Titolo: Appendice ad uso degli storici futuri
Sottotitolo: Un processo per magia
Data: 11 ottobre 1971
Origine: Consultato il 19 febbraio 2018 su www.nelvento.net
Note: Pubblicato con Verso l’abolizione di ogni codice presente e futuro

Intorno agli anni 1970/1971, nella città di Torino, allora capitale della metalmeccanica si svolse dinanzi al tribunale locale un singolare processo. Erano imputati quindici giovani di nessuna rinomanza. Si vuole qui esaminare ciò che li condusse di fronte ai giudici. Era l’inverno: e costoro per vincere le noie della stagione inclemente erano soliti incontrarsi in qualche dimora ospitale e colà discutere dell’avvento della prossima liberazione. Non contavano molti amici né ammiratori che erano stati messo al bando da quei circoli cui la nascita li avrebbe destinati. Da messi al bando ambivano a diventare banditi. Un bel giorno, presi d’amore verso sé stessi, decisero che era giunto il tempo di non frapporre più indugi e di mettersi in marcia verso la realizzazione dei propri ideali. Ma che scoramento quando ci si contava! E allora iniziarono i reclutamenti; adescarono con parole ammalianti i peggiori elementi della città, i più cialtroni, i più corrotti, i piu fannulloni. E il loro numero crebbe. Diedero quindi inizio ad ogni sorta di ribalderia. Erano dediti in particolare a perseguitare i pacifici cortei degli studenti di qualunque colore, a sbeffeggiare i democratici che pigliavano la parola in pubbliche occasioni, a divulgare scritti pornografici presso gli operai, a progettare ed a mettere in atto la messa a sacco delle sedi politiche e sindacali. Si mormorava in più che alcuni traessero i loro emolumenti dal ladrocinio al fine di fare ampio consumo di tossici di ogni genere. Gli avversari sostenevano persino che in luoghi segreti, lungi da ogni sguardo importuno, vendessero ad alta mercede notizie scottanti ai funzionari di polizia. Come le cose andassero in verità, non è più ricostruibile con esattezza; è certo però che il gruppo in questione, che nel frattempo aveva preso il nome di Organizzazione Consiliare, non ebbe vita facile ed i suoi giorni furono brevi. I suoi membri iniziarono ad essere divorati da discordie intestine e si addivenì allo scioglimento di fatto, anche se mai proclamato. ll tessuto sano della città laboriosa li aveva spontaneamente espulsi e ridotti all’impotenza: così è riportato dalla tradizione giornalistica dell’epoca. Ma accanto a questa, un’altra ragione aveva contribuito, in così breve lasso di tempo a neutralizzarli. Incominciarono a reclutare all’impazzata come una qualsiasi congrega di politici, allora così diffuse, a voler restare al passo con le pubbliche scadenze che i governanti proponevano, a cercare di sottrarre spazio di intervento ai rackets della politica allora operanti. E questo spazio se lo trovavano nella suburbe e divennero portatori di una delle tante ideologie: quella della teppa e del disadattamento. Non poteva durare così come non durò. Ma quando già si erano dispersi ed ognuno si era dipartito per la sua strada intervennero i pubblici poteri a riaggregarli per l’ultima volta. Lo zelo tardivo di un Pubblico Ministero intravide nei loro scritti clandestini la presenza del reato d’opinione, il vecchio reato ideologico dell’età precedente. Per gli imputati fu un fulmine a ciel sereno. Avrebbero dovuto trovarsi ancora una volta insieme, simulare una disciplina di gruppo, difendere un’ideologia da tempo criticata concretamente con lo scioglimento. Comparvero comunque dinanzi al tribunale quali imputati di “istigazione a delinquere” ed “associazione antinazionale”. E veniamo all’istruttoria iniziando con le accuse formulate dal Pubblico Ministero. Quali furono le ragioni che condussero proprio all’incriminazione delle quindici persone in questione e non di altri membri della ormai sciolta organizzazione ci è ignoto. Non ci sono giunti infatti i rapporti di polizia che condussero alle incriminazioni. Disponiamo soltanto degli atti istruttori che nulla provano in merito dando per scontata l’adesione degli imputati alla congrega. Pare tuttavia che solo alcuni degli accusati avessero contribuito in qualche modo alla stesura degli scritti ed alla loro divulgazione; gli altri erano semplicemente dei compagni di strada, degli amici o al più dei simpatizzanti. Che l’inquisitore fosse mosso da malignità e che i suoi maneggi tendessero a precostituire la sentenza manipolando gli intenti degli imputati risulta chiaro dall’esame comparato della citazione istruttoria e degli scritti incriminati. Sostiene infatti l’accusa che gli incriminati agivano nella loro qualità di organizzatori o appartenenti al movimento politico estremista extraparlamentare denominato “Organizzazione Consiliare”. A dimostrare la falsità di tali qualifiche stanno numerosi brani degli scritti in questione in cui viene dileggiata ogni forma di politica, di qualunque colore verniciata. La politica viene addirittura, con facile gioco di parole, equiparata alla polizia e non possiamo certo pensare che gli imputati fossero lusingati di comparire sui banchi della giustizia in qualità di movimento politico. Introduceva inoltre l’accusa la categoria di “organizzatori od aderenti”, nozione certamente ignota alle pratiche degli imputati che avevano sempre caldeggiato la soppressione della distinzione tra dirigenti ed esecutori, tra capi e gregari. È curiosa l’ostinazione dell’inquisitore volta a tacciare come politica l’attività degli imputati. In un passo successivo li accusa infatti di “aver esaltato furti, saccheggi e rapine quali strumenti di lotta sociale”. Salta agli occhi l’incongruenza dell’asserzione che nessuno oserebbe qualificare di sociale nefandezze del genere. Incredibile ostinazione, dicevamo, giacché negli anni in cui i fatti si svolsero la figura del politico non aveva ancora assunto la coloritura spregevole che le toccò con l’avvento della storia. Politico era ancora colui che, mercè personale commercio con le idee, intendeva con l’efficacia delle parole conseguire qualunque incredibile prodigio; e per prodigio intendevasi l’emancipazione dell’umanità: un mago insomma , ma con dignità dl sapiente. Poteva forse il procuratore, dipingendoli quali politici, aggravare la posizione degli imputati già sufficientemente compromessa dalla disamina positiva degli scritti? Non pare. Ci è più facile credere che egli intendesse far leva sul cuore politico dei rei – quel cuore che li aveva condotti ad emulare le regole politiche – e sminuirne invece l’indole dialettica – quella che li aveva condotti ad autocriticarsi ed a sciogliersi -. Suo intento presumibile era ridare vita all’Organizzazione Consiliare così come era esistita per completare l’ingabbiamento di tutti i settori sociali entro quelle ideologie che più si adattavano loro. Ma vediamo come andarono le cose in sede di dibattimento l’11 ottobre 1971. Alcuni imputati non comparvero scientemente, altri non seppero mai che era stato celebrato un processo a loro carico; i pochi che si presentarono lo fecero per ritrovare il buon umore smarrito. Volevano celebrare la parodia della giustizia. Ricusarono gli avvocati dichiarando una sfiducia pregiudiziale nei confronti della corte: agivano come se sapessero che la loro condanna era stata archiviata fin dall’inizio. Non fecero nulla per accattivarsi i giudici nè per convincerli della propria innocenza. Un osservatore avrebbe anzi detto che ricorressero a tutti gli espedienti per mal disporre la corte. Alcuni di loro avevano una vaga infarinatura di nozioni giuridiche che avevano acquisito in casi giudiziari personali precedenti: ed allora sollevarono una serie di eccezioni procedurali, meri vizi di forma privi di qualsiasi contenuto. Sostennero che i testimoni di accusa erano stati stornati previamente, che gli stessi non erano credibili in quanto dediti a professioni infamanti – poliziotti e sorveglianti Fiat – . Tirarono in ballo il fatto di non aver ricevuto le notifiche secondo tutti i crismi. Invocarono addirittura la “legittima suspicione” poiché, a sentir loro, il Pubblico Ministero nutriva degli antichi rancori nei confronti di alcuni imputati: aveva infatti tentato di incriminarne un paio che erano comparsi in qualità di testimoni in un caso giudiziario precedente. La riserva mentale che li animava era evidente che, non credendo nella giustizia, non potevano certo credere nei suoi meccanismi procedurali; ma volevano godersene fino in fondo, e non più da spettatori bensì in prima persona, la farsa ed agirono di conseguenza. In merito alla sostanza, pur non contestando positivamente i fatti loro ascritti, si astennero dal confermarli: dichiararono che spettava alla corte ed alla sua rete di informatori dipanare la matassa. Si limitarono a pronunciare lunghe e veementi orazioni su argomenti scelti a casaccio di nessuna attinenza con l’argomento processuale. Al presidente toccò allontanarne più d’uno dalla seduta in corso. La sentenza non si fece attendere. Scagionò alcuni da ogni addebito e condannò altri – la metà circa – ad un anno e sei mesi di reclusione da scontarsi quando l’iter giudiziario fosse stato concluso. I convenuti si allontanarono e da quel giorno degli stessi in quanto politici non si ebbe più notizia. Rigettata per sempre quell’ideologia che li teneva separati dal consorzio dei proletari, se ne ricongiunsero materializzando le loro pratiche. Il tentativo del Pubblico Ministero di ricostituire l’Organizzazione Consiliare era fallito.

“audaci, arroganti, non hanno orrore di dir male delle dignità;... Essi trovano il loro piacere nel gozzovigliare in pieno giorno; sono macchie e vergogne, godendo dei loro inganni mentre partecipano ai vostri conviti; hanno occhi pieni di adulterio e non possono smettere dì peccare; adescano le anime instabili; hanno cuore esercitato alla cupidigia; sono figliuoli di maledizione.... Adescano con le concupiscenze carnali e le lascivie quelli che si erano già un poco allontanati da coloro che vivono nell’errore, promettendo loro la libertà...”

(Seconda Epistola di Pietro Apostolo, 2, vv. 11-19).

Noi ci riconosciamo nei moderni rivoluzionari. In tendiamo vivere nel piacere e nell’illegalità poiché ciò soltanto ci dà gioia. La dissoluzione di tutto ciò che esiste è l’unica via che può condurci alla realizzazione del piacere assoluto. Ma, soprattutto, vogliamo che altri, sempre più numerosi, abbandonino il loro stato di masochismo servile per intraprendere arditamente la strada del piacere smodato che, sola, può condurli alla gioia massima: la festa della distruzione di tutto ciò che esiste oggi. Fino ad ora abbiamo cercato, da soli od in concorso di persone, di individuare e di infrangere tutti quegli impedimenti che erano di ostacolo alla nostra felicità. Purtroppo alla nobiltà dei nostri intenti non sempre è corrisposta chiarezza pratica e determinazione cosciente. Ciò ha permesso che fossimo scambiati per dei “politici”. È stato infatti istruito un processo nei nostri confronti che dimostra chiaramente i nostri limiti e l’errore in cui la magistratura è incorsa. Onta a noi! Ma la giustizia è “spietata” ed infatti ci accusa di un delitto in cui non crediamo opponendoci, nostro malgrado, di affrontare un giudizio “politico” alla stessa stregua di quei “militanti” sinistri che popoleranno le aule dei tribunali per reati di pensiero. Onta a noi che abbiamo così poco materializzato la nostra teoria, che così poco ci siamo associati per delinquere, che così pochi delitti abbiamo commesso. Onta a noi poiché la nostra intolleranza verso il sistema non è stata insufficiente ad impedire il tentativo di recuperarci come militanti del “gruppo politico extraparlamentare denominato Organizzazione Consiliare”. Ebbene basta! Non tollereremo di essere democraticamente e civilmente giudicati ed useremo questo processo per distruggere la nostra triste fama di “militanti” e di “politici”. Poiché temiamo di essere accomunati a tutti i perseguitati “politici”, mentre siamo tutt’uno con i perseguitati “comuni” , sfogheremo equamente il nostro disprezzo contro i “militanti” e contro i giudici. Vogliamo una volta per tutte meritarci l’appellativo di “teppisti e criminali”. Inoltre non sopporteremo di essere difesi dai giuristi democratici; costoro rendono istituzionale la repressione ed organizzano la difesa mentre noi intendiamo attaccare. L’accusa ci imputa di reati di opinione ma, provocatoriamente, finge di dimenticare che l’opinione più criminale da noi espressa è che ogni pensiero, disgiunto dalla sua realizzazione, non è altro che ideologia. Ciò non può che scatenare la nostra ira: ci si vuole accusare di reato ideologico. O i nostri pensieri e le nostre opinioni sono rimasti tali, cioè ideologici ed inoffensivi, il che ci indurrebbe a porre in atto atti di intolleranza pratica onde riparare al malfatto ed al non fatto, oppure vogliono negarci l’attributo di criminali comuni benché il nostro pensiero sia stato, da noi stessi o da altri materializzato. Si rifiutano di attribuirci “reati di teoria”! pertanto ci istigano a commettere sempre maggiori ribalderie fino a quando la nostra indole di criminali comuni sarà tale da non poter più essere negata.

Criminali di tutto il mondo unitevi

Il proletariato moderno ha già compreso il significato liberatorio del crimine inteso come atto d’amore assoluto verso sè stessi ed i propri simili e di odio assoluto verso le larve che si contentano di vivere nelle tenebre della sopravvivenza. George Jackson fra gli altri, non è un eroe politico. È solo un detenuto comune che ha ucciso alcuni secondini, ma tuttavia una realtà che ormai si legge in faccia a migliaia di proletari uniti nella lotta criminale alla società. George Jackson non è stato un detenuto “politico” e, in fondo, non più “detenuto” degli uomini sedicenti “liberi”. Tanto è vero che hanno dovuto ucciderlo per poterlo “detenere”. Noi possiamo cancellare la nostra colpa di aver compiuto così pochi e così lievi delitti solo iniziando concretamente ad associarci per delinquere con tutti i george jackson che si trovano per le strade, ridendo in faccia a tutti i funzionari del capitale, giudici compresi. E se questo è oltraggio sappiamo che vi oltraggiamo tutti i giorni con i nostri orgasmi, con le nostre felicità collettive mentre voi siete là ad aspettare che la morte fisica decreti la vostra morte reale già presente. I nostri oltraggi li ritrovate negli occhi di milioni di proletari che stanno accorgendosi che la rivoluzione è già incominciata, che vi mandano a farla in culo con i vostri amici politici professionali. A tutti i processi rideremo obbligando tutti gli imputati futuri a ridere lo vogliono o no. Uomini d’ogni paese, esigete il meglio assoluto subito e proverete anche voi la gioia di essere considerati “criminali” e di accomunarvi a molti altri UGUALI, altri COMPAGNI, altri CRIMINALI.

Torino, 11 ottobre 1971

L’ Organizzazione Consiliare riunì – tra gli altri – rivoluzionari di ispirazione situazionista e marxista – libertaria.