La guerre sociale

Su La banquise

Saggio sulle variazioni stagionali dei pinguini – Per un mondo senza morale

1984

«L’altro modo di snaturamento della totalità consiste, partendo dall’individuo astratto (il “sé”, la soggettività...), nel fondare su questa base un sistema che può anche essere coerente. Inoltre, l’antagonismo economico che si esprime nella lotta di classe viene dissolto in un conflitto tra l’individuo e la società, a partire dal quale non si possono più comprendere come necessari né la nascita di questa società, né i suoi problemi interni, né il suo declino. [...] La critica del modo di vita dominante, suscitata dall’esigenza di liberazione dalle costrizioni, fondata unicamente sulla soggettività individuale, finisce per girare su se stessa. L’impasse, il vuoto di una simil prospettiva, alla lunga insopportabile, ingenera infine il desiderio dell’ordine, la disposizione a sottomettersi a un ordine qualunque, purché, quali ne siano i mezzi, metta fine all’arbitrio senz’esito della libertà.»

Buck Mullighan, Crise sociale et irruption de l’irrationalité, «La Guerre sociale», n. 3, giugno 1979

«L’affermazione positiva del comunismo non consiste nel sostituire la vita alla teoria. Testi come Un mondo senza denaro o Un mondo senza morale considerano l’origine dei problemi posti all’umanità dal capitalismo e mostrano non solo come potrebbero essere risolti, ma quali sconvolgimenti la loro soluzione presupporrebbe e comporterebbe» [1].

La Banquise confonde qui le sue posizioni con le nostre. Non fa del comunismo la soluzione dei problemi posti all’umanità dal capitale ma fa del comunismo il problema; il comunismo diviene l’avvento della libertà:

«Se la crisi sociale si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte intermedie. Si potrà sempre meno reclamare “un po’ meno polizia”. La scelta sarà sempre più tra ciò che esiste o niente polizia del tutto. È allora che l’umanità dovrà davvero mostrare se, sì o no, ama la libertà» [2].

Questo avvento della libertà non è certo, e poi essa non implica proprio il rischio? Il rischio di distruggersi?

«Che l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e con essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L’insopportabile, è che lo faccia nell’incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado, poiché ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È tuttavia vero che da quando l’uomo ha cominciato a modificare il suo ambiente, lo ha fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che questo rischio sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di organizzazione sociale.» [3].

Per La Banquise, se il comunismo risolve un problema posto dal capitale, è quello dell’incoscienza assoluta nella quale il rischio di distruzione sarebbe attualmente vissuto. Il comunismo libererebbe l’umanità non dal pericolo di saccheggiare il proprio ambiente e di saltare in aria con esso, ma dall’incoscienza. Moriremo irradiati ma liberi e coscienti. Un altro problema da risolvere:

«Il vero orrore del nostro mondo, la vera degradazione non è che si muoia di fame: non si può escludere in assoluto la possibilità di carestie locali, anche dopo la scomparsa del capitalismo. L’inumano della nostra vita si manifesta nel fatto che una parte della specie umana guarda l’altra morire di fame alla televisione» [4].

Per La Banquise, l’umanità comunista non sarà sempre sicura di poter ripartire adeguatamente il cibo, oggi in eccedenza, ma non ne farà più uno spettacolo. La miseria non dipende solo dal fatto che gli uomini muoiano di fame ma dal fatto che la carestia e la sua conoscenza derivano contemporaneamente dalle condizioni che rendono possibile la comunità e dalla sua assenza. La socializzazione della specie umana, lo sviluppo tecnico e l’assenza di questa comunità fanno della «fame nel mondo» uno spettacolo, ma da quale parte dello schermo si trova La Banquise, giacché vede l’inumanità proprio in questo rapporto di spettacolarizzazione – da lei rifiutato – e non nella carestia?

I redattori de La Banquise scrivono del loro comunismo:

«In un tale mondo, la sola garanzia che un uomo non ne torturi un altro, dipenderà dal fatto che egli non ne provi bisogno. Ma se lo prova? Se torturare lo diverte? Sbarazzati delle vecchie rappresentazioni del tipo occhio per occhio, dente per dente, prezzo del sangue ecc., una donna il cui amante sia stato ucciso, un uomo la cui amata torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia, certo stupido uccidere qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare fantasmaticamente la perdita subita – forse... Ma se il desiderio di vendetta prevale? E se l’altro continua a uccidere?» [5].

Non sono certi che esista una soluzione a questi conflitti ma restano puri (niente Stato!) nel mentre si offrono una consolazione: non potrà essere comunque peggio che adesso:

«Per salvare qualche vita, per quanto «innocente», non bisogna che il comunismo perda la sua ragion d’essere. Constatiamo che fino a oggi le mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e mantenere l’ordine interno alla società hanno provocato un’oppressione e delle perdite umane infinitamente più grandi di quelle che riteneva avrebbero impedito o limitato» [6].

Sì, ma, in un mondo simile, la sola garanzia che gli uomini non vogliano creare uno Stato, è che non ne provino il bisogno. Ma se lo provassero? Se desiderassero creare uno Stato al fine di torturare e imprigionare, malgrado il loro dolore, i carnefici dei loro amati...

La Banquise, nel mentre rifiuta fermamente lo Stato, ne avalla la legittimazione evocando le «mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e mantenere l’ordine interno alla società». Sono i difensori dello Stato a presentarlo come una tale mediazione. La Banquise da parte sua, precisa che esso fa alla fin fine più male che bene. Un gran numero di persone, a partire da ciò che hanno «fatto e vissuto» [7] faranno la constatazione inversa: lo Stato sarà considerato come un male necessario o semplicemente inevitabile; distrutto, risorgerà con gli inevitabili conflitti interni alla società, il disordine ecc. Non vi sarebbe scelta. Perché dunque distruggerlo e non adattarvisi?

Affrontando i problemi concreti della rivoluzione ed evocando il teppismo delle epoche di tumulti, La Banquise scrive:

«Ogni periodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi, a metà strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee ineguaglianze, ad accaparratori, profittatori e, soprattutto, a tutta una gamma di condotte sfumate che sarà difficile qualificare come “rivoluzionarie”, “di sopravvivenza”, “controrivoluzionarie” ecc. La comunizzazione progressiva risolverà queste questioni ma in una, due generazioni, forse più. Fino ad allora, occorrerà prendere delle misure, non nel senso di un “ritorno all’ordine”, che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l’originalità del movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime, sovverte» [8].

Si sovvertirà, dunque, nell’attesa che una comunizzazione dagli effetti di lunga durata porti la soluzione. In quale modo?

«Questo significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza strettamente necessaria per raggiungere i suoi scopi, non per moralismo o non-violenza ma perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene un fine a sé. Ciò implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo luogo la trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle condizioni di esistenza. I saccheggi spontanei cessano d’essere un cambiamento di massa di proprietari, una semplice giustapposizione di appropriazioni privative, se si costituisce una comunità di lotta tra saccheggiatori e i produttori» [9].

Una violenza, insomma, ragionevole, autocontrollata: perché questo progresso decisivo nella storia dell’umanità? Come valutare la quantità di violenza necessaria? Cos’è questa trasformazione dei rapporti sociali, distinta dalla comunizzazione, i cui effetti sarebbero più rapidi? L’instaurazione di una «comunità di lotta tra i saccheggiatori e i produttori» non è appunto il problema posto da La Banquise, quello dell’asocialità, dell’egoismo, del teppismo?

«Quanto agli accaparratori, se saranno necessarie talvolta delle misure violente, sarà per recuperare i beni e non per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il regno della gratuità che si toglierà loro di fatto ogni possibilità di nuocere. Se il denaro non è che carta, se non si può più convertire in denaro ciò che si accaparra, a che fine accaparrare?» [10].

Se non si fa altro che recuperare, con ogni probabilità certi accaparratori persevereranno e ritarderanno (di quante generazioni?) il regno della gratuità che impedirebbe loro di nuocere. Perché dovrebbe essere possibile accaparrare solo al fine di monetizzare, di tesaurizzare, e non di consumare? La tendenza all’accaparramento e all’accumulazione precede storicamente il mercantilismo e non vi si limita. Se la penuria deriva dalla scarsità produttiva o dall’accaparramento, il baratto e la moneta risorgeranno.

Ciò che conta è che gli scioperi, i saccheggi, gli attacchi armati ecc. sfocino in una comunizzazione dagli effetti il più possibile immediati. Ciò implica misure di repressione e di espropriazione, permette di liberare le forze necessarie a ridurre l’asocialità e l’accaparramento privativo, e di stroncare la controrivoluzione aperta e armata, dimenticata dai pensatori de La Banquise. Questa comunizzazione è la condizione affinché la violenza non si autonomizzi, è la condizione della «comunità di lotta tra i saccheggiatori e i produttori», o, piuttosto, è immediatamente il superamento del saccheggio e del salariato per mezzo della comunità.

Al pari de La Banquise, non desideriamo «distruggere le prigioni per ricostruirne di più ampie» [11], ma che fare dei nemici: ucciderli, lasciarli andare, redarguirli? Una parte, probabilmente, ma certi dovranno essere neutralizzati.

La Banquise non riprende apertamente l’idea della fase di transizione. I suoi redattori parlano di comunizzazione senza definirla, e ne negano la capacità di risolvere le difficoltà pratiche immediate che sorgono nei periodi di tumulto. Si rifanno affermando che le misure da prendere – lasciate nel vago – non dovranno andare nel senso di un «ritorno all’ordine che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli antirivoluzionari». L’esperienza storica dimostra che, di fronte a un possente movimento proletario, la controrivoluzione non si rinchiude nel conservatorismo e promette qualsivoglia accomodamento pur di evitare che si crei una situazione di non-ritorno. La Banquise fa di questo «ritorno all’ordine» uno spauracchio; tuttavia, contro ogni gestore – duro o libertario che sia – del bordello capitalista, la rivoluzione dovrà dimostrare la capacità della comunizzazione di risolvere i problemi impellenti della vita sociale. Parlare di comunizzazione mettendo in dubbio questa capacità, significa preparare già il terreno alla controrivoluzione; egualmente, sottacere la necessità della repressione per il disgusto che se ne prova e per l’incomprensione delle trasformazioni sociali che sole potrebbero limitarla. La rivoluzione non si affermerà unicamente con la repressione o il terrore, ma perderà ogni volta se ne lascerà il monopolio ai suoi nemici.

Gli autori di Per un mondo senza morale non concepiscono il comunismo come una risposta ai problemi posti dal capitale e per esso irrisolvibili. Non riconoscono né superano le difficoltà del processo rivoluzionario. Ciò dipende dal procedimento che sta alla base del loro testo. Rifiutano le costrizioni, la morale e la repressione ma non riescono a coglierne la necessità sociale, la forma storica specifica e la possibilità di superamento.

I nostri pensatori della morale partono all’assalto dell’ordine costituito e delle femministe per le quali lo stupro sarebbe un «attentato ontologico» [12]:

«Alla fin fine, ciò che spinge il somalo a strappare la clitoride della sua donna e ciò che muove le femministe proviene dalla medesima concezione dell’individualità umana come oggetto possibile di un rapporto di proprietà. Il somalo, convinto che la sua donna faccia parte del bestiame, crede sia suo dovere proteggerla dal desiderio femminino, dannoso parassita per l’economia del gregge. Ma, così facendo, accorcia singolarmente e impoverisce il proprio piacere, il proprio desiderio. Nella clitoride della donna, è il desiderio umano che è preso di mira simbolicamente, tutti i sessi confusi. Questa donna mutilata, è dell’umanità stessa a essere amputata» [13].

Dopo aver rilevato, qualche pagina prima, la fascinazione dell’uomo contemporaneo per l’orrore nazista e giacché bisogna «ricominciare instancabilmente un rito in cui il masochismo ha per riscontro la fascinazione sadica» [14], La Banquise ci sforna qui una scena orribile per la sua crudezza. Quanto all’esattezza dei fatti, il talento è degno di Filip Müller e si eleva ad altezze umaniste che lo stesso Martin-Chauffier stenterebbe a raggiungere.

Il somalo strappa la clitoride della sua donna e l’amputa dell’umanità stessa... Ci si rende conto cosa rappresenterebbe la descrizione di una circoncisione con questo stile fantasioso e orrorifico? Potrebbe far gridare all’antisemitismo. Non è la stessa cosa, certo! Innanzitutto perché la nostra società organizza diversamente la differenziazione tra i sessi, perché ha un altro rapporto con la mutilazione, la sofferenza, il godimento, rapporto che fa apparire barbaro ciò che è differente e insolito, proprio perché differente e insolito.

Qualche tempo prima dell’uscita de La Banquise, una ragazza del Mali muore in seguito a un’escissione. Subito si scatena una campagna di stampa e di denuncia – uno di quei «quarti d’ora» d’odio che i media organizzano contro i seguaci della setta di Moon, i genitori che rinchiudono la prole in un armadio, l’assassino di un figlio d’immigrati troppo chiassoso, gli spacciatori di droga ecc. Nel mentre denuncia l’isteria anti-stupro delle femministe e dei giudici, La Banquise cede all’isteria anti-escissione. Da dei rivoluzionari ci saremmo aspettati che attaccassero questi «quarti d’ora», ricordassero che l’escissione è un mezzo ben rudimentale d’impedire il godimento rispetto a tutto ciò di cui dispone la nostra società, e vomitasero su questa difesa dell’Occidente rivitalizzata dal femminismo e dall’ideologia del diritto al piacere.

Non si tratta di approvare l’escissione o di rifiutarsi d’intervenire, ma si dovrebbe tuttavia andare oltre la riprovazione e tentare una comprensione delle mutilazioni sessuali che sia diversa dalla difesa o dall’intolleranza di un particolarismo contro un altro. Agire non significa alleggerirsi la coscienza aggravando ciò di cui si ha la pretesa di prendersi cura. Una ginecologa del Mali, lei stessa escissa, spiega in «Marie-Claire» (novembre 1982) che lei e le sue connazionali non si considerano frigide – è dalla lettura dei giornali francesi che aveva appreso di essere «ritenuta frigida» –, e sottolinea che donne non escisse possono essere frigide e che la condanna giuridica degli usi ancestrali e comunitari non li farebbe scomparire ma aumenterebbe i rischi di mortalità, dal momento che i potenziali colpevoli esiterebbero a far ricorso alla medicina.

Nel mentre criticano il femminismo, gli autori di Per un mondo senza morale ne ricalcano la spiegazione dello stupro come atto di dominio di un sesso sull’altro per denunciare l’escissione. Ciò evita d’interrogarsi sulle pratiche ancestrali e diffuse delle mutilazioni corporali, in particolare sessuali. Per La Banquise, il somalo non è cattivo quanto piuttosto stupido: se pratica l’escissione, è perché, «convinto che la sua donna faccia parte del bestiame», il nostro proprietario non riconosce il proprio tornaconto, «così facendo, diminuisce singolarmente e impoverisce il proprio piacere». Imbecille! Non disperiamo di fargli comprendere che ci rimette, così come la società nel lasciare la risoluzione dei conflitti allo Stato.

Non possiamo approvare il retaggio precapitalista per via del fatto che il capitalismo lo fa scomparire lentamente e ferocemente, ma non ci passa per la testa di difendere i costumi dell’Occidente, della società capitalista, aderendo alle repulsioni contemporanee nei confronti delle usanze tradizionali. È stato necessario che la civiltà facesse enormi progressi perché le donne fossero tenute, in piena responsabilità, a velarsi per proteggere la loro femminilità dai desideri maschili non autorizzati, alieni. È stato necessario che la civiltà progredisse parecchio anche in Occidente perché le donne fossero tenute a esibirsi e ad atteggiarsi, in tutta innocenza, da «prostitute» – come direbbero i khomeinisti. Quale progresso è stato necessario perché gli uomini si liberassero dallo stato selvaggio e dalla promiscuità primitivi, perché la sessualità divenisse vergognosa e il desiderio pericoloso; perché i genitori si baciassero di nascosto dai loro bambini e perché oggi tutto ciò si perpetuasse, si decomponesse e si ricostituisse sotto le bandiere della liberalizzazione dei costumi. L’ipocrisia e la repressione sessuali sono una fonte di tare e d’infelicità. La critica rivoluzionaria, innanzitutto, e tanto più dal momento che si esercita sulle prime, deve prendersela anche con la modernizzazione della miseria sessuale e amorosa.

Per gli autori di Per un mondo senza morale, l’uomo si caratterizza per la sua attitudine alla libertà. Il comunismo ne sarebbe dunque il libero dispiegamento possibile: «Essendone parte, l’uomo non è estraneo alle condizioni naturali. Ma vuole conoscerle e ha cominciato a giocare con esse. Si possono discutere i meccanismi che hanno determinato ciò (in quale misura questo modo di procedere è il risultato delle difficoltà della sopravvivenza, particolarmente nelle zone temperate ecc.?) ma è certo che, trasformando il suo ambiente, per esserne a sua volta trasformato, l’uomo si è posto in una posizione che lo distingue radicalmente dagli altri stati conosciuti della materia. Liberata da tutti i presupposti metafisici, questa capacità di giocare, in una certa misura, con le leggi della materia, è proprio la libertà umana. Questa libertà, della quale gli uomini sono stati spossessati via via che la producevano – è essa ad aver nutrito l’economia – si tratta di riconquistarla senza illudersi su ciò che è: nessuna libertà di desiderio irrompe senza incontrare ostacoli, nessuna libertà di sottomettersi ai comandamenti (chi li decifrerà?) della Madre Natura. Si tratta anche di dare tutta la sua estensione alla libertà di giocare con le leggi della materia: essa è tanto invertire un corso d’acqua come anche usare per fini sessuali un orifizio che non è stato “previsto” per questo uso. Si tratta infine di vedere che il rischio solo garantisce la libertà» [15].

L’ominazione può essere considerata come un processo di liberazione che continua un movimento precedente attraverso il quale un primate si libera delle costrizioni naturali e inscrive questa liberazione nella propria fisiologia. Questo processo nell’uomo è inseparabile dalla sua socializzazione e non lo rende mai un elemento esterno alla natura. Egli resta una delle componenti della natura, per la sua origine e per la materia di cui è costituito, non può emanciparsi dalla natura esplorata, trasformata e da cui trae la propria energia. Caratterizzando l’uomo mediante la sua attitudine alla libertà, La Banquise, volente o nolente, si rifà alla metafisica e si dimostra incapace di comprendere l’uomo in quanto parte della natura. La Libertà e le costrizioni che gravano su di essa, la Libertà e i suoi paradossi, la Libertà garantita dal rischio sono la maniera borghese d’ignorare le determinazioni effettive della storia e l’impossibilità per l’uomo di cessare di essere un rapporto della natura con se stessa. Coscienza e libertà dànno il cambio alla nozione di anima, scintilla divina incarnantesi nella materia.

La Banquise concede che l’uomo nasca dalla natura; se evoca i «meccanismi che hanno condotto a ciò», è per arrivare più velocemente al risultato – a suo dire «certo» – dell’originalità radicale dell’uomo esprimentesi nella sua libertà. Quest’uomo, condizione naturale tra le altre, si vede attribuire da La Banquise un’essenza soprannaturale:

«L’idea dell’uomo come contro-natura, come totalmente estraneo alla natura è certo un’aberrazione. La natura dell’uomo è al contempo un puro dato biologico (noi siamo dei primati) e la sua attività di uomo modifica dentro e fuori di lui il puro dato naturale» [16].

Da un lato il primate, dall’altro l’attività umana che nasce e reagisce su questo supporto; da un lato l’ambiente, dall’altro il suo agente di trasformazione a sua volta trasformatone. L’uomo non è – come lo ritiene La Banquise – «un puro dato biologico», un primate e poi un’altra cosa: la sua fisiologia di primate particolare determina le sue attitudini più umane. L’evoluzione umana non si spiega con un’azione reciproca dell’uomo e del suo ambiente: l’uomo si trasformò trasformando il suo rapporto con l’ambiente per effetto di una dinamica e di una lotta interne alla specie, per effetto dell’evoluzione dell’ambiente, mentre il suo impatto ambientale restava debole.

Il dualismo instaurato da La Banquise fissa la separazione tra la parte umana dell’uomo e quel che ne sarebbe il supporto biologico. Vi sarebbero la materia, la natura e poi qualcos’altro che certo ne subisce l’influenza, le ha come origine, ma resta loro estraneo. I pensatori de La Banquise mostrano la loro buona volontà materialista e salvano il loro dualismo mediante l’azione reciproca notando che il trasformatore dell’ambiente è a sua volta trasformato; forse così si spiega come oggi l’uomo sia maggiormente soggetto al cancro, ma non il processo di trasformazione della natura in uomo.

La Banquise definisce l’uomo attraverso la sua libertà, la sua volontà di conoscere le leggi della natura e di giocare con esse; mette in scena quest’uomo esterno e manipolatore della natura nel mentre devia «un corso d’acqua» e usa «per dei fini sessuali un orifizio che non è stato “previsto” per questo uso». Lo può fare, ma è questo ciò che «lo distingue radicalmente dagli altri stati conosciuti della materia»? Alcuni animali sono talvolta capaci di analoghe prestazioni; la materia inanimata non è in grado di «giocare» con le proprie leggi, di trasformarle e trasformarsi? Si è dovuto attendere l’uomo perché un fiume vedesse il suo corso cambiare, perché degli organi viventi fossero stornati dal loro uso e persino trasformati in altri organi dall’evoluzione biologica? Chi ha acceso il sole, creato la straordinaria varietà e complessità della vita, generato l’uomo e la sua Libertà? L’uomo e la sua Libertà?

Gli autori di Per un mondo senza morale, volendo particolarizzare l’uomo, non scoprono nulla che gli sia proprio e monopolizzano a suo favore capacità che sottraggono alla natura facendone le espressioni di un’indefinibile e misteriosa libertà umana.

Il mondo borghese idolatra la libertà, la coscienza, la persona. Ma questa libertà, partita alla conquista del mondo, ha anche subìto degli smacchi. La libertà d’iniziativa resta un privilegio e perde di consistenza in un universo repressivo e burocratico. Resta per fortuna un terreno da conquistare per la libertà, un terreno ove i divieti indietreggiano: quello dei costumi.

Circa la sfera sessuale e la sua miseria, i pensatori de La Banquise scrivono:

«La miseria sessuale è innanzitutto la costrizione sociale (l’obbligo del lavoro salariato e il suo seguito di miserie psicologiche e fisiologiche, la coazione dei codici sociali) che si esercita in una sfera presentata dalla cultura dominante e dalla sua versione contestataria come una delle ultime regioni del mondo dove questa avventura è ancora possibile» [17].

Riguardo la morale:

«Non c’è morale se non perché vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società lascia teoricamente a disposizione dell’individuo, ma che allo stesso tempo si impegna a legiferare dall’esterno» [18].

A proposito della tendenza alla liberalizzazione dei costumi:

«Non bisogna scambiare una tendenza e la sua spettacolarizzazione con la totalità: se la nostra epoca è quella di una relativa liberalizzazione dei costumi, l’ordine morale tradizionale non è scomparso» [19].

Se la cultura dominante presenta la sessualità come sfera dell’avventura e se la liberalizzazione dei costumi è spettacolarizzata, non ci si deve lasciare ingannare, avverte La Banquise: questa sfera è colonizzata eteronomamente e l’ordine tradizionale tiene ancora. La miseria sessuale e quella dei costumi consistono innanzitutto, se non essenzialmente, sempre secondo La Banquise, nell’assenza di libertà: se la morale è criticabile, è perché vincola dall’esterno.

L’abbondanza mercantile, malgrado la sua spettacolarizzazione, è lungi dall’avvantaggiare tutti. Bisognerebbe pertanto lodare, pur con riserve, questa relativa dovizia rifacendosi alla scarsezza tuttora esistente mentre la penuria precapitalista è diventata l’altra faccia dell’abbondanza mercantile, sia per coloro che vanno a piedi scalzi nel Terzo Mondo sia per chi dispone del comfort moderno?

La critica rivoluzionaria verte sui costumi e sulla loro attuale liberalizzazione così come sull’abbondanza mercantile. Non ne auspica la generalizzazione e non aspira alla realizzazione del loro mito. La Banquise constata e denuncia la miseria dei costumi, fa uso dei limiti alla loro liberalizzazione e delle costrizioni eteronome di cui sono effettivamente gravati. Evita una critica di fondo del processo di liberalizzazione.

Per La Banquise, la vera ricchezza e l’autentica realizzazione consistono nella varietà dei comportamenti che sfuggono alle pressioni, alle regole esteriori, alla legge. Non c’è bisogno di essere affamati di monotonia e di ripetizione per vedere in questa posizione un ideale capitalista che accompagna il vuoto dell’esistenza umana separata dalla comunità e dal rapporto con la natura ov’essa trova il proprio senso.

A una passione compressa in qualche organo particolare – il cuore, il sesso – e orientata verso un oggetto ideale e unico, l’umanità post-capitalista sostituirà una libido diffusa nella totalità corporea e volta verso oggetti molteplici e differenti:

«Tra le ricchezze che un’umanità liberata dal capitale farà prosperare figurano le innumerevoli variazioni di una sessualità e di una sensualità perverse e polimorfe. Soltanto quando queste pratiche potranno fiorire, l’“amore”, qual è cantato da André Breton e Harlequin, apparirà per quello che è: una costruzione culturale transitoria» [20].

La Banquise denuncia il mito dell’amor fou, costruzione culturale transitoria. Con ragione. Ma il suo mito di una sessualità e di una sensualità perverse e polimorfe – in una parola liberate – non è una costruzione culturale ben più transitoria?

La sessualità è oggi presentata come il campo privilegiato della libertà e della varietà. Finiti i divertimenti simili a quelli degli animali e degli uomini di una volta, finiti gli attaccamenti eccessivi! L’attività sessuale degli uomini è certo più varia di quella di altre specie animali e la nostra più varia di quella della regina Vittoria, tuttavia, pur liberata, pur sbarazzata dei sentimenti, pur godereccia, resta un settore relativamente monotono e ripetitivo dell’attività umana. Ci si rende conto del numero delle posizioni e delle facili variazioni dei compagni di gioco consentite dal tennis o dal calcio?

Sulla sessualità e sulla sua liberalizzazione pesano lo stress e i divieti sociali, ma ciò che le ostacola non è soltanto la pressione esterna. Perché la possibilità di moltiplicare e variare i rapporti amorosi resta spesso limitata? La prima ragione è certo la gelosia sessuale persistente e irriducibile, almeno in questo mondo, della maggior parte degli uomini e delle donne. Molti desidererebbero moltiplicare le proprie relazioni amorose ma non lo sopporterebbero da parte del proprio amante. Gli impediranno e si vieteranno tali comportamenti, praticandoli di nascosto. Gli ostacoli alla libertà sessuale non si trovano tanto in una morale coercitiva quanto piuttosto direttamente nell’insicurezza, nell’egoismo e nell’assenza di comunità. La realizzazione della libertà, qui come altrove, dipende da quella della comunità.

La Banquise rifiuta «un piacere senza comunicazione» [21] la cui infinita ripetizione renderebbe noiosa la lettura di Sade. I suoi redattori temono di sbadigliare di noia in un mondo ove ciascuno potesse baciare chiunque, mondo promessoci dalla liberalizzazione dei costumi. Manifestando nuovamente la loro buona volontà materialista, spiegano che la crisi dell’ordine morale tradizionale non dipende dal fatto che i nostri contemporanei «avrebbero più il gusto della libertà che i nostri avi», ma «perché la morale borghese rivela la sua inadeguatezza alle condizione moderne di produzione e di circolazione delle merci» [22]. Sottolineano il carattere contraddittorio del superamento della morale tradizionale, l’angoscia, lo smarrimento e il ripiegamento narcisistico cui si accompagna, ma restano ciononostante sul terreno della libertà ove il rischio assicura la libertà e garantisce anche contro la noia.

Il rimprovero ai situazionisti è di essersi accontentati di «descrivere la fine del lavoro come un immenso ozio appassionante» [23] ma, per La Banquise, la sessualità e i costumi davvero liberati sarebbero un gran gioco nel quale soprattutto non ci si deve annoiare. Il che avverrà se ognuno potrà baciarsi con chiunque; è necessario però che ci sia talvolta il rischio di perdere. Fortunatamente, il comunismo «non garantisce affatto la concordanza di tutti i desideri. E la tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il prezzo insuperabile da pagare perché il gioco della seduzione resti appassionante» [24].

Il comunismo garantisce la gratuità, non l’accordo di tutti i desideri; sono tuttavia altamente auspicabili dei progressi. Comunque, è significativo che La Banquise fondi il carattere appassionante del suo «gioco della seduzione» su di una carenza della comunità, sulla «tragedia reale del desiderio non corrisposto». Il fatto è che, per essa, «il desiderio include l’alterità e dunque la sua negazione possibile» (25). Senza dubbio c’è desiderio solo per degli esseri distinti che aspirano a congiungersi, forse ciò non è sempre possibile, ma perché quest’alterità dev’essere verificata dalla negazione, dalla non-risposta al desiderio?

Il superamento della morale previsto da La Banquise resta abbastanza vago:

«Niente gioco sociale e umano senza posta in gioco e senza rischio! Ecco l’unica norma che sembra insuperabile. A meno che la nostra immaginazione scimmiesca, che resta dipendente dal vecchio mondo, c’impedisca di comprendere l’uomo» [26].

Può essere davvero preso in considerazione l’oltrepassamento o il superamento delle norme? La Banquise respinge i comandamenti di «Madre Natura» che non si saprebbero come interpretare. La conoscenza dell’essere umano, della natura e dei suoi vincoli, permettono di prevedere le conseguenze disastrose e quindi d’interdire o vietarsi certi comportamenti, certe possibilità antinaturali e antiumane.

Se «l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischia di annientarsi» [27], comunismo o meno, ci saranno degli uomini che preferiranno che certi «giochi» siano vietati, che delle norme vengano promulgate e che il rischio sia concentrato su coloro che le infrangono piuttosto che sui loro simili.

A quanto pare, i pensatori de La Banquise desiderano, per principio, che nessuna norma sia insuperabile. Tuttavia, ammettono egualmente che ogni società umana ha bisogno di regole e la società comunista non meno delle altre. Scrivono:

«Nel comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali nei quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti e non altri. Prima di avere dei valori, e per averli, ci sono delle cose che si fanno o non si fanno, si impongono o si vietano. Nelle società contraddittorie e classiste, l’interdetto è fissato e fatto apposta per essere aggirato o violato. I divieti delle società primitive e, in una certa misura, delle società tradizionali, non costituiscono, propriamente parlando, una morale. Valori e divieti vi sono riprodotti in ogni istante attraverso ogni atto della vita sociale» [28].

Nelle società di classe i valori e i divieti non sono riprodotti continuamente da ogni atto della vita sociale, non scaturiscono dai rapporti reali nei quali l’uomo vive? I divieti primitivi o tradizionali differiscono dalla morale borghese ma sono anch’essi divieti fissati e altrettanto destinati a essere aggirati o violati. Paiono trascendere i rapporti e reggere dall’esterno le faccende umane. È proprio la società borghese a fondare esplicitamente su delle necessità sociali, i codici, le legislazioni e il saper-vivere.

Il comportamento dell’animale è retto dagli istinti e, in misura ben minore che nell’uomo, dalla sua esperienza particolare. L’uomo, lo si voglia o no, è preso nell’universo delle regole imparate, interiorizzate, imposte. Tali regole, che reggono il suo linguaggio, i suoi comportamenti sociali e la sua relazione con la natura, non sono immutabili e il rapporto che l’uomo intrattiene con esse può anche trasformarsi. Ma c’è qui comunque un problema dal quale non si può scantonare. La Banquise se la cava così: nel comunismo, «le regole del gioco comprenderanno la possibilità di giocare con le regole» [29]. L’umanità nel corso della storia ha trasformato senza posa le sue regole, che, in una certa misura, sono sempre state trasgredite. Cosa avrebbe di particolare il comunismo de La Banquise? Vi si proclamerebbero delle regole e anche il permesso di infrangerle?

Si tratta di superare, o almeno di ridurre l’antagonismo tra l’«egoismo» dell’individuo e i suoi «doveri sociali», di trasformare questi «doveri» e il tipo di pressione esercitata dalla società sui suoi membri, e così di permettere il superamento della morale o almeno del moralismo, che attualmente domina, senza abolirla, la contraddizione crescente tra l’individuo e la società.

Il comunismo toglierà ragione a gran parte degli odierni comportamenti «antisociali» e farà sparire la causa di molti conflitti. Ciononostante non tutto sarà possibile e non ogni cosa permessa. Determinate scelte saranno fatte, altre no. La società comunista definirà certe norme; tanto meglio se nessuno cercherà di infrangerle, tanto peggio per coloro che lo faranno con la scusa di giocare con le regole.

L’antimoralismo de La Banquise è disarmante. Nel Romanzo delle nostre origini, si può leggere:

«Noi non abbiamo il culto degli eroi e se un compagno si rinnega nel momento del pericolo, non lo giudicheremo peggio di tutti i proletari che “accettano” ogni giorno di sottomettersi alla dittatura del salariato. Semplicemente, egli cadrà fuori dalla nostra attività comune» [30].

Il rinnegato, per definizione, è fuori dall’attività comune; tradendo, se ne pone lui stesso all’esterno. Constatare che un rinnegato è tale con il pretesto di non giudicarlo non elimina il pericolo derivante dall’esistenza dei rinnegati. Li si giudica e li si punisce per moralismo? Il tradimento è oggetto di riprovazione e viene represso poiché il sottrarsi e i dietro front di alcuni, soprattutto «nel momento del pericolo», sono assai pregiudizievoli alla pratica comune. Che La Banquise eviti di giudicare i rinnegati che mettono in pericolo la sua attività, è affar suo, ma ogni critica comunista della morale o della punizione dovrà comprenderne i fondamenti.

Non solo La Banquise non determina cosa renda possibile il superamento della morale equiparato al comunismo, ma lo maschera con una falsa assimilazione tra il rinnegamento e il salariato. Queste anime belle non giudicherebbero i proletari che si sottomettono al salariato... E perché dovrebbero farlo infatti? I proletari hanno rinnegato, si sono sottratti a un’attività comune possibile al di fuori del salariato? Forse che – visto che il comunismo è abolizione del salariato – sarebbe una colpa essere salariati (a torto, dal momento che il comunismo significherebbe anche rifiuto della morale)?

Già in Violence et solidarité révolutionnaires [31], Dauvé giustificava il principio del compromesso nell’attività rivoluzionaria col fatto che i rivoluzionari s’imbattono quotidianamente nel capitale, si prestano al salariato, dunque accettano dei compromessi. Inversione completa, dal momento che in realtà non esiste un’esteriorità rivoluzionaria antisalariale che potrebbe o piuttosto sarebbe condannata a fare dei compromessi; i rivoluzionari, il comunismo e la critica della morale sono sì alle prese con l’esistenza del capitale e la generalizzazione del salariato ma ne derivano.

Malgrado certi propositi apparentemente contrari, tutto il modo di procedere de La Banquise consiste nel rinchiudersi nelle questioni della morale, dei costumi e della sessualità. Vuole liberarli dalle costrizioni che li gravano per generalizzarne l’essenza a tutta la vita sociale. Non risale al fondamento della separazione tra la sfera del lavoro e quella dei costumi, e ancor prima a ciò che fonda la dimidiazione tra la vita sociale da una parte e, dall’altra, le regole e i tabù che sembrano reggerla eteronomamente. Perché la pratica sociale si lacera, e ciò ancor prima dell’emergere delle classi?

Ne L’Erotismo, Georges Bataille, uno degli ispiratori degli autori di Per un mondo senza morale, aveva almeno mostrato che il divieto aveva avuto origine nel «mondo del lavoro» e vi restava vincolato malgrado la trasgressione:

«Possiamo dire che essi [i divieti sessuali] appaiono dovunque sia comparsa l’umanità [...]. Poiché il lavoro, a quanto sembra, generò logicamente la reazione che determina l’atteggiamento dinanzi alla morte, è legittimo pensare che il divieto che regola e limita la sessualità ne fu anche il contraccolpo e che l’insieme dei comportamenti umani fondamentali – lavoro, coscienza della morte, sessualità contenuta – risalgano allo stesso remoto periodo» [32].

[1] La Banquise, n. 2, 58.

[2] La Banquise, n. 1, p. 42.

[3] Ibid., p. 38.

[4] Ibid., p.9.

[5] Ibid., p. 38.

[6] Ibid., p. 39.

[7] La Banquise, n. 2 p. 51.

[8] La Banquise, n. 1, p. 39.

[9] Ibid., p. 39.

[10] Ibid., p. 40.

[11] Ibid., p. 39.

[12] Ibid., p. 36.

[13] Ibid., p. 37.

[14] Ibid., p. 31.

[15] Ibid., p. 33.

[16] Ibid., p. 33.

[17] Ibid., p. 34.

[18] Ibid., p. 40.

[19] Ibid., p. 34.

[20] Ibid., p. 34.

[21] Ibid., p. 36.

[22] Ibid., p. 34.

[23] La Banquise, n. 2, p. 23.

[24] La Banquise, n. 1, p. 38.

[26] Ibid., p. 38.

[27] Ibid., p. 38.

[28] Ibid., p. 40.

[29] Ibid., p. 40.

[30] La Banquise, n. 2, p. 33.

[31] J. Barrot, Violence et solidarité révolutionnaires, Éditions de l’Oubli, 1974.

[32] G. Bataille, L’erotismo, se, Milano, 1986, p.


Consultato il 30 novembre 2017 su www.autprol.org
Pubblicato in «La guerre sociale», n. 6-7, 1º trimestre 1984