Phil

In risposta all’articolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo…”

Agosto 2020

Sul bollettino n.4 dello spazio anarchico “Luna Nera” di Cosenza è stato pubblicato un lungo articolo dal titolo “Distinti saluti! Alcune riflessioni sul femminismo, sulle dinamiche di ammaestramento e sul tentativo di americanizzazione delle lotte”, che ritengo meriti una risposta per la gravità di alcuni dei contenuti espressi.

In generale l’articolo è un attacco su più fronti al femminismo, ai suoi presunti obiettivi e metodi di lotta, e a quella che secondo l’autore dell’articolo è la critica femminista alla cultura dello stupro. Non mi soffermerò a lungo sulla critica espressa nei confronti del movimento femminista, in quanto riproduce le solite argomentazioni trite e ritrite di altre critiche già uscite (sparare sul femminismo pare essere la moda anarchica del momento): un ridurre la complessità dei femminismi alle sue correnti liberali e riformiste, scambiando una parte per il tutto, come se le compagne anarchiche femministe che incrociamo nei nostri percorsi seguissero quel tipo di filoni e non fossero a loro volta critiche verso il femminismo di stampo liberale. E’ il caso di stare a criticare, oggi, le lotte delle suffragiste dei primi del novecento per il diritto al voto? O l’entrata delle donne nel mondo della politica e del lavoro? O andare a citare le correnti xenofemministe e cyborg? Se questo tipo di stoccate voleva servire a screditare il femminismo anarchico, mi pare che la freccia sia atterrata ben lontana dall’obiettivo. Per fare dei paragoni, sarebbe come pretendere di attaccare l’anarchismo presentandone come esemplificative correnti come l’anarcopacifismo, le clown army o le comuni hippie, screditare l’ecologismo parlando di legambiente o dei Verdi, o liquidare l’antimilitarismo prendendo come esempio Amnesty International. Quando parliamo di femminismo anarchico parliamo di un anarchismo che lotta contro il patriarcato, lo Stato e il capitalismo, ma questo tipo di femminismo, nel testo, non viene nemmeno considerato.

Se non si riesce a distinguere in questi movimenti delle correnti anche estremamente diversificate negli obiettivi e nei metodi che si danno, si dovrebbe in ogni caso condividere l’idea di fondo da cui questi movimenti nascono, no? Personalmente ritengo che il “movimento” anarchico italiano non mi rispecchi, eppure non rinuncio certo alla mia idea di anarchia. Allo stesso modo, si potrebbe pure non condividere alcune azioni dei movimenti femministi, ma condividere l’idea della lotta al patriarcato come sistema di potere. La lotta anarchica non dovrebbe essere contro ogni forma di potere? O vogliamo combattere solo quelle forme di potere che ci pesano personalmente (da qui nasce il vittimismo) e mantenere intatte tutte le altre (assumendo il ruolo di complici e oppressori)? Questa è una questione cruciale, che emerge nei discorsi insofferenti, difensivi e auto-assolutori di molti anarchici nel momento in cui saltano fuori questioni come il femminismo, il razzismo, lo specismo… Su quest’onda, l’articolo che sto prendendo in esame è un esempio folgorante di difesa del patriarcato e di attacco alle individualità che combattono questa forma di potere.

Gli anarchici (e le anarchiche) che criticano il femminismo si lamentano spesso di quanto questo si focalizzi su un lavoro di introspezione e decostruzione di sé e delle dinamiche relazionali. E’ qui che molte persone inciampano in quanto in realtà chi critica lo fa spesso per nascondere la propria mancanza di volontà nel mettersi in discussione e nel prendersi la responsabilità dei propri comportamenti di merda. Negare che le ideologie di potere agiscono non soltanto a livello di sfruttamento fisico ma anche a livello psichico, imponendo delle norme di comportamento e dei divieti morali, dei pregiudizi, delle forme di sopruso emotivo, dei rapporti di potere tra individui significa avere una visione ben parziale del potere, ancorata a visioni ottocentesche, qualcosa di ben grave per un anarchico, il cui obiettivo è proprio abbattere il potere. Sistemi di potere come lo Stato, il capitalismo, il patriarcato, il razzismo, lo specismo e altri ancora non si incarnano soltanto in un individuo ben preciso (il sovrano) o in una schiera di figure dirigenziali chiuse nei loro palazzi (la struttura organizzativa di Stato, imprese, ecc.), ma sono anche un tipo di relazione sociale che necessita di essere riprodotta quotidianamente, in cui ognuno/a di noi ha un ruolo che può decidere di riprodurre o sabotare. Il nostro agire in un modo piuttosto che in un altro nelle nostre relazioni con le/gli altre/i contribuisce a legittimare o meno l’ideologia dominante e la aiuta ad accrescere il riconoscimento sociale che le è necessario per esprimersi poi nelle sue forme più violente, in quelle dirette dall’alto verso il basso, o nelle forme paternalistiche di “protezione” offerte dallo Stato per strumentalizzare quelle stesse oppressioni. Ovviamente la critica alle ideologie di potere, che avviene anche attraverso l’analisi delle norme sociali e relazionali attraverso cui queste si esprimono, e attraverso la costruzione di relazioni altre, non è che un aspetto della lotta contro il potere, che va di pari passo con pratiche di tipo conflittuale.

Quello che ci insegna la tanto criticata intersezionalità è che i vari sistemi di dominio sono intrecciati. Ignorare sistemi di potere come il patriarcato, l’omo/transfobia, il razzismo, lo specismo ecc. in quanto considerati secondari rispetto alla vera e unica oppressione che sarebbe quella di classe, o agli unici veri nemici che sarebbero di volta in volta identificati nello Stato, nel capitale, nella tecnica ecc. ci toglie pezzi fondamentali di analisi rispetto a questo mondo. Non vedere come lo sfruttamento capitalista abbia connotati di genere o razziali, ad esempio, ha come conseguenza che quando in alcuni ambienti si parla di sfruttamento lavorativo si faccia riferimento quasi esclusivamente all’operaio di fabbrica italiano; in altri ambiti si è finalmente aperta l’analisi includendo anche il bracciante agricolo africano; ma soltanto dalla bocca di femministe anarchiche ho sentito citare il fatto che mentre gli uomini africani vengono sfruttati nei campi di pomodori, a pochi metri di distanza negli stessi campi le donne africane sono costrette a vendere servizi sessuali in condizioni di altrettanto sfruttamento. Gli anarchici non parlano mai (lo fanno soltanto le femministe, guarda un po’) di come le oppressioni di classe e di genere convergano nella vita delle badanti straniere, delle lavoratrici del sesso, delle gestanti di bambini, in lavori con una fortissima connotazione di genere come quelli improntati sui servizi sessuali, sulla cura o sulla riproduzione. O di come il sistema capitalista statunitense sia stato edificato sulla schiavitù razzista e tutt’oggi la questione di classe non sia scindibile da quella razziale (ma l’autore dell’articolo, ben lungi dal riconoscere o anche soltanto vedere la connessione tra i sistemi di potere, si permette dalla sua comoda posizione di dare lezioni ai ribelli, sostenendo ad esempio che “le lotte afro” non abbiano saputo portare l’attacco al cuore della società nordamericana!).

Anziché screditare e attaccare il femminismo come movimento nemico in quanto lotta parziale che, al pari di altre lotte come l’antirazzismo, l’ecologismo, l’antispecismo ecc., risulterebbe “funzionale al sistema”, la mia proposta è invece di integrare i contributi più interessanti di queste lotte nel nostro anarchismo al fine di rafforzare la nostra analisi del potere, e di salutare tutte quelle situazioni in cui il sistema viene attaccato anche se soltanto da una prospettiva parziale, come è il caso, d’altronde, di praticamente tutte le rivolte, che solitamente non nascono da una prospettiva “anarchica”… Ben vengano quindi le rivolte contro la polizia portate avanti dai membri della comunità afroamericana stufi di venire ammazzati per le strade, i vandalismi queer contro la gentrificazione gay dei quartieri poveri, gli attacchi antispecisti contro i macelli o le azioni femministe contro le chiese e gli stupratori… azioni di questo tipo ci tolgono qualcosa? O piuttosto ci danno qualcosa?

Ma veniamo a quello che l’autore di questo articolo ha compreso (o non compreso) dell’analisi femminista dello stupro. Cito soltanto alcune delle perle presenti nel testo:

[secondo le femministe, lo stupro] si annida ovunque, poiché l’uomo sarebbe, per sua natura, stupratore mentre la donna eterna vittima innocente”

addirittura molte femministe, di ieri e di oggi, considerano la penetrazione stessa un atto di dominio, una pratica umiliante cui sottrarsi e da neutralizzare definitivamente, salvo riprodursi tramite la tecnologia”

la colpa, per le femministe, risiede sempre nel maschio stupratore per vocazione, per natura, per costruzione sociale ma sempre unica e vera causa dello stupro”

le femministe, vedendo ovunque stupro, ne fanno in pratica un modello di interpretazione cui rapportare ogni azione umana”

(citando il testo “Miseria del femminismo”) “le femministe che vedono ovunque lo stupro in realtà non fanno altro che concretizzare la paura e il rifiuto del desiderio sessuale, ed è per questo motivo che molte femministe, ancora oggi, considerano stupro anche il “rimorchiare, la proposta sessuale o lo <<sguardo che spoglia>>, si denuncia una situazione in cui la donna è ridotta a oggetto di consumo. Ma in verità è il fatto stesso di desiderare che viene attaccato”.

mortifichiamo la carne peccaminosa e l’intelletto prima di poterci dire rivoluzionari, cantiamo il mea culpa e facciamoci rieducare da chi detiene il potere del nuovo linguaggio purificato dal peccato del genere, avremmo creato la nuova chiesa laicotransfemminista e il capitale ci ringrazierà calorosamente come solo esso sa fare, con le tante lotte parziali, compreso il femminismo storicamente dato, che hanno rimandato a data da destinare la rivoluzione.”

Forse non sarebbe il caso di lasciar perdere l’idea di voler attribuire per forza un genere alla violenza? (…) se si riuscisse a fare un discorso sugli individui al di là di quelle che sono le preferenze sessuali, non sarebbe forse un passo avanti per sbarazzarci, realmente, del mondo che non ci piace, piuttosto che lasciarsi prendere dall’isteria collettiva che vede nel maschio, nell’etero, il problema da abbattere?”

Il linguaggio femminista odierno pare proprio ricostruire l’immagine della vittima, di colei che se ubriaca non può fare sesso, poiché “se lei è ubriaca vuol dire no” (…). Ebbene tutte queste e tante altre norme paiono non voler liberare la donna ma proteggere la sua purezza, spesso per la conservazione della coppia monogamica. Posizioni simili sono parte della svolta reazionaria in corso e in un tutt’uno con il successo delle forze politiche xenofobe, con il ritorno di fiamma dei clericali della peggior specie (le liste contro l’aborto, misogine, trans fobiche).”

Le odierne femministe e loro sodali si preoccupano di fornire tutta una serie di indicazioni, autentici protocolli, alle sopravvissute per affrontare il trauma (…). A parere di chi scrive, ancora una volta questi opuscoletti ci forniscono una immagine di donna debole e continuamente bisognosa di luoghi tranquilli e delle amiche, insomma non per voler sminuire il dolore che si può provare a seguito di eventi traumatici, ma la donna è dipinta come una ragazzina da fotoromanzo latinoamericano anni ottanta”.

Ebbene le nostre novelle vittoriane vogliono spiarci e dirci come fare l’amore, dirci come pensare (…). In epoca vittoriana si facevano rivestire i piedi dei tavoli perché evocavano un pericoloso simbolo fallico, oggi siamo già ritornati a tanto? Forse sì, nelle menti di alcuni, ma non ci sembra questa nessuna forma di liberazione bensì è questo un esperimento sociale teso a normare i comportamenti, in particolare negli ambienti anarchici. A noi pare ci sia una volontà di impadronirsi del movimento anarchico, di americanizzarlo”.

Quanti voli pindarici della teoria per giustificare in maniera “nobile” le mancate prese di responsabilità di alcuni rispetto a dei comportamenti di merda!

Ma vediamo come questo individuo argomenta la necessità del perpetuarsi del patriarcato e della cultura dello stupro nella società e negli ambienti anarchici. Le femministe vengono descritte come delle fanatiche, che al pari “dell’Inquisizione” (che ribaltamento di prospettiva storica! complimenti!), perseguitano i poveri uomini etero ritenendoli tutti, in quanto maschi, dei potenziali stupratori, e confondendo ogni manifestazione di desiderio per una forma di stupro. Di conseguenza le femministe sarebbe delle specie di novelle puritane determinate a imporre agli uomini una nuova morale sessuale repressiva, sarebbero in realtà delle frigide, terrorizzate dal sesso e in particolare dalla penetrazione del fallo.

La meschinità di questa narrazione distorta è lampante. I testi disponibili sul tema della cultura dello stupro spiegano chiaramente cosa si intende con questa espressione, se soltanto venissero letti con voglia di capire anziché con l’intento di cercarvi ogni difettuccio a cui aggrapparsi per contrattaccare. Il punto è che esistono tutta una serie di forme di violenza sessuale e stupro che non vengono riconosciute in questa società in quanto assolutamente normalizzate. Per stupro si intende in genere soltanto la penetrazione coercitiva realizzata da un uomo sconosciuto in un vicolo buio o in un parco di città. Ma la maggior parte degli stupri avviene per opera di un familiare, un amico o un partner, e le modalità possono essere diverse dalla pura coercizione fisica. In generale per stupro si intende l’imposizione di un rapporto sessuale non desiderato, e questa imposizione può avvenire attraverso l’uso di diverse tecniche. Ci sono individui talmente miseri da approfittare di una persona collassata dall’alcol, addormentata o drogata e quindi non in grado di reagire come avrebbe fatto in condizioni di lucidità. C’è chi insiste talmente tanto nonostante i “no” dell’altra persona da riuscire a ottenere quello che vuole per esasperazione, nonostante dall’altra parte evidentemente non ci sia alcun desiderio di un rapporto sessuale. C’è chi una volta ottenuto il consenso a un rapporto sessuale (spesso tramite l’insistenza) lo considera irreversibile, e si disinteressa del fatto che a un certo punto venga revocato, che l’altra persona esprima la volontà di interrompere il rapporto, e continua ad andare avanti fino al proprio orgasmo. Gli esempi potrebbero essere molti altri, ma è evidente cosa li accomuna, ovvero il mancato interesse rispetto al desiderio dell’altra persona e la volontà di soddisfazione del proprio a tutti i costi.

Visto che nel 99% dei casi di stupro si parla di uomini che violentano donne, mi permetto di dare una connotazione di genere ai casi di violenza sessuale. Troppo facile dire che si dovrebbe “lasciar perdere l’idea di attribuire per forza un genere alla violenza”, quando è evidente che le violenze sessuali hanno alla base delle concezioni di genere ben radicate. Le concezioni dell’uomo-predatore e della donna-preda, per esempio, o l’idea che una donna anche quando dice no in realtà intenda sì, e che il suo no sia soltanto una strategia per farsi desiderare maggiormente; l’idea patriarcale per cui gli uomini hanno diritto di accedere ai corpi delle donne quando ne hanno voglia, e che sia sempre una lusinga, per le donne, ricevere le avances degli uomini.

L’autore dell’articolo confonde violenza e desiderio, un errore molto grave. Le femministe non si oppongono al desiderio ma alla violenza. La sessualità diventa violenza quando non è desiderio reciproco ma imposizione del desiderio di una persona sul non desiderio dell’altra persona.

Il concetto base del “consenso” viene distorto per giustificare la violenza sessuale: qualunque reazione al desiderio non desiderato che sia minore di un pugno in faccia, renderebbe “consensuale” il rapporto, arriverebbe a significare che “lei ci stava”. Via libera quindi a stalkerizzare l’altra persona per ottenere di portarsela a letto, o a iniziare un rapporto sessuale con lei mentre dorme o è in coma etilico. Se lei non ci sta, tocca a lei bloccare il rapporto (spesso già iniziato) in maniera decisa, e se non ci riesce con la forza sufficiente (per ragioni che possono essere tra le più varie: perché il suo no continua a non venire ascoltato, perché non è nelle condizioni psico-fisiche per metterci della forza fisica, perché traumi precedenti che ha vissuto possono immobilizzarla, ecc.), allora vuol dire che in realtà ci stava. Cos’è se non uno stupro mettere una persona nella condizione di dover rispondere con la violenza per sottrarsi a un rapporto sessuale non desiderato? Chi non è forte abbastanza è giusto che soccomba? Vogliamo ristabilire i dettami del peggior darwinismo sociale? Per fare un parallelismo, è come dire che quando un compagno si prende dei pugni in faccia da un fascista, se non è riuscito a tirargli un pugno lui per primo di fronte alle minacce, o non è riuscito a restituire i colpi mentre veniva picchiato, quei pugni in faccia, in fondo in fondo, li desiderava!

Che bella concezione del desiderio! E’ evidente che qui, benché l’argomento sia il rapporto tra due persone, di un solo desiderio in realtà si sta parlando, ovvero quello di lui. E’ il desiderio di lui che non si può reprimere, che va lasciato libero di esprimersi! Chi se ne frega se c’è desiderio dall’altra parte, nell’altra persona che in questo discorso è un referente completamente assente, che importa quindi se il desiderio è reciproco o meno. Più che di desiderio si dovrebbe quindi parlare di voglia, voglia di sesso o di svuotare i testicoli, una voglia che non necessita di un soggetto desiderante dall’altra parte, accessorio completamente superfluo. Arriviamo quindi alla concezione dell’altra persona come oggetto sessuale, guarda caso uno schema che richiama proprio le più banali analisi femministe sulla sessualizzazione delle donne, la loro riduzione a strumenti per la masturbazione maschile (sorta di “fighe ambulanti”), la loro mancata considerazione come soggetti desideranti.

Quando emerge una storia di violenza sessuale negli ambienti anarchici, non si tratta tanto, quindi, di scegliere se credere alla “versione di lei” o “alla versione di lui”, come spesso viene ridotta la faccenda, o di fare un atto di fede nel credere alla storia della compagna. In molti casi la stessa situazione viene letta, vissuta e narrata in modi molto diversi dai due soggetti in causa proprio per il modo estremamente differente in cui vengono concepiti il desiderio, la sessualità, il piacere tra due individui. La persona che ha agito una violenza sessuale spesso non ammetterà e in alcuni casi non si renderà mai nemmeno conto di aver agito violenza sull’altra persona, proprio perché quel modo di approcciare il sesso, le donne, di imporre il proprio desiderio, di oggettivare le persone di sesso femminile è diventato, per lui e per la società patriarcale, totalmente normalizzato. Più che mettere in discussione l’atto di fede delle femministe secondo cui bisogna credere alla parola della persona sopravvissuta alla violenza, mi interrogherei piuttosto su come mai nei nostri ambienti pare vigere la religione opposta, per cui ogni storiella, smentita o giustificazione raccontata dall’autore di violenza per negare le proprie responsabilità e gettare merda sulla persona sopravvissuta venga accolta (con un atto di fede) con grandi pacche sulle spalle e sorrisi di rassicurazione, e nel mentre la compagna venga gettata simbolicamente nella cloaca e lì dimenticata.

Si rassicuri il nostro scribacchino, le femministe sono soggetti desideranti e scopano pure parecchio, tra di loro e/o con gli uomini, con varie modalità, forse non quelle che a lui sembrano le uniche concepibili o congeniali. Non sarà forse che le femministe, e molte donne in generale, più che avere paura del sesso o essere soggetti non desideranti, sono stufe di questa sessualità di stampo etero-patriarcale, preimpostata, totalmente incentrata sul desiderio maschile e sul piacere del fallo? L’autore di questo testo ritiene che la voglia del maschio sia un’espressione sana, naturale e sacrosanta, e che rifiutarla sia moralista. Ribalto l’accusa di miseria dei rapporti che viene imputata alle femministe con la miseria dell’immagine che viene fornita dall’autore di questo testo, l’immagine di un desiderio a senso unico, che può sfogarsi soltanto con dei sotterfugi, approfittando dei momenti di debolezza dell’altra persona, o che insiste a imporre la sua presenza anche laddove non è desiderata. Ovviamente l’autore non riesce a immedesimarsi nel fastidio che può provare una donna nel venire continuamente esposta a manifestazioni di desiderio che non la interessano. Come si sentirebbe un uomo nel trovarsi a una serata, esposto di continuo allo “sguardo che spoglia”, alla manata sul culo, alle avances insistenti, alle proposte sessuali, ai complimenti lascivi, alle conversazioni di circostanza che celano un secondo fine, da parte di un’orda di altri uomini desideranti, quando in realtà quella sera vorrebbe soltanto farsi una serata tranquilla magari in compagnia di un po’ di amici/e? (faccio questo esempio facendo leva sull’omofobia costitutiva di buona parte dell’identità maschile, perché se facessi l’esempio di avances da parte di donne la risposta sarebbe la solita, ridicola e banale).

La concezione di un “desiderio” (maschile e a senso unico, sottintesi non esplicitati nel testo ma che ora abbiamo svelato) che ha il diritto di sfogarsi a tutti i costi, al di là della presenza del desiderio dell’altra persona (assente nel testo, segnale di come esso non sia considerato nemmeno nella realtà), è la base ideale per perpetuare una cultura dello stupro. Cosa passa infatti per la mente di uno stupratore se non esattamente il fatto che il suo desiderio è sacrosanto, che ha necessità di essere sfogato, che l’altra persona ci deve stare a tutti i costi, visto che magari ci si è già fatti un film nella testa di come deve andare a finire la serata, e che se non va così si ha il diritto di forzare in qualche modo la situazione perché vada come si era preventivato?

Quando le femministe parlano di stupro e violenze di genere la strategia di chi vuole tapparsi le orecchie è di tacciarle di vittimismo, forse perché si ha la coda di paglia, perché è difficile decidersi ad affrontare i propri privilegi e i propri modi di merda di relazionarsi. Che cuori da leoni! Allora anziché mettersi in ascolto meglio screditare con le più basse accuse, tipo il vittimismo, come se uno dei fulcri dell’organizzazione femminista non fossero proprio i gruppi di autodifesa, che hanno lo scopo di fomentare l’autodeterminazione ed elaborare strategie di resistenza e attacco in contrasto alla passività. Se parlare di quanto ci opprime è vittimista allora noi anarchici siamo i peggiori lamentosi, visto che non facciamo altro che lagnarci di quanto siano cattivi lo Stato e il capitale!

L’immagine virilista, sprezzante e competitiva che esce dal testo, per cui ad esempio viene ridicolizzato il trauma di una persona sopravvissuta a uno stupro e la sua necessità di recupero psicologico, o si sostiene che le assemblee anziché confronti rispettosi tra persone affini dovrebbero essere momenti di sfoggio della potenza del proprio ego per il trionfo del più forte (citare Stirner, a questo proposito, è totalmente fuori luogo, in quanto egli concepiva le relazioni come “liberi accordi” tra egoisti, e non come volontà di predominio di un individuo sull’altro), non ci appartiene e non rispecchia il nostro modo di concepire l’anarchia, che non significa soltanto attacco verso il nemico ma anche solidarietà tra compagnx. Se questa idea di come debbano essere i rapporti tra compagnx nelle assemblee viene applicata anche ai rapporti nella camera da letto, si capisce da quale hummus nascano poi le violenze. Le accuse di buonismo, sentimentalismo, politically correctness non ci toccano, espedienti troppo facili per ribadire una durezza, un suprematismo e una radicalità che non sono altro che il riflesso del pensiero patriarcale dominante, ben vivo purtroppo anche tra molti sedicenti “compagni”.

Phil


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