Titolo: Verso l’abolizione di ogni codice presente e futuro
Data: 11 ottobre 1971
Origine: Consultato il 19 febbraio 2018 su www.nelvento.net
Note: Pubblicato con Appendice ad uso degli storici futuri – un processo per magia

Comportamenti nuovi, che portano a nuove consuetudini, si stanno facendo largo nelle aule dei tribunali e nei commissariati di polizia del paese. Chiunque segua le cronache giudiziarie riportate dalla stampa quotidiana se ne può avvedere. I criminali, immortalati in fotografia quando escono da un ufficio per essere tradotti in galera sotto scorta di robusti “tutori” o quando all’entrata del giudice nell’aula si alzano per rendere “omaggio” al loro boia, non nascondono più il volto tra le braccia e non appaiono più aggrottati e pensosi come un tempo. Spesso sorridono, talora sghignazzano, quasi sempre sono allegri. “Sfrontati e tracotanti”, li definiscono i moralisti della cronaca cittadina; “incoscienti ed infanttli”, li correggerebbe un assistente sociale o qualche psicologo dei comportamenti devianti. Non si può che comprendere il buon cittadino quando auspica i lavori forzati per i malandrini che gli hanno rubato la vettura: sono sani, allegri, ben pasciuti ed eleganti, ed il contrasto con l’immagine ufficiale del lavoratore triste, smunto e grigio crea uno stridore troppo netto. Troppo sani, belli ed allegri per essere onesti. I lavori forzati li ammaleranno, li imbruttiranno e li intristiranno. Ma assai più cosciente “della realtà democratica del nostro paese” è il borghese illuminato quando paragona mentalmente o sulle sue riviste, l’atteggiamento sguaiato e provocatorio di questi giovani criminali con la sobria compostezza, anche se venata di eccentricità, dei politici, dei contestatori, degli intellettuali che, per ragioni assai diverse ma certamente più nobili, spesso affollano i banchi delle aule giudiziarie. In questi ultimi si trovano ancora tracce evidenti della “coscienza civile”, espressa con dignitosa seriosità: essi si sono battuti in nome di un ideale, hanno agito sotto l’impulso di motivi morali e sociali di grande valore, sia pure adottando mezzi sbrigativi e talora non del tutto ortodossi. Ma, affermava Cavour in persona ed era persona certamente non sospetta, “chi non è rivoluzionario a vent’anni, a quaranta finisce sbirro”. E certamente nessuno augurerebbe al proprio figliolo la carriera di sbirro! Un perdono giudiziale per qualche scritta murale, una condanna con la condizionale per un oltraggio a un questurino, un fermo per un volantino ed una condanna per un qualche reato d’opinione non squalificano nessuno, non mettono al bando della comunità civile, non inficiano le possibilità di inserimento nel “mondo del lavoro” : come funzionario di P.S. certamente si (ma è mestiere assai poco ambito e destinato ai più vigliacchi e ai più somari), no di sicuro in qualità di collaboratore di una qualsiasi casa editrice democratica (occupazione assai più lauta di prebende e di onori al merito sulla trincea della cultura). Anzi, il famigerato “aver a che fare con la giustizia” sta divenendo il passepartout gradito per ambienti e carriere democratici. Molti studenti del defunto movimento di contestazione sono divenuti partecipi della mafia universitaria per “meriti di contestazione”, le riviste moderne e sinistre sono gremite di collaboratori che hanno uno scurriculum vitae di “politici illegali”, i cineasti più “a la page” hanno partecipato ad almeno una dozzina di manifestazioni ed hanno avuto due o tre denunce anche se tutte beninteso amnistiate, i rackets politici hanno saputo ben retribuire i loro militanti “perseguitati dalla repressione” e costoro rivestono per lo più ruoli di comando. I salmi, come sempre, finiscono in gloria. E la gloria nella moderna società è data dalla merce e dal suo equivalente generale, il danaro.

Le opinioni sui reati di opinione

Sono in molti ormai ad aver avvertito che il reato d’opinione è stato abrogato per desuetudine. È ben vero che il nostro codice ospita ancora un buon numero di articoli di questo genere: disfattismo, sia esso militare, politico od economico contro la nazione, delitti contro il presidente della repubblica, gli organi dello stato, la costituzione, il tentativo di suscitare la guerra civile e di promuovere ed organizzare bande armate, l’istigazione dei militari alla disobbedienza e dei civili all’odio di classe. Tutti questi fatti sono ancora previsti e sanciti come reati, ma non si può certo dire che poliziotti, magistrati e secondini celino la loro improduttività affaccendandosi contro comportamenti criminali di questo tipo. Non è ignoto a nessuno ormai che questi articoli sono i fronzoli archeologici del nostro codice e stanno in piedi alla stregua della norma che sancisce – beninteso con mandato di cattura obbligatorio – la tratta degli schiavi. Certo è che una vittima ogni tanto bisogna pur farla per far desiderare la libertà di opinione ed il suo esercizio. Braibanti, Tolin o qualche leader contestatore ne fanno le spese. Scelti con oculata casualità in un vasto campionario di comportamenti simili ed a rigore egualmente possibili di condanna, costoro vengono, loro malgrado ma tuttavia con un qualche compiacimento delle “vittime” utilizzati soltanto per rendere più appetibile l’opinione vietata ed affinché in questa attività, peraltro non sempre punita, si sfoghino strati sempre più ampi di popolazione ed in specie quella parte attualmente dedita a reati assai più “materiali”. Perché mai il presente capitalismo si ostini tanto a tutelare e promuovere la libertà di opinione certo risulterà oscuro ad un antifascista dell’ANPI. Ed allora bisogna spiegarglielo. Il nostro anpista direbbe: “nel 31, quando il codice Rocco entrò in vigore, il reato di opinione – inteso come quello commesso da colui che predica e propaganda un ideologia contrapposta a quella dominante – era sancito eccome! E le maglie della rete, una volta cadutici dentro, erano talmente fitte che l’uscirne era quasi impossibile. Ed oggi queste norme” – aggiungerebbe- “sia pure desuete ma mai ufficialmente abrogate – in evidente contrasto col dettato costituzionale, perbacco! – vengono tenute in vita per lasciare aperta la via ad una involuzione autoritaria. Quindi vigilanza e fronte democratico antifascista!”. Gli ex- combattenti, per loro natura di ex e di combattenti, si ostinano a pensare ogni scontro bellico possibile nei termini in cui essi l’hanno vissuto. Quelli del ’15-’18 non vanno oltre la trincea ed ignorano il napalm ed i gas batteriologici. Il nostro ex-partigiano, ex-combattente sul fronte di ideologie ormai putrefatte per il capitale sociale stesso, dal canto suo ripete schemi vecchi allora ed oggi addirittura arcaici, per cui non si avvede del passaggio del capitalismo dal dominio formale a quello reale, cioè dell’installarsi del capitale nella vita quotidiana di ciascuno e non più soltanto nella mediazione della politica. Nel nostro caso ciò significa il passaggio da un sistema che si fonda su un unico racket – la nazione – ad un sistema che, per perpetuarsi, necessita di una pluralità di centri di potere fittiziamente contrapposti ma in realtà complementari. “Ma” – potrebbe incalzare il nostro ipotetico interlocutore da dialogo murale- “nelle fantasie nostalgiche dei singoli giudici , governanti, legislatori non si cela davvero un intento così sottile. Ma come! Favorire lo sviluppo di tutte le ideologie, persino di quelle antagoniste che mirano a scalzare la dominante, non è certo negli intenti dei potenti ben affezionati al loro potere: ciò è comprovato dal fatto che il fascismo valorizzava il capitale e gli altri fattori proprietaristici della produzione rispetto al lavoro umano, mentre le ideologie democratiche rovesciano questo rapporto. E quei parrucconi di giudici e legislatori, da servi del capitale (magari “monopolistico”) quali sono, non possono tollerare la difesa del lavoro a scapito del capitale che li nutre”. Ecco dove riveli la tua muffa, vecchia tromba consunta! Hai pensato che nomi differenti indicassero cose differenti. Non hai capito che sei tu ad ingozzare il giudice e non Agnelli, che lo muove come sacrificabile pedone su una vasta scacchiera. E non già con il tuo plus-lavoro, ma con tutto il tuo lavoro ed anche con il tuo consumo. Non hai capito che il capitale sei tu, parte del popolo lavoratore, che l’ideologia fascista del capitale e quella democratica del lavoro – non importa se la chiamano comunismo, socialismo o società del benessere – vanno a braccetto e non si contraddicono in nulla se non nel nome. A onor del vero bisogna riconoscere al nostro ipotetico e triste interlocutore che i singoli governanti, padroni e magistrati, difficilmente sono giunti a considerare praticamente abrogati i reati di opinione: alcuni li reputano ancora fondamento di tutto l’apparato giuridico e quindi di tanto in tanto li rispolverano. Ma che compito ingrato quando ciò si verifica! Nessuno vuole occuparsene se non vecchi relitti sprovveduti e nostalgici; si cerca quindi di scaricare la pratica ad un collega meno astuto, la si lascia languire su qualche scrivania. IN somma, un sacco di fastidi per quel povero giudice: il pubblico in aula è rumoroso ed ostile, i giornali – in un senso o nell’altro – sbraitano a tutto andare, qualche senatore indipendente in cerca di vestigia di una passata gloria ancora ambita promuove un interpellanza parlamentare, gli avvocati sono combattivi come non mai sapendo che da questi processi deriva quel prestigio che garantisce loro sostanziosi emolumenti dai loro futuri clienti “comuni” e, quel che è peggio, si finisce per essere svegliati nottetempo da una telefonata anonima di minaccia. Se almeno tanta fatica portasse ad un avanzamento di carriera! Macchè. Si corre invece il rischio di ricavarne un cicchetto dall’alto, un trasferimento in una sede disagiata: il tutto per qualche trascuratezza procedurale o per qualche dichiarazione pubblica avventata. Alla larga da casi del genere. Che differenza dalla piacevole routine quotidiana di furti e rapine! nessun fastidio, popolarità ed avanzamenti di carriera. E su questo fronte che ci si guadagna le spalline nella turpe carriera di carnefice. “Ma”- si dirà quell’infelice magistrato – “il dovere è dovere e questi ragazzi, sostanzialmente inoffensivi per i loro volantini e giornali, possono divenire pericolosi se i loro discorsi vengono intesi da teste calde, da teppisti senza ideali. E non solo. Ma costoro vogliono anche fare della pratica ed allora si macchiano di reati più gravi, oltraggiando questurini e tirando sassi. Per queste cose vanno puniti, ma d’altra parte non bisogna rovinarli, giovani come sono: diamo loro la possibilità di reinserirsi nella società ed allora processiamoli anche per questioni ideologiche, queste si nobilitanti”. Il volantino ed i discorsi (soprattutto se non hanno presa e senso per le teste calde senza ideali) diventano l’attenuante, il perdono giudiziale, la sospensione condizionale della pena. L’importante è che vengano conservate le regole del gioco politico e sociale, che esse non vengano infrante da azioni che chiunque può solo definire come insensate. Questo è costretto a dirsi continuamente il giudice. Ed allora le sue difficoltà iniziali si accrescono. Diventa sempre più ingrato saper scegliere nel mazzo. In fatti non si può considerare alla stessa stregua lo stesso reato. Almeno non sempre. L’oltraggio commesso, per lo più involontariamente, da un giovanotto un pò esuberante in una qualche manifestazione antifascista è assai più gravido di “alti significati morali e civili” che non l’oltraggio commesso da un giovanotto un pò più screanzato in qualche manifestazione sedicente estremista e quest’ ultimo oltraggio, alla fin fine motivato da ideali sia pure discutibili, non ha nulla a che vedere con l’oltraggio teppistico di chi intende solo muoversi in puro e semplice spregio dell’ordine costituito. Le differenze sono da farsi, per il nostro Salomone, non solo in fase di analisi ma soprattutto nell’erogazione delle sentenze. C’è di più. Quando addirittura è la stessa persona a commettere più reati è importante saper operare la distinzione tra la parte buona (cioè in fondo sociale e ricuperabile) e quella cattiva (ribelle, asociale e violenta) che convivono nello stesso cuore. Ammiccare al buono per reprimere meglio il cattivo. Ed assai spesso lo stesso colpevole “politico” accetta questo ruolo avendo introiettato le regole e le norme proposte dal giudice. Sulla ideologia sa intrattenere per ore i giudici ma sulla sua stessa violenza pratica, soprattutto se è stata realmente vitale, non sa più bene cosa dir se non invocare la politica ovunque. (L’esempio più tipico ed infame è stato costituito da tal Capanna, capoccia contestatore, che in un processo richiese explicitis verbis di non essere considerato un ladro di polli ma un politico in tutto il suo pennuto splendore!). Insomma il buono (cioè la parte buona) sa di esserlo e lo dichiara, il cattivo (cioè la parte cattiva) ha paura di esserlo e deve trovare delle scusanti. Più volte si è ripetuto in tribunale l’episodio del reo confesso, perché preso sul fatto, di avere, ad esempio, sfasciato una vetrina che, questiono politiche a parte, non sapeva bene come difendersi e cosa dichiarare per cui doveva intervenire, paterno e premuroso, il suo avvocato per invocare l’attenuante della “suggestione della folla in tumulto”. La parte cattiva non aveva saputo fare le sue ragioni, non sapeva di aver criticato praticamente l’economia mercantile. Ma ciò non può stupire. Infatti tutti i partiti e tutte le organizzazioni hanno cercato di celare con le fumisterie ideologiche la realtà, e cioè che la parte cattiva della società è l’unica che, divenendo dialettica, può rovesciare la società della merce ed inaugurare la società senza classi. Costoro hanno solo detto che bisogna unirsi agli operai, se studenti, ed organizzarsi autonomamente, se operai. Le organizzazioni parlamentari, più o meno “extra”, hanno spiegato che la linea di classe è una demarcazione sociologica che oppone gli operai al capitale e il popolo ai padroni. Che la linea di classe passi attraverso i cuori e che la critica della vita quotidiana sia il presupposto di ogni critica ulteriore sono realtà teoriche ignote ai più. Una volta che si diventa membro di un’organizzazione militante, tutte le miserie e le viltà anteriori all’elezione a membro scompaiono come per un colpo di spugna. È certo: le organizzazioni della “parte cattiva” che sappiano fornirsi le ragioni per renderla dialettica, vale a dire per la creazione di una coscienza antioperaia – l’operaio forza – lavoro -, antipopolare – il popolo capitale -, antisociale – la società ergastolo -, in una parola antimercantile, sono ancora da venire ed i nostri giudici possono dormire sonni tranqullli.

Le sinistre opinioni dei “sinistri” sui reati di opinione

I giudici più noti alle cronache spesso vengono minacciati nel cuore della notte ma, che si sappia, non hanno mai richiesto la protezione della polizia. Sanno troppo bene che a vegliare sui loro sonni pensano i democratici ed i politici di tutto il paese. Ora poi che hanno escogitato quella faccenda del referendum abrogativo delle leggi fasciste le cose si preannunciano molto migliori. E chissà che queste leggi non le abroghino davvero, sarebbe un bene per tutti! pluralità di opinioni, un fiorire di ideologie e libertà di sperare in un domani migliore. I problemi reali, per fortuna dei nostri giudici, vengono ancora una volta elusi. Se ci sforziamo di immedesimarci in una qualsiasi personalità della sinistra, promotrice o firmataria della petizione sul referendum, per capire le ragioni, confesse, segrete od inconsce, che l’hanno spinta a questo gesto inutile, ci rendiamo facilmente conto che esse sono in tal natura da costituire non un passo avanti verso l’abolizione del capitalismo, bensì tre passi indietro. Percorriamoli tutti e tre.

Primo passo

Il democratico in questione si esclude automaticamente, con la sua iniziativa, dalla comunità proletaria. Opponendosi ad un oppressione particolare (le norme giuridiche che ostacolano la libertà di opinione) diventa il paladino dl una minoranza, il ceto degli intellettuali e dei politici di professione, e, rivendicando l’emancipazione dal reato d’opinione, dimentica l’emancipazione dai reati proletari: quelli comuni che ogni giorno conducono centinaia di individui sul banco degli imputati. Invece di individuare quelle oppressioni che lo accomunano a tutti i proletari aggregandosi agli stessi, se ne allontana sempre più rivendicando una sua emancipazione particolare. Insomma, insieme al suo ceto difende un privilegio, quello del pennivendoli dalla lingua lunga, difende il proprio posto di lavoro come politico, la propria “seconda categoria” di parolaio prezzolato. È il moderno ebreo che lungi dall’emanciparsi dall’ebraismo per sciogliersi nel consorzio umano, vuole emanciparsi in quanto ebreo e solo in quanto tale.

Secondo passo

Il luminare della sinistra ha un concetto ben radicato nella sua testa. È convinto che alla giustizia borghese vada opposta quella proletaria o, meglio, che la seconda subentrerà alla prima dopo la rivoluzione. Per ora, però, quest’ultima è impraticabile, vista l’esistenza dello stato borghese; suo compito è nel frattempo quello di impedire che i reati politici vengano sanciti. Un compito tutto negativo, come si vede, di difesa, di soccorso rosso. Ma l’espletamento di tale compito ha, peraltro, degli aspetti utili al nostro sinistro: infatti nella “difesa contro la repressione” le divergenze ideologiche gruppuscolari tendono a scomparire e, nella gran notte democratica, tutte le vacche diventano rosse. Tutto ciò lascia ben sperare – il nostro sinistro, s’intende – per la formazione del “nuovo” partito cui i vari comitati antirepressivi e soccorrenziali contribuiscono. Per quanto concerne, poi, i reati comuni il nostro sinistro non ne parla e non ci pensa nemmeno: correrebbe il rischio di doversi esprimere sui compiti della giustizia proletaria, quando essa avrà scalzato quella borghese. Dire se vi saranno ancora codici, carceri e magistrati e se si dovrà ancora far ricorso ad una qualsivoglia giustizia. È facile proclamare che è la società del capitale a generare il ladro e il rapinatore per poter nutrire stuoli di poliziotti, secondini, giudici e spie. Basta scimmiottare Marx. Appare come una conseguenza ovvia il fatto che l’abolizione di questa società implicherà la scomparsa di tutte queste categorie professionali. Ma non sembra che altrove, in un altrove non poi tanto utopico, ciò sia avvenuto: colà bisogna ancora guardarsi dai malfattori comuni. Sarà poi vero che con l’avvento della giustizia proletaria essi scompariranno spontaneamente? È dubbio. Il democratico allora conclude: “Per prudenza, che restino criminali comuni e che resti ben chiara la discriminazione fra essi e quelli politici”. Ma c’è ancora un fastidio prima di mettere in pace la propria coscienza. I carcerati hanno fatto un sacco di casino negli ultimi due anni: hanno bruciato gli istituti di pena, preso in ostaggio i secondini, ammazzato i carabinieri che li scortavano in tradotta. La cosa poi, non accenna a finire ma anzi ad estendersi con violenza crescente. Bisogna ben prendere posizione, una posizione di sinistra! Si tira allora in ballo la riforma dei codici, la soppressione della carcerazione preventiva, salta fuori la storia del bugliolo, si riscopre la rieducazione attraverso il lavoro, l’ergoterapia di Auschwitz. Ma queste sono le balle del filantropi illuministi. Gli “estremisti” dal canto loro scoprono la parola d’ordine che “tutti i detenuti sono detenuti politici”.

Siete delle luride canaglie!

In quanto detenuti sono politici rispettabili, ma in quanto ladri e rapinatori continuano a restare dei malfattori! Si finge di dimenticare il reato che li ha condotti in carcere per plaudere ai reati che gli stessi commettono dentro al carcere. il primo assume scarso significato poiché non è stato praticato da una massa (il che, oltre ad indicare la massiva imbecillità degli “estremisti”, è anche inesatto poiché sono ormai delle masse, anche se frazionate in piccoli nuclei, quelle che commettono i reati che, non a caso, vengono definiti “comuni”); i secondi vengono valorizzati al mero fine di una “strategia politica”. Si attribuisce ai detenuti l’etichetta di “dannati della terra”, che diventa l’etichetta di una sezione di massa – al pari degli operai, degli studenti, dei proletari in divisa, etc.- del costituendo partito. Nel nostro caso, in specie, i due reati – quello commesso fuori dal carcere contro la sopravvivenza ridotta ad un carcere e quello commesso dentro il carcere, contro la sopravvivenza dello stesso – fanno capo ad un unico cuore e il fingere di non accorgersi del primo, significa ridurre gli autori del secondo a massa di manovra, a sasso inanimato da lanciare contro il sistema. Si tende ad impedire al ladrone di assumere la coscienza di espropriatore che gli spetta e che gli permette di affinarsi l’astuzia della ragione sinché la fa franca ed è in libertà; si attende invece che venga incatenato per potergli dare l’estrema unzione ed indicargli la via della salvezza: la politica. Non si fratta con lui da pari a pari quando è in libertà; lo si avvicina in cattività – è pericoloso – per tendergli la nocciolina consolatoria della giusta linea politica come gratificazione.

Terzo passo

“Che cosa può uscir fuori di onorevole da una bottega?” si domanda Cicerone, ma il filisteo democratico da questa orecchia non ci sente “Che cosa mal può produrre di onesto il commercio?” incalza il retore ed il nostro democratico – commerciante e bottegaio di idee qual’è – finge di aver scordato il latino. Per tutelare il mercato delle ideologie che gli dà di che vivere è costretto a difendere anche quello delle merci. Ed allora percorre l’ultimo passo. Fa un gran parlare di “esigenze delle masse”, di “linea di massa”, di “collegarsi con le masse”, ma in tribunale queste nozioni vengono dimenticate, poiché mai alcun senso possedevano se non quello di celare le reali contraddizioni poste in atto dal proletariato moderno sotto la categoria cervellotica di “massa”. Ed allora – crollando il velo dell’ideale e rimanendo solo più la brutale materialità dei propri interessi – quelle masse che tutti i giorni affrontano i tribunali per i reati comuni le si lascia perdere ricorrendo ad ogni espediente denigratorio o paternalistico. “ Sono forme di insubordinazione inconsce ed individualistiche”, dicono. Ma intanto, inconsciamente ed individualisticamente, migliaia di persone affrontano i giudici perché imputate di furti, rapine e simili. “Il reato d’opinione sì”, aggiungono i promotori del referendum “è un reato di massa: esso rappresenta l’intolleranza delle masse, se non addirittura le masse stesse e chi le serve”. Con ciò essi non solo esprimono delle opinioni, al pari del reato che difendono ma, nel contempo, mostrano i loro obiettivi di educatori del popolo ed i futuri capoccia che, già oggi, gli permettono di amministrare le proprie cosche mafiose. Essi, nel loro massimo sforzo mentale, riescono a mala pena ad individuare, colla falsa categoria della sociologia, un proletariato di fatto inesistente e di comodo. E pensano che questo proletariato, sociologicamente inteso, possa emanciparsi (o, meglio, lasciarsi emancipare) partecipando a delle “opinioni” in contrasto con quelle ora attualmente dominanti. La mistificazione nasconde gli interessi materiali di costoro e questi interessi materiali sono una mistificazione della rivoluzione che è già in marcia, anche nelle aule di tribunale e nelle carceri. Ma l’opinione – sia pure individualistica e talora incosciente – che si realizza nel reato contro la merce e le sue coperture ideologico – istituzionali – l’opinione che si avvia a diventare pratica e pienamente realizzata, quella non viene difesa ed anzi si cerca di impedirle di autofornirsi le ragioni. Così gli ideologi in questione diventano custodi del sistema della merce ed il giudizio di Cicerone secondo cui “i mercanti non possono guadagnare senza mentire e non c’è nulla di più spregevole della menzogna” si addice loro perfettamente. I sinistri si sono svelati infine. Vogliono una realtà modellata sui loro ideali, cioè sul tornaconto del loro ceto. Si sono messi i paraocchi e vorrebbero metterli a tutti. Blaterano tanto intorno alla libertà d’opinione, perché non va loro a genio l’unica opinione che sta venendo a galla: quella che non sopporta più l’esistenza della merce. Muoviamoci non già per l’abrogazione di qualche reato particolare ma

Verso l’abolizione di ogni codice presente e futuro

Ci tocca a questo fine continuare il fastidioso esame del giudice tipo. È giusto, ma non ci aiuta in nulla, liquidarlo come “servo dei padroni”. Andiamo a vedere com’è diventato quello che è: un essere mal riuscito, ambiguo, impopolare, a contatto con le cosche mafiose e spesso mafioso egli stesso. Che differenza rispetto ai suoi idoli spettacolari: il padrone ed il governante! Egli invece è privo di ogni capacità inventiva e decisionale ed allora è ovviamente relegato ad una mansione di sott’ordine, esecutiva. Egli può solo sognare di decidere il destino di milioni di uomini, ma nella realtà deve soltanto bastonare quanti a questo destino si ribellano. Ma, fra compari, il più zuccone è sempre il più zelante ed egli in quanto a zelo ce la mette tutta. Distribuisce anni di galera come noccioline e, se di sinistra, è un vero pericolo pubblico. A forza di essere lo zimbello si è fatto crescere il pelo sullo stomaco ed ha cercato le sue soddisfazioni con altri amici. Si è creato un mondo in cui nessuno lo tocca. Se un padrone lo obbligava a mettere in galera un qualche sindacalista e lui lo faceva, saltava su il senatore – di – sinistra a tirargli le orecchie. E quando poi, per far contento quest’ultimo, una volta tanto stava per acchiappare qualche industriale fallito, all’ultimo momento gli scappava dalle mani ed allora “a letto senza cena”. Quanti fastidi a ficcare il naso negli “affari politici”! Ma adesso non lo asfissia più nessuno, ha trovato la sua strada. Lo dice perfino la Costituzione che la magistratura è indipendente e sovrana. Ladri, rapinatori e sfruttatori. Di quelli si occupa adesso. E guai a chi glieli tocca! Ma nessuno vuole toccarglieli. “che se li goda”! gridano in coro. Il suo migliore amico è diventato il capo della mobile; ora conosce anche le puttane ed i ricettatori. Con questi ultimi poi intrattiene ottimi rapporti. È gente che sta al proprio posto e che rispetta le proprie competenze. E poi sono una fonte inesauribile di informazioni. Quando qualcuno di loro, di solito un orefice apparentemente rispettabile, ci lascia la pelle, allora scatena tutta la sbirraglia alla ricerca di un qualsiasi colpevole. Ha ben capito il verme che è la cruminalità a dargli di che vivere e che, se essa non ci fosse stata, gli sarebbe toccata la sorte di tutti gli aborti, il W.C. Che manna i malavitosi vecchio stampo: gerarchie interne, rispetto dei ruoli, delle competenze e delle specializzazioni, disciplina, spirito di corpo e codice d’onore. Ha ragione il capo della mobile quando parla di racket. Lui li mette all’indice per farsi bello, è vero, ma in realtà che fastidio danno? Si tratta di piccole imprese artigianali che si occupano di un dato settore: bische, puttane, droga, compravendita di refurtiva. Le regole del gioco sono rispettate in pieno: piccoli centri di potere che si bilanciano l’un l’altro. Che differenza c’è rispetto ai racket politici cui si modellano? Nessuna. Ognuno ha la sua piccola mania da esercitare in un raggio d’azione ben delimitato. Bische, puttane ed ortofrutticoli da una parte; capitale, clero, lavoro, popolo, classe operaia dall’altra. Solo quando le competenze non vengono rispettate, allora bisogna intervenire. Ma succede di rado: in pratica solo quando qualche gregario vuole prendere il posto del padrone o quando comincia a muoversi di testa sua senza nessun padrone. Sono quelli che danno più rogne i giovani teppisti che incominciano a usare la testa e non sopportano più le regole del gioco. Sono i più difficili da controllare. Non rispettano più l’autorità di un capo e non hanno più voglia di farsi impiccare dal ricettatore. Ogni tanto lo derubano, qualche volta l’ammazzano. Buono per il nostro giudice che sono sparsi e disorganizzati: non gli fanno ancora paura. Crescono di numero, ma per adesso non occorre nemmeno aumentare i contingenti di P.S.. Basta infittire la rete di delatori ed informatori. Sono teste calde ed i meno controllabili, ma cadono regolarmente nel sacco. Allora bisogna tenere le pene un pò alte, ma questo non è davvero un problema. Non appartengono ad alcun racket di potere, non hanno alcuna copertura, sono indifesi. Tuttavia proliferano; non agiscono più soltanto nel ghetto riservato alla malavita, ma ovunque. Per lo più incensurati, l’interesse monetario che li muove è spesso ignoto: esso sta per essere rimpiazzato dallo spregio puro e semplice dell’ordine costituito. Ma il nostro presidente di tribunale, lungimirante qual’è, ha una preoccupazione ben diversa. Non è un frutto della sua paranoia, è un suo timore fondato anche se per ora se ne scorgono solo le avvisaglie. Ha osservato bene la realtà che lo circonda ( quella processuale) ed ha constatato che si sono dati alcuni casi in cui i colpevoli hanno rivendicato a teste alta le loro malefatte, le hanno spiegate e giustificate. Hanno incomindato gli amici di Cavallero a far cagnara in aula e poi c’è stato quel Loris Guizzardi che dopo vent’anni di galera ha ammazzato un giudice scelto a casaccio e adesso c’è quel fattaccio di Mario Rossi, il genovese che ha ucciso un porta – valuta e che non sembra essere molto pentito: pare addirittura che voglia difendersi sostenendo di essere innocente in quanto la sua vittima era un cadavere vivente e non si può uccidere chi è già morto: già morto perché difendeva un capitale nemmeno suo. Ed anche casi minori di scarso pentimento, anzi di orgoglio motivato e ragionato intorno alle proprie malefatte. Queste si che sono rogne ed il nostro giudice sa bene che esse non sono il frutto delle fantasie masochistiche dei protagonisti ma invece l’emergere di un punto di vista che, faticosamente, si sta diffondendo. Incominciano a pensare di non essere più ladri e rapinatori, ma espropriatori, non più assassini volgari, ma sanzionatori. Il loro rifiuto di lavorare ed il crimine che ne consegue lo motivano come riappropriazione di ciò che è stato loro tolto da sempre. Alcuni dicono addirittura di aver agito nel nome del comunismo mondiale. Sono pochi casi, è vero, ma sintomatici e “l’uomo di giustizia” ne teme la proliferazione ed il contagio al “popolo lavoratore”. Gente che sa difendersi, che conosce le proprie ragioni storiche, gente per cui il non – lavoro è stata una decisione consapevole e non una calamità imposta, che sta tentando di organizzarsi sempre meglio ed in modo sempre più duro. “E, quel che è peggio, da tutto ciò costoro traggono del piacere – mugugna il magistrato – questa è la cosa peggiore, intollerabile. Se almeno avessero un pò di timore dei rischi cui vanno incontro! Macché, se ne infischiano e per loro dentro o fuori non fa alcuna differenza. Dicono che è lo stesso: dentro o fuori, dicono di essere condannati all’ergastolo in partenza. Tutta la società per loro è un ergastolo, un ergastolo sociale”. Il giudice ha capito che questi sono elementi pericolosi, non tanto per le loro imprese, ma perché stanno diventando popolari e la gente incomincia a chiedersi il perché del loro comportamento e della loro sicurezza. “Se le loro ragioni vengono comprese, qualcuno incomincerà ad emularli, anche se in forme diverse: guai se riuscissero a contagiare gli altri con la loro disperazione. La gente deve sempre sperare in qualcosa. Questo qualcosa lasciamo pure che ognuno se lo scelga a piacere” ecco il punto di vista del tribunale. Per frenare questo contagio le forze del nostro giudice, sia pure alleato con il commissario non bastano più. Ha bisogno di alleati nuovi. Se li cerca nei giornalisti e nei tenutari dei mezzi di comunicazione. Bisogna che i cittadini abbiano in odio questi nuovi criminali dialettici. Bisogna farli passare per pazzi pericolosi e per nemici del popolo lavoratore. Bisogna che il timore del giudice sia trasmesso ai ceti più umili, a quei ceti che in realtà non avrebbero nulla da temere. Bisogna che l’odio di chi non possiede più nulla, tranne la vita in perenne baratto con la sopravvivenza, sia sviato contro chi mette in discussione il possesso di ogni bene fittizio. Bisogna che chi è stato espropriato pressoché di tutto difenda quelle briciole di vita su cui muore la stragrande maggioranza della popolazione. Bisogna farli odiare dagli operai, ecco il sistema per dormire di nuovo tranquilli! I giornali allora tuonano quotidianamente dalle loro colonne contro la “teppaglia” che mette in pericolo le vite e gli averi dei lavoratori. Ma proprio tutto non possono inventare. Bisogna fare in modo che i teppisti si volgano davvero a spogliare gli operai. Bisogna ridurre alla fame i teppisti, stornarli dai loro lauti guadagni ottenuti saccheggiando le ville degli industriali, rapinando le banche e gli orefici, rapendo i figli dei possidenti. Bisogna fare in modo che scippino qualche vecchia pensionata indifesa, che rubino la paga di qualche operaio, che ammazzino un lavoratore che era lì per caso. Questa è un impresa ambiziosa ed allora si mobilitano tutti: parlamentari, padroni, giudici, polizia e stampa. Tutelare i possidenti, ridurre alla fame la teppa, costringerla a spogliare gli operai, isolare la teppa, ottundere gli operai: questo l’intento del Ministero degli Interni. È un programma di ampio respiro, di penetrazione capillare nella società: ma lo stanno mettendo in piedi a tappe forzate. Gli orefici, razza di ricettatori se mai ne è esistita una, sono istigati dalla stampa quotidiana a costituirsi in banda armata : si allenano bellicosi al poligono e si costituiscono ufficialmente in racket militare. Vengono allestite mostre relative ai congegni antifurto e se ne pubblicizza a spese dello stato l’impiego per chi abbia un pò di soldi da difendere. Si istigano gli operai (e questi raccolgono l’istigazione) dell’industriale cui è stata rapita la figlia a battere la collina genovese alla ricerca del rapitore: dopo averla mantenuta per anni, costretti a lavorare per ritrovarne il cadavere. Queste sono soltanto le prime avvisaglie. Ma c’è una beffa in più. In Parlamento si istituisce un fondo di assistenza per le vittime del delitto che si trovino “in condizioni di comprovato bisogno”. Un invito alla delazione, ma non solo. Una beffa, perché dopo aver dirottato a bella posta le spoliazioni verso “coloro che si trovano in stato di comprovato bisogno”, si finge di difenderli dando loro qualche briciola dall’alto di quel capitale che essi stessi hanno prodotto e di cui sono parte. Queste sono le manovre da sventare. La loro apparente neutralità è il maggior sintomo della loro pericolosità: passano inosservate e non scandalizzano nessuno. Sono promosse in nome ed a tutela di una classe che non esiste in quanto tale: quella dei lavoratori. Si inventa di sana pianta una solidarietà dei lavoratori a difesa dei frutti del loro lavoro: dopo averli privati dei loro frutti si manovra affinché alcuni giovanotti portino via le ultime briciole. E ciò viene spacciato come la ragione della spoliazione complessiva. Siamo di fronte ad un tentativo di sventare la costituzione di un fronte contro il lavoro. Ogni forma di solidarietà viene ostacolata accusando la teppa di essere antioperaia. La si riduce nell’impossibilità di portare avanti spoliazioni fruttuose e la si invoglia a mettersi contro i propri compagni di sventura, i lavoratori. Questi ultimi poi sono sollecitati a diventare delatori e collaborazionisti con l’agguerrito esercito che ha occupato le loro vite quotidiane, incatenandoli al lavoro ed alla noia. È vero, la teppa è antioperaia perché è contro l’operaio – merce, l’operaio sociologico, l’operaio forza – lavoro e quindi capitale. Questo perché siamo in periodo di occupazione. Teppisti ed operai, divenuti entrambi dialettici, non si riconosceranno più gli uni dagli altri. Il giudice sarà allora costretto a giudicare gli uni e gli altri per reati comuni e solo per quelli. E il democratico non potrà più tirare in ballo l’attenuante dei “motivi di particolare valore morale o sociale”. Una classe di espropriatori, di riappropriatori e di sanzionatori si sta costituendo. Nessun politico contribuisce a fornire le sue ragioni. Ed allora essa se le fornirà da sé medesima.