Taro Colocasia

Quale Liberazione Animale?

Critica all’attivismo vegano

      Introduzione

      La frammentazione

      La liberazione animale

      La liberazione delle altre specie

      L’animalismo vegano riformista

      Veganizzazione

      Messaggio depotenziato

      Convincimento

      Pornografia del dolore

      Auto-celebrazione

      Pacifismo

      Campagne riformiste

      Apoliticità

      Conclusione

      Testi consigliati

Introduzione

L’obiettivo di questo testo è analizzare i differenti modi operandi dei gruppi di attivismo più comuni, le idee dietro le loro azioni e le loro fallacie. Il testo è uno spunto di riflessione e una critica, e come tale va preso. Non voglio etichettare una persona in base alle proprie idee o incasellarla, ma porre le basi per un dibattito che sono sicurə gioverebbe a molte persone, inclusə me.

Per motivi di semplificazione ho deciso di tralasciare alcune critiche dando spazio a quelle, secondo me, più importanti. Ho cercato quindi di sviluppare un testo breve, semplice e scorrevole ma che centrasse i punti cardine del discorso.

Mi scuso in anticipo per alcune fonti riportate a piè di pagina in lingua inglese, ma non mi è stato possibile trovare ogni fonte in italiano.

La frammentazione

Come ogni altro movimento, quello vegano è frammentato ed è facile imbattersi in situazioni in cui molte energie vengono concentrate in “battaglie interne”, definibili anche “dibattiti vuoti”, prive di voglia di crescere e confrontarsi, piene di odio, competizione e saccenteria, incrementate sicuramente anche dall’uso dei social network. Nel movimento di liberazione animale troviamo in particolare due parti opposte e ben distinte che per semplificare chiamerò animalismo vegano riformista e antispecismo.

L’animalismo vegano riformista è l’attivismo più comune, spesso pacifista, che tra i suoi obiettivi principali punta al cambio di alimentazione mondiale indirizzato al consumo vegetale e la riforma di leggi sul benessere animale che migliorino gradualmente la condizione da carceratз, fino alla sua completa abolizione. Spesso i gruppi che fanno parte di questo tipo di attivismo si auto-definiscono apolitici. Tante sono le sfumature e frammentazioni di questo tipo di gruppi e una persona che ne fa parte non per forza ha lo stesso pensiero di un’altra, ma questo è a grandi linee il quadro generale. Alcuni gruppi appartenenti a questa tipologia sono Anonymous for the Voiceless, The Save Movement, Animal Equality, PETA, Essere Animali.

L’antispecismo è, invece, una teoria, che però trascina con sé pratiche diverse, da quelle meno a quelle più comuni. Esso si pone come obiettivo quello di andare fino alla radice di tutto ciò che è concatenato allo specismo e lavorare su quello. L’antispecismo rifiuta tutte le forme di discriminazione e lavora di conseguenza anche su altri tipi di oppressione ed è per sua natura intersezionale[1], ergo una persona che si definisce antispecista e ha continuamente atteggiamenti razzisti o transfobici non ha ben capito di cosa si tratti. L’antispecismo si pone come obiettivo finale la liberazione della Terra e di ogni essere, indipendentemente dalla sua forma anatomica o specie/etnia/genere di appartenenza, ed asserisce che la liberazione o è per tuttз o non è. Ciò significa che l’antispecismo vede la liberazione delle altre specie ì intrinsecamente connessa alla liberazione umana e della Terra e che nessuna di queste può verificarsi senza le altre. Va da sé che questo tipo di teoria spinge verso tipi di attivismo più radicali e meno pacifisti.

Non voglio entrare troppo nel dettaglio, ma solo definire il mio pensiero in merito a queste due “fazioni”, anche se è bene specificare che non esiste sempre una differenza ferrea tra le due e che a volte alcune persone oscillano da una parte all’altra, per confusione, per pressioni sociali o altro.

Voglio concentrare il focus sull’animalismo vegano riformista, perché lo considero fallace, contraddittorio e debole, se visto come mezzo per raggiungere la “liberazione animale”, anche se per esperienze personali anche i gruppi antispecisti non sono esenti da critiche, alcune delle quali coincidono con quelle riportate in questo testo.

La liberazione animale

Prima di poter discutere delle critiche abbiamo necessariamente bisogno di chiarire un punto fondamentale senza il quale non sarebbe possibile continuare: cosa si intende esattamente per “liberazione animale”. Teoricamente, entrambi i gruppi di pensiero mirano ad una presunta liberazione animale, ma il concetto di liberazione sembra talmente semplice da capire che alla fine lo si dà per scontato e si smette di dedicargli tempo e studio. Lanciando un’occhiata alla società umana industriale, possiamo vedere che l’essere umano ha ormai privatizzato tutte le terre una volta libere e abitate da umani e non umani senza un controllo sistemico della natura. Nel tempo, la specie umana ha creato le dicotomie umano/natura e umano/animale, che hanno giustificato il controllo dei processi naturali e il dominio sulle altre specie, iniziando una guerra contro l’intero ecosistema. La nostra specie si definisce umana ancora prima di definirsi animale, amplificando la distanza tra noi e loro, come se noi non facessimo parte del regno animale.

Vedere la liberazione non umana sconnessa da quella umana è insensato, perché l’essere umano è di fatto un animale oppresso dal sistema economico da egli stesso creato, pur giocando entrambi i ruoli di oppresso e oppressore.

Non mi dilungherò lanciando una critica approfondita al nostro sistema economico e ai suoi mezzi di repressione e oppressione, perché non è l’obiettivo di questo testo, ma ci tengo a sottolineare che quando parliamo di liberazione animale stiamo parlando anche di liberazione umana[2] , e non può esistere liberazione umana in un sistema coercitivo e discriminante.

Chi vive in una società occidentale e industriale ha imparato sin dall’infanzia ad essere specista, sessista, razzista e transfobicə. Dalla famiglia all’asilo impariamo le distinzioni di genere ed è lì che diventiamo maschi e femmine e interiorizziamo questi ruoli[3], così come interiorizziamo l’idea che le altre specie esistano per essere utilizzate da noi o che chi non ha un lavoro produttivo (per la società) sia unə fallitə. Non è colpa dell’individuo, ma dell’educazione e dei valori che assorbe dal contesto sociale a cui appartiene e dalle tradizioni che vengono tramandate di generazione in generazione. Il processo di liberazione inizia anzitutto nella mente di ognunə di noi ed è lì, a mio parere, che scatta la nostra responsabilità.

La liberazione non può non passare dalla decostruzione dei dogmi che abbiamo imparato.

La liberazione delle altre specie

Nel corso dei millenni, le specie utilizzate nel mercato (alimentare, dell’intrattenimento, del trasporto o altro) sono state private, oltre che della loro identità, anche della loro indipendenza. Attraverso un processo di deforestazione adottato in tutto il mondo, la specie umana ha distrutto l’habitat di molte specie (inclusa la propria) per fare spazio a fabbriche, città e monocolture intensive che impoveriscono il terreno. Sostenere che la maggior parte dell’inquinamento ambientale sia causato dagli allevamenti intensivi è un’affermazione corretta, ma incompleta. Nella regione dello Champagne, in Francia, esistono chilometri e chilometri di viti che prendono il posto di foreste centenarie abbattute per fare spazio alla viticoltura, lasciando specie senza habitat e un panorama terrificante, ma che purtroppo affascina moltə, ignarə delle origini e delle conseguenze di tale vista. La multinazionale RWE, in Germania, distrugge foreste e villaggi per estrarre lignite[4], uccidendo così individui di specie che le abitano da millenni o costringendoli in spazi sempre più piccoli.

Esempi del genere potrebbero andare avanti all’infinito. Il concetto è semplice: il nostro sistema economico spinge gli esseri umani a distruggere ecosistemi per estrarre minerali e combustibili fossili funzionali alla sopravvivenza del sistema stesso.

Arrivando al punto del discorso possiamo certamente dire che più passa il tempo, meno indipendenza hanno le poche specie che abitano libere.

Ora mi (ri)chiedo: può esistere una liberazione delle altre specie animali parallelamente al dominio della specie umana sulla Terra? La risposta è no. Una “rivoluzione vegana” non può in nessun modo liberare i non umani dal dominio umano, perché il tipo di attivismo che è stato portato avanti fin’ora non si è concentrato su quello, ma sul cambiamento del mercato. Abbiamo reso quasi tutta la superficie terrestre vivibile dalla sola specie umana, per cui riformare la società in chiave vegan non ci porterà mai ad una situazione in cui le altre specie possano riacquisire la loro indipendenza, perché non avrebbero spazio. La supremazia umana rende impossibile la liberazione delle altre specie. La nostra società è pensata e costruita a misura d’umano. Se anche un animale allevatə riuscisse a ribellarsi e a scappare dal luogo in cui è detenuto, sarebbe comunque impossibilitato nel trovare la propria libertà, perché l’ambiente intorno a sé sarebbe sotto il controllo umano e gli apparati statali farebbero di tutto per dargli la caccia. Qualcunə di loro sarà fortunatə e troverà rifugio presso strutture organizzate, moltз verranno riportatз indietro, ma in ogni caso nessunə riuscirà ad uscire dallo schema del dominio umano, eccetto in qualche rara occasione[5] .

I rifugi non possono essere visti come una soluzione in un’ipotetica società vegana. I rifugi sono progetti sotto il controllo umano e che per motivi logistici non lasciano autonomia alle specie che ci abitano, ma sono un buon compromesso se visti in un’ottica di transizione verso una società migliore.

La liberazione umana e la liberazione non umana si fondono quindi in un’unica liberazione e verso un obiettivo finale comune: la liberazione dal dominio dell’umano sulla Terra e dai dogmi che sono stati costruiti e assimilati .

Non importa che l’obiettivo sia lontano e apparentemente irraggiungibile, ma che si inizi un percorso verso quella direzione.

L’animalismo vegano riformista

Dopo anni all’interno di gruppi come Anonymous for the Voiceless arrivai ad un punto in cui non sentii più le mie azioni allineate con i miei valori. Sviluppai delle critiche, anche grazie a persone in gamba a me vicine, ed iniziai a chiedermi a lungo andare a cosa avrebbe portato quel tipo di attivismo. In che modo avrei potuto aiutare queste anime imprigionate facendo diminuire il consumo dei loro corpi? L’aumento di consumo di prodotti vegani è davvero indice di un cambiamento positivo? È giusto chiedere cambi di legge allo stesso stato che quegli esseri viventi li ha imprigionati? Alla fine sono arrivatə alla conclusione di stare illudendo me stessə e chi mi stava intorno.

Veganizzazione

La logica consumista portata avanti dai gruppi menzionati si appoggia ad un puro concetto economico secondo cui più prodotti vegetali verranno consumati, meno non umani moriranno, ragionando secondo il paradigma della domanda e dell’offerta. Pur capendo ed aver creduto anch’io in questa logica, ci sono dei pezzi mancanti. Anzitutto, non stiamo considerando che la popolazione umana aumenta di circa 240.000 unità al giorno[6] e che una grande maggioranza di questa sarà consumatrice di prodotti animali; si aggiunga il fatto che possiamo considerare il paradigma della domanda e dell’offerta come una vecchia storia che non regge più. Se la logica della domanda e dell’offerta funzionasse per come la conosciamo, non ci sarebbero quasi un miliardo di tonnellate di cibo buttate nella spazzatura ogni anno[7]. Infatti le grandi aziende, in questo caso quelle rientranti nel settore alimentare, producono un surplus che, se non venduto, viene smaltito (parliamo di cibo totalmente commestibile). Basta fare un giro notturno nei cassonetti dei supermercati vicino casa per vedere quanto cibo viene buttato in un solo giorno.

Inoltre, ignoriamo l’impressionante potenza delle pubblicità, in grado di spingere l’offerta di un prodotto per stimolarne la domanda (ad esempio tramite offerte/sconti/saldi). Provare a spingere sul cambio di alimentazione non metterà in pericolo l’industria zootecnica, ma spingerà la gente a ridurre il consumo di corpi animali senza necessariamente avvicinarsi al loro boicottaggio o al percorso di decostruzione dello specismo.

Tra l’insorgenza di malattie cardiovascolari e tumori e il finto ecologismo abbracciato da molte multinazionali, le industrie portano avanti un greenwashing che spinge la gente a consumare più vegetali e surrogati di prodotti animali, vendendo spesso il veganismo come stile di vita o alimentazione sana da seguire per rimanere in salute e rispettare la Terra. Come abbiamo già detto, la distruzione degli ecosistemi è dovuta solo in parte all’industria zootecnica. Pensare di rispettare il pianeta esclusivamente cambiando alimentazione e senza mettere in discussione il proprio stile di vita nel suo complesso significa decidere di illudersi. Il boicottaggio stesso dei prodotti prende una certa consistenza solo quando questo è adottato su larga scala e in modo mirato. Non bisogna scoraggiarsi e smettere di parlare di specismo alle persone, ma cercare di essere realistз e provare a mollare l’idea che la rivoluzione possa avvenire attraverso il consumo.

Il consumo di carne è destinato ad aumentare[8] e il numero di persone che si interessano al veganismo non potrà mai eguagliare il numero di persone che consumano prodotti animali.

Il consumismo vegano cerca spesso di dividere i prodotti in “crudeli” e “non crudeli” e quelli realizzati senza sfruttamento animale rientrano nella categoria “non crudeli”, perché nessun non umano è stato usato nel processo. Ma cosa significa “non crudele”? La produzione di cibo in questo sistema economico è imprescindibilmente crudele, poiché sfrutta e distrugge l’ecosistema e di conseguenza chi ne fa parte: impossessamento e disboscamento di terreni, impoverimento della terra causato dalla monocoltura intensiva, inquinamento causato dal trasporto (specialmente se pensiamo ai molti prodotti esotici che sono visti come “cruelty-free”), utilizzo di pesticidi, condizioni di vita e basso salario della manovalanza sono solo alcuni esempi. Le multinazionali che vengono pressate e supportate affinché cambino il loro business in “verde” sono le stesse che impoveriscono i terreni con monoculture intensive, distruggono habitat di persone umane e non umane e inquinano l’atmosfera con enormi quantità di CO2. Una versione verde del nostro sistema economico non può essere più sostenibile di quella attuale, perché si baserebbe comunque sullo sfruttamento delle terre e l’estrazione delle “risorse” su larga scala e sarebbe destinato ad aumentare, se consideriamo la continua crescita della specie umana.

Messaggio depotenziato

Alcunз sostengono che non importa perché una persona inizi un percorso vegan, l’importante è che lo faccia.

La motivazione dietro questa affermazione è che “ognunə ha un proprio percorso e il proprio tempo”, e fin qui siamo pienamente d’accordo. Il problema, però, sta proprio nel mandare questo tipo di messaggio: un messaggio depotenziato per poter risultare commestibile a chiunque, inquinato e privato del suo vero significato. Evitare di parlare di specismo e di quello che comporta, supponendo che “la gente non capirebbe”, significa sabotare i significati stessi di veganismo e antispecismo. Significa mandare un messaggio meramente consumista, scegliendo la via più semplice, a discapito di una più complessa. Sono consapevole che parlare di argomenti come lo specismo e l’antropocentrismo sia complicato e che non sia possibile farlo con chiunque. Se però smettessimo di vedere il “consumismo vegano” e la “liberazione animale” come due strade, la prima più semplice e la seconda più complicata, che portano allo stesso risultato, ed iniziassimo invece a vederle come due percorsi completamente diversi che portano ad obiettivi diametralmente opposti, ci accorgeremmo anche che le nostre argomentazioni inizierebbero a prendere una forma più logica e più comprensibile per chi è un minimo interessatə all’argomento. È sicuramente molto più facile agire in modo da non mettere in dubbio le nostre convinzioni e continuare a viziarci nella nostra comodità, ma se decidiamo di rimanere nella nostra zona di comfort forse è il caso di farci delle domande e capire sul serio perché facciamo ciò che facciamo.

La veganizzazione a tutti i costi è spinta dalla voglia di aumentare i numeri delle persone vegane e dei prodotti vegani negli scaffali, vedendo il tutto come indice di cambiamento positivo. Non nego che alcuni cambiamenti (economici e legali) hanno probabilmente reso più semplice affrontare l’argomento dello specismo, tuttavia ci si basa sull’illusione di un progresso prendendo come unità di misura il numero di prodotti industriali nei negozi, ma finché non si discuterà in profondità su quanto e come lo specismo sia radicato in noi, sarà impossibile estirparlo dalle nostre menti, con o senza macelli. La società umana è antropocentrica e non lascia indipendenza alle altre specie: che sia in una società vegana o meno, questo non mina in nessun modo il controllo della nostra specie sull’ecosistema e quindi anche sui non umani.

Convincimento

La veganizzazione passa attraverso un processo di convincimento. Così la persona di fronte a noi non deve più essere informata sullo specismo tramite un dibattito costruttivo prendendosi il proprio tempo per elaborare il tutto, ma deve essere convinta, pacatamente e a volte in modo passivo-aggressivo, mascherando il dibattito in quella che viene chiamata “informazione”[9]. Le conversazioni tra attivista vegan e “passante mangia- carne” si trasformano spesso in una gara a chi è più convincente e chi ha più ragione. Il focus è spesso quello di vincere il dibattito, piuttosto che uscirne arricchitə, e se la persona di fronte a noi non viene convinta, allora viene vista come una sconfitta. Questo senso di impotenza, nato dall’idea che siamo responsabili di risolvere determinati problemi e che se non lo facciamo allora abbiamo fallito, dà il suo contributo alla nascita di esaurimenti nervosi molto presenti in gruppi impegnati in temi sociali, che spesso e volentieri non curano la sfera psicologica dell’individuo.

Pornografia del dolore

Maiali castrati, pulcini triturati, percosse e uccisioni, il tutto accompagnato da tristi brani musicali scelti ad hoc. Queste immagini sfruttano l’emotività di chi guarda, provando a portarlə alla veganizzazione. Non rifiuto l’idea di mostrare ciò che succede all’interno di quei luoghi di morte e sfruttamento, ma credo che strumentalizzare queste immagini sia distruttivo. Questa strumentalizzazione crea una pornografia del dolore simile a quella impiegata da diverse “organizzazioni umanitarie” (es. mostrarti un bambino che muore di fame per indurti a donare denaro). Sappiamo che l’obiettivo di alcuni gruppi non è quello di guadagnare denaro, ma il concetto alla base è analogo. Mostrare video di animali sofferenti, piuttosto che di animali che si ribellano, è il culmine di un processo di invisibilizzazione della loro abilità di agire e del loro silenziamento. Inoltre, da un punto di vista pratico, mostrare video di ribellioni è più efficace perché smonta immediatamente il concetto di animale-macchina che abbiamo interiorizzato: gli atti di ribellione parlano da soli, o meglio, permettono di “dare loro parola”[10]. Vulnerabilità

Mostrare ciò che viene tenuto nascosto ha la sua importanza, tuttavia ogni caso va valutato singolarmente, considerando anche che l’attivismo a cui si è fatto riferimento in precedenza vede coinvolte persone che, passeggiando per strada, si ritrovano di fronte ad uno scenario inaspettato. Ho conosciuto persone che solo alla parola sangue sentivano traumi risalire a galla. Mostrare video cruenti per strada non solo distrugge una comunicazione essenziale da parte degli animali non umani, ma ignora anche il consenso di chi, per qualsiasi motivo, non riesce a vedere certe immagini.

Distruggere il consenso di una persona su argomenti così delicati può portarla a stare male per giorni o più e l’atto di mostrare video cruenti viene visto come una violenza di per sé, e alla fine non sarà stato comunque determinante per “convincerla”. Il fatto che alcune persone affermino di essere cambiate istantaneamente alla vista di certe immagini non vuol dire che funzioni con tuttз. Le informazioni che vengono fornite possono essere viste forse come un aiuto, ma non saranno determinanti. Non è fondamentale il cosa viene o non viene mostrato, ma il percorso della persona che abbiamo di fronte.

L’argomento della violenza nella nostra società è delicato e va accettato il fatto che alcune persone non riescano o non vogliano vedere certe immagini, e non andrebbero mai forzate a farlo. Mostrare video cruenti per strada con schermi sempre più grandi è un’imposizione pericolosa, oltre ad essere inutile alla causa.

Il dibattito sullo specismo non necessita di queste immagini: se una persona vuole mettersi in discussione, lo farà a prescindere dai video che guarderà.

Auto-celebrazione

Un’altra cosa che ho notato nei miei anni da attivista è che nell’ambiente dell’animalismo vegano si ha la tendenza ad idolatrare alcune persone o alcuni gruppi. Cene, eventi e incontri organizzati in cui ci si auto congratula dell’operato e in cui si discute su come la strada verso il vegan sia sempre più aperta e veloce. Con la spinta dei social network è ormai facile costruire dei veri e propri personaggi grazie al veganismo, alimentando il proprio ego con video o lunghi post filosofici. Qualcunə di loro è anche riuscitə a farsi soldi o a guadagnare “fama”.

La campagna della veganizzazione è portata avanti da massime come “salva gli animali, non mangiarli” o “diventando vegan salvi 200 animali all’anno” e così via, che ancora una volta spostano l’attenzione dagli animali non umani a noi. La specie umana ha imparato così bene a colonizzare e ad impossessarsi di ciò che non le appartiene che si appropria anche delle lotte altrui, mettendosi in prima linea, non come supporto ma come principale agente, e cerca di far sentire la persona vegana comune come un’eroina da stimare che sta salvando degli esseri indifesi, dimenticando l’obiettivo finale. Alcune persone hanno fatto dell’essere “vegan” la propria personalità, costruendo un’immagine per guadagnare soldi e fama come dellə imprenditricə. Sembra quasi che il veganismo sia spesso feticizzato per creare un’immagine e guadagnare soldi e/o fama (che sia all’interno di un piccolo gruppo o di uno più vasto).

Alcune persone che si spingono oltre l’asta della legalità[11] sentono spesso il bisogno di parlarne perché queste cose fanno sentire forti, potenti, utili, creano miti. Il ruolo del “salvatore” è interiorizzato da molte persone e l’atto di aiutare fisicamente qualcunə in difficoltà viene inconsapevolmente usato come carburante per l’ego. Spesso chi gioca il ruolo del salvatore ha in sé un alto livello di mascolinità, di fatto il ruolo viene spesso (anche se non sempre) incarnato da maschi cisessuali[12].

Pacifismo

Credo che questo sia l’argomento più scottante che spesso divide le persone in due poli: chi crede che la violenza sia sempre sbagliata e che il cambiamento vada conseguito attraverso la riforma delle leggi, e chi crede che la violenza sia l’unico modo per aiutare concretamente chi è in una situazione di oppressione.

I concetti di non-violenza e violenza sono sempre divisi drasticamente tra bianco e nero, tra giusto e sbagliato. Non sono visti come due mezzi da utilizzare per raggiungere un determinato fine, ma come due strade irreversibili, oserei dire due ideologie.

Fermo restando che considero la non-violenza e la violenza come due differenti mezzi da usare in base alle circostanze, e senza addentrarmi troppo nel significato di “violenza” o sulla presunta violenza economica attribuita al sabotaggio di un oggetto (come un camion di trasporto animale), vorrei sottolineare che chi parla di pacifismo viene spesso da una posizione di privilegio.

La violenza è da sempre stata usata da gruppi oppressi verso i gruppi che li opprimevano. Gli animali non umani imprigionati nei luoghi di detenzione ricorrono continuamente alla violenza per resistere e ribellarsi, ma le loro azioni vengono ignorate e silenziate anche dalle stesse persone che teoricamente supportano la loro lotta. Il silenziamento avviene anche portando avanti l’idea che il sabotaggio dei mezzi e dei luoghi del loro sfruttamento sia sbagliato. Anche questo è un pensiero specista comune nell’ambiente vegano. Se in quei luoghi ci fossero, ad esempio, bambinз umanз, le azioni di sabotaggio sarebbero giustificate e supportate dalla maggioranza. Ciò denota che in questo movimento (ma in generale nella nostra società) non è rilevante l’uso della violenza di per sé ma per chi viene usata.

La violenza è un mezzo di liberazione e gli atti di sabotaggio possono essere usati per dare vita a dibattiti importanti. Non si parla quindi di violenza gratuita e crudele verso innocenti, ma violenza usata con cognizione di causa, che non mira direttamente alle persone bensì alle loro ideologie e ai dispositivi (fisici e non) di oppressione. È sempre facile sostenere non-violenza e pacifismo quando non siamo le vittime dirette e ci troviamo quindi in una situazione di privilegio.

Campagne riformiste

Chiedere allo stato di “migliorare” gli allevamenti o le condizioni di chi vi vive significa scendere a patti con gli oppressori degli animali non umani. Le campagne di pressione e in genere le campagne legali possono essere d’aiuto se abbinate ad altri tipi di azioni e se mirate allo smantellamento immediato di determinate dinamiche oppressive[13]. Chiedere migliori condizioni per gli animali nei macelli e negli allevamenti è essenzialmente girare attorno al problema rafforzando lo specismo che li tiene imprigionati.

Lo sfruttamento di animali non umani è uno dei pilastri portanti della nostra economia e senza di esso il sistema crollerebbe. Le istituzioni statali non hanno interessi nello smantellare lo specismo, ma nel mantenerlo.

Apoliticità

Molti gruppi di attivismo si auto-definiscono “apolitici”. Ma che significa essere apolitici?

Il dizionario riporta la seguente definizione: “Che è estraneo alla politica, che non professa o non aderisce ad alcuna fede o opinione politica.”

Eppure, mi risulta molto difficile credere che ci sia una persona priva di un’opinione politica. L’attivismo da strada è di per sé l’espressione di un’opinione politica. Quando si parla di politica non ci si riferisce necessariamente ai partiti di cui fanno parte quelle persone che noi definiamo “politici”, ma a tutta una serie di idee, valori e opinioni che si hanno sulla nostra società. Di fatto il veganismo e l’antispecismo non possono essere apolitici perché nascono in contesti politici e vengono alimentati da idee politiche.

Definirsi apoliticə è pericoloso e ambiguo perché apre la porta ad una serie di gruppi e persone che, ad esempio, sfruttano il veganismo per accaparrarsi voti e persone nella politica dei partiti, magari lanciando campagne per la salvaguardia degli animali in pericolo nel territorio[14].

Una volta ho sentito una persona dire “non mi importa se una persona che salva gli animali si dichiara fascista o meno, l’importante è che li salvi”.

È importante che lo spazio all’interno di un gruppo rimanga il più sicuro possibile per chiunque e, dare priorità ad una lotta invece che ad un’altra, lasciando spazio ad individui che divulgano messaggi di odio, mette in pericolo la sicurezza e la stabilità emotiva degli individui del gruppo, oltre a criticarne le diversità. I gruppi apolitici sono una contraddizione, e spesso l’apoliticità in questi gruppi è affiancata al concetto dell’inclusività. L’inclusività, generalmente, viene vista con accezione positiva, ma in questi contesti prende una forma malsana e include personaggi che, adesempio, hanno idee politiche xenofobiche e sessiste e a cui viene data la libertà di far parte di gruppi in cui saranno presenti persone che soffriranno della loro presenza.

Conclusione

Trovare soluzioni a determinati problemi non è mai facile. Ogni persona è diversa e ha esigenze e storie diverse e sarebbe da presuntuosə pensare di avere una soluzione univoca per tuttз. Quello che però sono sicurə sia importante e sano da fare è puntare sulla comunicazione: aprirsi alle critiche, accettare il fallimento, distruggere la saccenteria e l’egocentrismo nelle nostre menti, creare spazio per dibattiti costruttivi etc… Confrontarsi con le altre persone (attivistз vegan e non) rende la strada verso eventuali soluzioni più possibile.

Sviluppare uno spirito critico è fondamentale, soprattutto in contesti in cui alcune personalità più forti sovrastano quelle meno forti facendo credere loro che il proprio modo di operare sia migliore.

Testi consigliati

Brian A.D., Liberazione Animale e Rivoluzione Sociale;

Steven B., Liberazione totale. La rivoluzione del 21° secolo, Ortica Editrice, 2017;

Sarat C., Animali in rivolta. Confini, resistenza e solidarietà umana, Mimesis, 2017;

Massimo F., Questioni di specie, Elèuthera, 2017;

Gianfranco M, Raffaella C., Benedetta P, Dalla predazione al dominio. La guerra contro gli animali, Cortina libreria Milano, 2017;

Carol J. A., Carne da macello. La politica sessuale della carne, Vanda Edizioni, 2020;

Aph K, Syl K, Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, Vanda Edizioni, 2020;

Rasmus S., Manifesto Queer Vegan, Ortica Editrice, 2014.




per info, confronti e feedback: taro@anche.no


[1] Intersezionalità è un termine coniato dalla femminista nera Kimberlé Crenshaw alla fine degli anni ‘80 e analizza i modi in cui i sistemi di disuguaglianza basati su genere, razza, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, classe e altre forme di discriminazione si intersecano per creare dinamiche ed effetti unici. Le forme di disuguaglianza si stratificano e si rafforzano a vicenda e devono quindi essere analizzate e affrontate simultaneamente per impedire ad una di rafforzarne un’altra.

[2] Quando parlo di liberazione umana non mi riferisco solo alla liberazione dal sistema economico, ma anche da altri costrutti umani, come quello sui generi e sulle razze.

[3] Un testo molto interessante: How do we learn gender?

[4] Si veda Hambach: Una foresta millenaria trasformata in un’industria del carbone.

[5] È il caso delle Vacche Ribelli in Liguria (https://vimeo.com/221235876).

[6] Si consultino le stime qui riportate: Medindia: World Population Clock.

[7] La grande distribuzione organizzata risulta essere responsabile del 15% del totale del cibo sprecato (Stime di cibo buttato in italia e nel mondo). Qui trovate un’analisi condotta su dati FAO: Quasi 1 miliardo di tonnellate di cibo nel bidone.

[8] Enormi macelli come quello del gruppo Pini in Spagna continuano a venire costruiti e a guadagnarsi i titoli di “macelli più grandi d’Europa/del mondo”.

[9] Anni fa qualcunə parlò anche di “psicologia inversa”.

[10] A tal proposito suggerisco vivamente di leggere le storie di animali ribelli raccolte qui: resistenzanimale.noblogs.org

[11] Qui si fa riferimento ad azioni dirette, come la liberazione di non umani dagli allevamenti o il sabotaggio dei mezzi funzionali al loro sfruttamento.

[12] A proposito della connessione tra mascolinità e “sindrome del salvatore” consiglio di leggere questo testo: Patriarchy and speciesism.

[13] Si veda Green Hill: frammenti di una storia di liberazione

[14] Per approfondire: Conoscerli per isolarli, isolarli per eliminarli