderano sinceramente un cambiamento radicale delle istituzioni sociali e che perciò sono più vicini a noi sembrano non comprendere che cosa sia la repubblica.
Essi dicono che la “loro” repubblica non è come le altre repubbliche esistite ed esistenti, che la “loro” repubblica sarà sociale e federativa, cioè che esproprierà o almeno tasserà gravemente i capitalisti, darà la terra ai contadini, favorirà il passaggio degli strumenti di lavoro nelle mani delle associazioni operaie, rispetterà tutte le libertà, tutte le autonomie individuali, corporative e locali, ecc., ecc.
Ora questo è linguaggio anarchico o dittatoriale: anarchico se quelle belle cose si vogliono raggiungere per opera delle minoranze più evolute che, abbattendo il governo o resistendovi, le fanno dove e quando è possibile farle, cercando poi colla propaganda e coll’esempio di trascinare e convincere la massa della popolazione; dittatoriale invece se s’intende impossessarsi del potere con un colpo di forza ed imporre colla forza il proprio programma; ma non è certamente linguaggio repubblicano.
Repubblica è governo democratico, anzi è la sola vera democrazia, intesa nel senso di governo della maggioranza del popolo per mezzo dei suoi rappresentanti liberamente eletti. Quindi un repubblicano può dire quali sono i suoi desideri, quali i criteri che lo guiderebbero come elettore, quali le proposte ch’egli farebbe o approverebbe se venisse eletto a rappresentante; ma non può dire quale sarà la specie di repubblica che si darà il parlamento (o costituente che dir si voglia) chiamato a fare la nuova costituzione e le leggi che seguiranno. La repubblica resta repubblica anche se, governata da reazionari, non farà che consolidare e magari peggiorare i vecchi ordinamenti.
Non vi sarebbero più il re ed il senato di nomina regia, e sarebbe certamente un progresso. Ma progresso di poca importanza pratica perché oggigiorno la forza preponderante e determinante negli Stati è quella finanziaria ed il potere regio conta solo come strumento del finanzieri, i quali sanno benissimo farne a meno senza che per questo diminuisca la loro malefica influenza.
Del resto, quello che vogliono i repubblicani “sociali” è poi davvero l’abolizione del capitalismo, cioè del diritto e delle possibilità di prelevare un profitto sul lavoro altrui mediante il monopolio dei mezzi di lavoro? Ma allora, perché non escono dall’equivoco e non si dicono socialisti addirittura?
A noi pare che in realtà essi mirano a dei miglioramenti delle condizioni delle classi povere, ad un’attenuazione dello sfruttamento, ma vorrebbero lasciare illeso il diritto del proprietario a far lavorare altri per conto suo, e quindi lascerebbero aperta la via a tutti i mali che produce il diritto di proprietà capitalistica.
Ed a che cosa si riduce il loro federalismo? Ammettono essi il diritto delle regioni e dei comuni di uscire dalla federazione e scegliere da loro stessi gli aggruppamenti che loro convengono di più? Ammettono che un membro della federazione abbia il diritto di rifiutare ogni concorso militare o finanziario per le cose che non gli piacerebbero? Temiamo di no, perché ciò lascerebbe a base dell’unita nazionale la sola libera volontà dei federati al di fuori di ogni costrizione statale cosa che non ci pare confacente alle tradizioni ed allo stato d’animo dei repubblicani.
In realtà non si tratterebbe che di una federazione forzata come quelle della Svizzera, dell’America, della Germania, che lasciano i federati sempre soggetti al potere centrale, e non si differenziano gran fatta dagli Stati unitari.
* * *
Ma allora perché e come potremmo trovarci d’accordo coi repubblicani in un movimento qualsiasi?
Noi ci troveremmo insieme coi repubblicani nel fatto rivoluzionario, come d’altra parte ci troveremmo d’accordo coi comunisti nell’espropriazione della borghesia, quando essi volessero farla rivoluzionariamente senza aspettare di aver costituito prima il loro Stato, la loro Dittatura; ma non per questo diventeremmo repubblicani o comunisti di Stato.
Bisogna ben distinguere il fatto rivoluzionario, che abbatte quanto più può del vecchio regime e vi sostituisce nuove istituzioni, dai governi che vengono dopo ad arrestare la rivoluzione ed a sopprimere il più che possono delle conquiste rivoluzionarie.
Tutta la storia c’insegna che tutti i progressi causati dalle rivoluzioni si sono ottenuti nel periodo dell’effervescenza popolare, quando o non esisteva ancora governo riconosciuto o il governo era troppo debole per mettersi apertamente contro la rivoluzione. Poi, a governo costituito, è cominciata sempre la reazione che ha servito l’interesse dei vecchi e dei nuovi privilegiati ed ha ritolto alle masse tutto quello che è stato possibile toglier loro.
Il nostro compito dunque è quello di fare o aiutare a fare la rivoluzione profittando di tutte le occasioni e di tutte le forze disponibili: spingere la rivoluzione il più avanti che sia possibile non solo nella distruzione, ma anche e soprattutto nella ricostruzione, e restare avversari di qualsiasi governo abbia a costituirsi, ignorandolo o combattendolo il più che ci sarà possibile.
Noi non riconosceremmo la Costituente repubblicana più di quello che riconosciamo il parlamento monarchico. Lasceremmo farla se il popolo la vuole; potremmo anche trovarci occasionalmente ai suoi fianchi nel combattere i tentativi di restaurazione: ma domanderemo, vorremo, esigeremo completa libertà per quelli che la pensano come noi di vivere fuori della tutela e dell’oppressione statale e di propagare le loro idee colla parola e coll’esempio.
Rivoluzionari, sì; ma soprattutto anarchici.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 11 del 1° giugno 1924]
Ancora di repubblica e rivoluzione
L’amico Carlo Francesco Ansaldi si occupa, in “La Voce Repubblicana”, delle nostre discussioni intorno al prossimo futuro, ed in ispecie del mio articolo “Repubblica e Rivoluzione”, apparso nello scorso numero di questa rivista. Egli mostra, in fondo, aspirazioni e desideri che si avvicinano e forse si confondono con i nostri; ma egli sfugge, mi pare, a quello che per me è il nocciolo della questione, e cioè il modo come si può, appena cadute le istituzioni vigenti, avviarsi a nuovi ordinamenti sociali e quale sarebbe la fonte del potere costituente. Poiché non si tratta veramente in questi nostri attuali dibattiti del punto di arrivo, sul quale potremmo forse trovarci tutti d’accordo, l’Ansaldi compreso, ma delle vie e mezzi che dovrebbero menarci alla realizzazione dei nostri ideali.
In breve, intendono i repubblicani, ed in ispecie quelli che si qualificano “sociali”, “federalisti”, “sindacalisti”, fra cui milita l’Ansaldi, intendono essi convocare, subito dopo la caduta del regime attuale, la “Costituente” (corpo legislativo nominato a suffragio universale) e sottoporsi alla costituzione da essa votata a maggioranza?
Paolo Albatrelli, altro scrittore repubblicano dice, sempre in “La Voce”, chiaramente di sì. Ma che ne dice l’Ansaldi? Che ne dicono i repubblicani “sociali e federalisti”?
“La nostra repubblica – dice l’Albatrelli – deve scaturite dalla volontà diretta del popolo... Se la maggioranza del popolo italiano è con noi, noi non intendiamo usargli alcuna violenza. Desideriamo però che esso sia interrogato liberamente e non sotto la pressione e le violenze di un potere esecutivo senza scrupoli e senza morale”.
Dunque se la Costituente votasse la monarchia, i repubblicani si sottoporrebbero e tutto il movimento non sarebbe servito che a salvare e fornire di una nuova verginità quella monarchia che il fascismo sta trascinando con se nell’abisso?
Ma, e la pregiudiziale antimonarchica? L’Albatrelli propone al partito di “conservarla gelosamente nel suo programma particolare e non presentarla alla possibile opposizione come una cambiale da scontare in precedenza”. Ma la pregiudiziale antimonarchica non significa la convinzione che l’istituto monarchico si oppone ad ogni reale progresso politico e sociale e che fino a quando esso non sarà abbattuto non vi sarà garanzia di libertà né possibilità di larga generale educazione in mezzo alle masse? Non dice nulla all’Albatrelli il fatto che cinquant’anni di propaganda repubblicana, socialista, anarchica hanno messo capo... al fascismo? Per noi alla pregiudiziale antimonarchica bisogna aggiungere quella anticapitalista: ma i repubblicani, che danno importanza primordiale alla forma politica, dovrebbero per lo meno esigere... la repubblica. Altrimenti il loro repubblicanesimo si ridurrebbe ad un’affermazione di ideale lontano, ad una vaga “tendenzialità” che potrebbe essere accettata anche da Mussolini e da Vittorio Emanuele.
È vero: non è probabile che una Costituente convocata alla caduta del fascismo voterebbe la monarchia. La massa del popolo è stanca e vaga di cambiamenti, e la borghesia ha bisogno di ordine e di tranquillità che nelle circostanze sarebbero meglio assicurate da una repubblica, forte di tutte le illusioni dei regimi nuovi, anziché del contrastato ripristino di quella istituzione contro cui il movimento sarebbe stato fatto. Ma è d’altra parte probabilissimo, quasi certo, che la Costituente, essendo quel che può essere un corpo legislativo nominato nelle attuali condizioni morali ed economiche del popolo italiano, cioè composta in maggioranza di conservatori e di clericali, di proprietari e di avvocati rappresentanti dei grossi interessi finanziari, ci darebbe una repubblica conservatrice e clericale come quella che si fece in Francia alla caduta del secondo Impero e che dopo più di cinquant’anni è ancora la repubblica accentratrice e capitalistica di oggi.
A parte il diritto, che noi non riconosciamo, della maggioranza d’imporsi con la forza alla minoranza, a parte la considerazione che nessun congegno elettorale può riuscire ad eleggere una rappresentanza che esprima la volontà della maggioranza, anche se esistesse una maggioranza con una unica volontà, resta sempre il fatto che in regime capitalistico, quando la società è divisa in ricchi e poveri, in padroni ed in lavoratori il cui pane dipende dall’arbitrio del padrone, non vi possono essere elezioni veramente libere, come resta pure il fatto che in regime unitario le regioni più evolute sfruttano le più arretrate, ma quelle più arretrate sopraffanno col numero le più evolute, ne inceppano i progressi e tendono ad abbassarle al loro livello.
“Il popolo liberamente interrogato”, dice l’Albatrelli. Ma è possibile che egli vi creda davvero?!
In alcune città tra le più importanti ed in qualche plaga più progredita i conservatori si eclisserebbero e la massa, nell’effervescenza rivoluzionaria, nominerebbe una maggioranza di socialisti, di repubblicani, di comunisti ed anche di anarchici se questi si prestassero alla commedia; ma anche là è un inganno il dire che le elezioni si farebbero in regime di libertà. Noi siamo purtroppo un popolo di violenti e le ultime esperienze della guerra e del fascismo hanno esacerbato fino al parossismo tutti i nostri peggiori istinti. Anche se i dirigenti, gli uomini più in vista e più popolari volessero davvero rispettata la libertà di ciascuno, l’imposizione, la frode, la violenza avrebbero sulla nomina dei rappresentanti più influenza, che la volontà illuminata e libera della maggioranza
Ma, si badi, a controbilanciare ed a sopraffare le rappresentanze rivoluzionarie delle città e delle regioni che chiamerei sovversive stanno le tante Vandee d’Italia, dove le elezioni si farebbero sotto la pressione economica e morale dei padroni e dei preti, aiutati anche con le violenze da quegli elementi che sono sempre pronti a far da mazzieri per chiunque ha possibilità e voglia di pagarli.
Che fare allora? Ripetere nella Costituente italiana la storia della Convenzione francese del 1792-93, dove i partiti si ghigliottinarono l’un l’altro e prepararono la via a Bonaparte, o quella dell’Assemblea “rurale” del 1871 che cominciò col massacro dei comunardi e continuò come simbolo e scudo della reazione borghese e clericale?
* * *
Ma, ci domanderanno, se non volete la Costituente, che cosa volete?
La Rivoluzione. E per rivoluzione non intendiamo il solo episodio insurrezionale, che è bensì indispensabile a meno che, cosa poco probabile, il regime non cada in isfacelo de sé senza il bisogno di una spinta dal di fuori, ma che sarebbe sterile se non fosse seguito dalla liberazione di tutte le forze latenti del popolo e servisse solamente a sostituire ad uno stato di coazione una coazione novella.
La Rivoluzione è la creazione di nuovi istituti, di nuovi aggruppamenti, di nuovi rapporti sociali; la Rivoluzione è la distruzione dei privilegi e dei monopoli; è un nuovo spirito di giustizia, di fratellanza, di libertà che deve rinnovare tutta la vita sociale, elevare il livello morale e le condizioni materiali delle masse chiamandole a provvedere coll’opera loro diretta e cosciente alla determinazione dei propri destini. Rivoluzione è l’organizzazione di tutti i servizi pubblici fatta da quelli che vi lavorano nell’interesse proprio e del pubblico; Rivoluzione è la distruzione di tutti i vincoli coattivi, è l’autonomia dei gruppi, dei comuni, delle regioni; Rivoluzione è la federazione libera fatta sotto la spinta della fratellanza, degli interessi individuali e collettivi, delle necessità della produzione e della difesa; Rivoluzione è la costituzione di miriadi di liberi aggruppamenti corrispondenti alle idee, ai desideri, ai bisogni, ai gusti di ogni specie esistenti nella popolazione; Rivoluzione è il formarsi ed il disfarsi di mille corpi rappresentativi, rionali, comunali, regionali, nazionali, che, senza avere nessun potere legislativo, servano a far conoscere e ad armonizzare i desideri e gli interessi della gente vicina e lontana ed agiscono mediante le informazioni, i consigli, l’esempio. La Rivoluzione è la libertà provata nel crogiuolo dei fatti – e dura finché dura la libertà, cioè fino a quando altri, profittando della stanchezza che sopravviene nelle masse, delle inevitabili disillusioni che seguono le speranze esagerate, dei possibili errori e colpe di uomini, non riesca a costituire un potere, che appoggiato ad un esercito di coscritti o di mercenari faccia la legge, arresti il movimento al punto dove è arrivato, e cominci la reazione.
L’Ansaldi alla mia domanda “come fate a sapere in qual modo si orienterà domani la vostra repubblica?” oppone: “Come sapete in qual modo si orienterà il vostro anarchismo?”. Ed ha ragione: sono troppi e troppo complessi i fattori della storia, sono così incerte ed indeterminabili le volontà umane che nessuno potrebbe seriamente mettersi a profetizzare l’avvenire. Ma la differenza tra noi ed i repubblicani è che noi il nostro anarchismo non vogliamo né cristallizzarlo in dommi, né imporlo con la forza: esso sarà quel che potrà essere e si svilupperà a misura che gli uomini e le istituzioni diventeranno più favorevoli alla libertà ed alla giustizia integrale. Mentre i repubblicani vogliono formulare la legge, la quale per definizione deve essere obbligatoria per tutti e quindi deve necessariamente imporsi ai ricalcitranti con la forza materiale. Rinuncino i repubblicani all’uso del gendarme e l’accordo sarà presto fatto.
È possibile, magari è certo, che il prossimo movimento metterà capo ad una repubblica. Ma questa repubblica sarà “sociale” se le riforme sociali saranno state prima attuate nel fatto e solo nel grado nel quale saranno state attuate; e sarà “federalista” solo se l’unità statale sarà stata rotta prima e l’autonomia regionale e comunale affermata nei fatti. E la reazione, cui per sua natura tende ogni governo, sarà tanto meno efficace, quanto più radicali sono state le riforme attuate nel periodo rivoluzionario.
Ché se invece, come pare sia l’intenzione dei repubblicani, si dovesse cominciare dalla Costituente per procedere poi alle riforme a mezzo di essa Costituente, il movimento antifascista poco giovamento potrebbe apportare.
Noi vi parteciperemmo lo stesso, ma sarebbe per lavorare in mezzo alle masse, fuori e se occorre contro della Costituente, per trarne il maggior profitto possibile a favore delle nostre idee, a favore della libertà e della giustizia.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 12 del 15 giugno 1924]
Demoliamo. E poi?
A proposito della recensione ch’io feci nel numero 9 di “Pensiero e Volontà” del libro di Galleani a La fine dell’anarchismo? Il compagno Benigno Bianchi mi scrive:
“Credo che non ti rincrescerà se ti scrivo per richiamare la tua attenzione su un tuo periodo che potrebbe provocare malintesi incresciosi. Intendo parlare del secondo capoverso delle parole del Galleani riportate nel tuo articolo.
“In detto passo Galleani dice della necessità di sgombrare ai nepoti il terreno dai pregiudizi, dai privilegi, dalle chiese, dalle galere, dalle caserme, dai lupanari, ecc. È perciò necessario distruggere e non costruire.
“Tu rispondi candidamente che sarebbe ridicolo, e mortale se si facesse davvero il voler distruggere tutti i forni malsani, tutti i mulini e tutte le culture arretrate, rimettendo ai posteri la cura di cercare ed applicare metodi migliori per coltivare il grano, per far la farina e cuocere il pane.
“O buon Errico, il cuocere il pane, in un modo o nell’altro, è indispensabile, come è necessario coltivare il grano e macinarlo ed il voler distruggere questi mezzi come altri consimili, più che l’essere ridicolo è vera pazzia!
“Quindi queste cose si rinnoveranno, si trasformeranno, si perfezioneranno: ma non vorrai mica rinnovare e perfezionare le galere, le chiese, le caserme, i lupanari e nemmeno i monopoli ed i privilegi di cui parlava il Galleani.
“A me pare che il paragone non regga e conseguentemente cade tutto l’ordito dell’articolo critico in parola.
“La serietà della Rivista e l’autorità della tua parola mal sopportano questi stiracchiamenti polemici”.
Naturalmente le osservazioni del compagno Bianchi non mi rincrescono punto. Al contrario, io lo ringrazio di avermi fornito l’occasione di ritornare sopra una questione di vitale importanza per lo sviluppo e la riuscita del nostro movimento.
Lasciamo da parte Galleani. Se l’ho male interpretato egli può dirlo meglio di chiunque altro, ed io sono sempre pronto a fare ammenda. Discutiamo l’argomento in sé.
L’esempio del pane da me citato pare al Bianchi uno stiracchiamento polemico: a me invece sembra calzante. Io ho l’abitudine (non so se è un pregio o un difetto) di cercare sempre esempi elementari, semplici, direi anche grossolani, perché essi scartano tutti gli artifici retorici e mettono a nudo il nocciolo delle questioni.
I mezzi per fare il pane sono indispensabili, quindi, dice il Bianchi, sarebbe pazzia pensare alla loro distruzione anziché al loro perfezionamento. Ma il pane non è la sola cosa indispensabile; io dico anzi, che sarebbe molto difficile trovare una qualsiasi istituzione attuale, anche fra le peggiori, anche le galere, i lupanari, le caserme, i privilegi, i monopoli, che non risponda diretta o indirettamente ad un bisogno sociale e che sia possibile distruggere realmente e permanentemente se non si sostituisce con qualche cosa che soddisfi meglio il bisogno che l’ha generata.
Non mi domandate, diceva un compagno, che cosa sostituiremo al colera: questo è un male, ed il male bisogna distruggerlo e non sostituirlo. È vero, ma il guaio è che il colera perdura e ritorna se non si sostituiscono condizioni igieniche migliori a quelle che permettono il sorgere ed il propagarsi dell’infezione.
Il pane è una cosa necessaria, siamo d’accordo. Ma la questione del pane è più complessa di quello che può sembrare a chi vive in un piccolo centro agricolo e magari produce egli stesso il grano necessario alla sua famiglia. Fornire il pane a tutti è un problema che abbraccia tutta quanta l’organizzazione sociale: il modo di possedere e di lavorare la terra, i mezzi di scambio, i trasporti, l’importazione del grano se quello che si produce nel paese è insufficiente, la distribuzione tra i vari centri abitati e poscia tra i singoli consumatori; vale a dire implica la soluzione da dare alle questioni della proprietà, del valore, della moneta, del commercio, ecc. Oggi la produzione e la distribuzione del pane si fa in modo che i lavoratori restano sfruttati ed umiliati, i consumatori restano derubati, e a spese dei produttori e dei consumatori prospera tutto un esercito di parassiti. Noi vogliamo invece che il pane si produca e si distribuisca per il maggior bene di tutti, senza sciupio di forze e di materiale, senza oppressione di alcuno, senza parassitismi, con giustizia e con bontà; e dobbiamo cercare il modo di realizzare la nostra aspirazione o quanto più è possibile, in un dato momento, di quella nostra aspirazione. I nipoti faranno certamente meglio di noi; ma noi dobbiamo fare come sappiamo e possiamo – e farlo subito, il giorno stesso della crisi, poiché, se per l’interruzione del servizio ferroviario, o le manovre dei padroni mugnai e fornai, o l’occultamento del prodotto, i grandi centri venissero a mancare di pane (e altre cose di prima necessità) la rivoluzione sarebbe perduta e trionferebbe la reazione, sotto forma di restaurazione, o sotto forma di dittatura.
Distruggiamo i monopoli: d’accordo. Ma i monopoli quando siano quelli dei bottoncini da camicia o del rossetto per le labbra di certe signorine, i grossi monopoli (acqua, elettricità, carbone, trasporti di terra e di mare, ecc.) rispondono sempre ad un servizio pubblico necessario; e non si distruggono quei monopoli, o se ne produce il sollecito ritorno, se nell’atto stesso che si mandan via i monopolisti non si continua il servizio e, possibilmente, in modo migliore di quello che avveniva sotto di loro.
Bisogna abolire le galere, questi tetri luoghi di pena e di corruzione dove, mentre i detenuti gemono, i guardiani si fanno il cuore duro e diventano peggiori dei guardati: d’accordo. Ma quando si scopre un satiro che stupra e strazia dei corpicini di povere bimbe, bisogna pur provvedere a metterlo in istato di non poter nuocere, se non si vuole ch’egli faccia altre vittime e finisca poi coll’essere linciato dalla folla. Ci penseranno i futuri? No, dobbiamo pensarci noi, perché questi fatti avvengono oggi. Nel futuro, speriamo, i progressi della scienza ed il mutato ambiente sociale avranno rese impossibili quelle mostruosità.
Distruggere i lupanari, questa turpe vergogna umana, vergogna più per chi ne sta fuori che per le disgraziate che vi stanno dentro: certamente. Ma il lupanare si riformerà subito, pubblico o clandestino, sempre che vi saranno donne che non trovano lavoro adatto e vita conveniente. Quindi necessità di un’organizzazione del lavoro in cui vi sia posto per tutti, e un’organizzazione del consumo in modo che tutti possano soddisfare i loro bisogni.
Abolire il gendarme, quest’uomo che protegge con la forza tutti i privilegi ed è il simbolo vivente dello Stato: d’accordissimo. Ma per potere abolirlo permanentemente e non vederlo ricomparire sotto altro nome ed altra uniforme, occorre saper vivere senza di esso, cioè senza violenza, senza sopraffazioni, senza ingiustizie, senza privilegi.
Abolire l’ignoranza: d’accordo. Ma evidentemente bisogna prima istruire ed educare, e prima ancora creare condizioni sociali che permettano a tutti di profittare dell’educazione e dell’istruzione.
“Lasciare ai nepoti una terra senza privilegi, senza chiese, senza tribunali, senza lupanari, senza caserme, senza ignoranza, senza stolide paure”. Sì, questo è il nostro sogno e per realizzare questo sogno noi combattiamo. Ma questo significa lasciar loro una nuova organizzazione sociale, nuove e migliori condizioni morali e materiali. Non si può sgomberare il terreno e lasciarlo nudo, se su di esso debbono vivere degli uomini: non si può distruggere il male senza sostituirvi il bene, o almeno qualche cosa che sia meno male.
Non si tratta d’imporre niente ai nepoti. È da sperare, ripeto, ch’essi faranno meglio di noi; ma noi dobbiamo fare oggi quel che sappiamo e possiamo, per vivere noi, e per lasciare ai nepoti qualche cosa di più che belle parole e vaporose aspirazioni.
È uno stato d’animo che, malgrado molta propaganda in contrario, persiste ancora in parecchi compagni e che, secondo me, sarebbe urgente cambiare.
La convinzione, che è anche la mia, della necessità di una rivoluzione per eliminare le forze materiali che stanno a difendere il privilegio e ad impedire ogni reale progresso sociale, ha fatto sì che molti han data importanza esclusiva al fatto insurrezionale senza pensare a quello che bisogna fare perché una insurrezione non resti uno sterile atto di violenza a cui poi verrebbe a rispondere un altro atto di violenza reazionaria. Per questi compagni tutte le questioni pratiche, le questioni di organizzazione, il modo di provvedere al pane quotidiano sono oggi questioni oziose: sono cose, essi dicono, che si risolveranno da sé, o le risolveranno i posteri.
Ricordo il 1920, quando ero incaricato della direzione di “Umanità Nova”. Era l’epoca in cui i socialisti cercavano d’impedire la rivoluzione, e purtroppo vi riuscirono, dicendo che, in caso di movimento insurrezionale, le comunicazioni coll’estero sarebbero interrotte e che saremmo morti tutti di fame per mancanza di grano: vi fu perfino chi disse che la rivoluzione non si poteva fare perché in Italia non si produce caucciù! Io, preoccupato della questione essenziale dell’alimentazione e convinto che la deficienza di grano si poteva compensare utilizzando tutte le terre disponibili per la cultura di piante e semi nutritivi a rapido sviluppo, pregai il nostro compagno dottor Giovanni Rossi, agronomo provetto, di scrivere una serie di articoli con nozioni pratiche di agricoltura dirette appunto allo scopo che avevamo in vista. Il Rossi gentilmente lo fece. Era cosa evidentemente utilissima; ma era cosa pratica e perciò non piacque a tutti. Vi fu un compagno, irritato perché io gli avevo rifiutato l’inserzione non so più se di una poesia o di una novella, il quale mi disse bruscamente: “Già, tu preferisci che in ‘Umanità Nova’ si parli di aratri, di ceci, di fagioli, di cavoli e simili sciocchezze!”.
Ed un altro compagno, che la pretendeva allora a superanarchico, tirava incoscientemente la conseguenza logica di quello stato d’animo. Messo colle spalle al muro in una discussione, come quella che facciamo adesso, mi rispose: “Ma questo sono cose che non mi riguardano. A provvedere il pane ed il resto ci debbono pensare i dirigenti”.
E la conclusione è proprio questa: O alla riorganizzazione sociale ci pensiamo tutti, ci pensano i lavoratori da loro stessi e ci pensano subito, mano a mano che vanno distruggendo il vecchio, e si avrà una società più umana, più giusta, più aperta ai progressi futuri; o ci penseranno “i dirigenti” ed avremo un nuovo governo, che farà quello che han fatto sempre i governi, cioè farà pagare alla massa gli scarsi e cattivi servizi che rende, togliendole la libertà e lasciandola sfruttare da parassiti e privilegiati di tutte le specie.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 10 del 16 giugno 1926]
E poi? Chiarimenti
Il mio articolo del n. 10 “Demoliamo e poi?” ha lasciato perplesso qualche compagno, forse perché scuoteva delle vecchie abitudini mentali, o forse piuttosto perché io non sviluppai abbastanza il mio pensiero e riuscii oscuro.
Cercherò di spiegarmi meglio.
C’è, per esempio, il compagno Salvatore Carrone il quale immagina, nientedimeno ch’io, dopo o durante la rivoluzione, vorrei conservare, provvisoriamente, gendarmi, galere e tutto l’apparato repressivo dello Stato; e getta il suo grido d’allarme contro questo modo d’intendere la rivoluzione, che ci lascerebbe nel circolo vizioso: la reazione che provoca la rivoluzione e la rivoluzione che sbocca in una nuova reazione. E giustamente osserva che “la rivoluzione può essere guidata da uomini di cuore, di buon senso e volenterosi di fare il bene, ma a poco a poco attorno a questi buoni si infiltrano torbidi elementi che avendo una vasta rete di accoliti sparsi nella nazione, accerchiano i buoni e fatalmente li spodestano, o questi per reggersi al potere tradiscono la rivoluzione, adoperando per la bisogna appunto il gendarme, e il tribunale coi suoi accessorii”.
Perfettamente d’accordo, ed io non ho mai detto cosa diversa.
Io dico che per abolire il gendarme e tutte le istituzioni sociali malefiche bisogna sapere che cosa vogliamo sostituirvi, non in un domani più o meno lontano, ma subito, il giorno stesso della demolizione. Non si distrugge, realmente e permanentemente, se non quello che si sostituisce; e rimandare a più tardi la soluzione dei problemi che si presentano coll’urgenza della necessità sarebbe dare alle istituzioni che si pretende abolire il tempo di rifarsi della scossa ricevuta ed imporsi di nuovo, forse con altri nomi, ma certo colla stessa sostanza.
Le nostre soluzioni potranno essere accettate da una parte sufficiente della popolazione ed avremo fatto l’anarchia, o un passo verso l’anarchia; o potranno non esser comprese ed accettate e allora la nostra opera servirà, per propaganda, e poserà innanzi al grande pubblico il programma del prossimo avvenire. Ma in ogni caso delle soluzioni nostre dobbiamo averle, soluzioni provvisorie, rivedibili, e correggibili sempre al lume dell’esperienza, ma necessarie se non vogliamo subire passivamente le soluzioni degli altri, limitandoci alla poco proficua funzione di brontoloni incapaci ed impotenti.
A proposito di gendarmi io citavo il caso del satiro e dicevo della necessità di provvedere a metterlo nell’impossibilità di nuocere.
Il Carrone sembra propendere per il linciaggio. È una soluzione primitiva, selvaggia, che ripugna alla mentalità moderna, ma è una soluzione; e varrebbe sempre meglio che la beata fiducia che quelle cose, fatta la rivoluzione, non avverranno più, o il magro espediente di rimandare il problema ai nepoti. Senonché avverrebbe, come è sempre avvenuto in casi simili (ed anche recentemente a Roma ed altrove) che la folla irritata, commossa, non sapendo con chi prendersela, si scaglia chi sa su quanti poveri diavoli indicati al suo furore da donne rese isteriche dallo sdegno e dalla paura. E allora la gente calma invocherebbe l’intervento della polizia, di una qualsiasi polizia professionale... che a sua volta molesterebbe molti innocenti e d’abitudine non riuscirebbe a trovare il colpevole.
Che cosa bisognerebbe dunque fare?
Persuadere la gente che la sicurezza pubblica, la difesa della incolumità e della libertà di ciascuno deve essere affidata a tutti; che tutti debbono vigilare, che tutti debbono mettere all’indice il prepotente ed intervenire in difesa del debole, che i compaesani, i vicini, i compagni di lavoro debbono all’occorrenza farsi giudici e, nei casi estremi, come quello in discussione, affidare chi è riconosciuto colpevole alla custodia ed alla cura di un manicomio, aperto sempre al controllo del pubblico. Ed in ogni caso evitare che la difesa contro i delinquenti diventi una professione e serva di pretesto alla costituzione di tribunali permanenti e di corpi armati, che diventerebbero presto strumenti di tirannide.
Ma insomma questa della delinquenza non è che una questione secondaria, per quanta sia la prima che si affaccia alla mente di coloro a cui si parla per la prima volta dell’inutilità e della nocuità del governo. Nessuno pretenderà che qualche satiro o qualche prepotente sanguinario possano arrestare il corso della rivoluzione!
L’importante, l’immediatamente urgente è l’organizzazione della vita materiale, la soddisfazione cioè dei bisogni primordiali ed il lavoro che a quei bisogni deve provvedere. Poiché quello che non riusciremo noi a fare ed a far fare con metodi nostri sarà fatto necessariamente da altri con metodi autoritari.
L’anarchia non si realizzerà se non quando si saprà vivere senza autorità, ed in quelle proporzioni in cui si riuscirà a fare a meno dell’autorità.
Ma ciò non vuol dire che bisogna, come il Carrone pensa o crede ch’io pensi, aiutare in caso di rivoluzione il partito più affine colla speranza che questo faccia meno reazione durante “l’opera nostra di sostituire il bene al male”.
Noi possiamo avere rapporti di cooperazione coi partiti non anarchici finché abbiamo con loro un nemico comune da combattere e che non potremmo abbattere da soli; ma dal momento che un partito va al potere e diventa governo, noi non possiamo avere con lui che rapporti di nemico a nemico.
Certamente noi abbiamo interesse, finché esiste un governo, che questo sia il meno oppressivo, cioè il meno governo possibile.
Ma la libertà, anche una libertà relativa, non si ottiene da un governo aiutandolo. Si ottiene solo facendogli sentire il pericolo di troppo comprimere.
[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 12 del 1° agosto 1926]