Nicolas Walter

Dell’anarchismo

1969

    Quel che gli anarchici credono

      Liberalismo e socialismo

      Democrazia e rappresentanza

      Stato e classe

      Organizzazione e burocrazia

      La proprietà

      Dio e Chiesa

      Guerra e violenza

      L’individuo e la società

    Le espressioni dell’anarchismo

      L’anarchismo filosofico

      Individualismo, egoismo, corrente libertaria

      Mutualismo e federazione

      Collettivismo, comunismo, sindacalismo

      Poca differenza

    Quel che vogliono gli anarchici

      L’individuo libero

      La società libera

      Il lavoro

      Il necessario ed il superfluo

      La società del benessere

      Pluralismo

      Rivoluzione e riforma

      Quel che gli anarchici fanno

      Organizzazione e propaganda

      L’azione

Quel che gli anarchici credono

I primi anarchici furono persone che parteciparono alle rivoluzioni inglesi e francese nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, persone alle quali fu dato questo nome come un insulto, per significare che volevano l’anarchia nel senso di caos o confusione.

Ma dal 1840 in poi, gli anarchici accettarono quell’appellativo per significare che volevano l’anarchia nel senso di mancanza di governo. La parola greca anarkia, come la parola inglese anarchy (e l’italiana “anarchia”) ha entrambi i significati; coloro che non sono anarchici l’intendono come se volesse dire la stessa cosa; quelli che sono anarchici, invece, insistono nel fare la distinzione. Da oltre un secolo gli anarchici sono persone che credono non solo che la mancanza di governo non deve significare caos o confusione, bensì anche che una società senza governo sarà in realtà migliore di quella in cui viviamo ora.

L’anarchismo è l’elaborazione politica della reazione psicologica all’esercizio dell’autorità che si manifesta in tutte le convivenze umane. Tutti conoscono degli anarchici naturali che non fanno o non credono una cosa unicamente perché qualcun altro dice di farla o di crederla. Lungo il corso della storia la tendenza pratica all’anarchismo si nota fra individui e gruppi che si ribellano a chi li governa. Anche l’idea teorica dell’anarchismo è molto antica; la descrizione di una passata età dell’oro senza governo si può infatti trovare nel pensiero dell’antica Cina e dell’India, dell’Egitto e della Mesopotamia, della Grecia e di Roma, così come si può trovare il desiderio di una futura utopia senza governo nel pensiero di una quantità di scrittori e di comunità religiose e politiche. Ma l’applicazione dell’anarchia alla situazione contemporanea è più recente, e soltanto nel movimento anarchico del secolo passato troviamo la preconizzazione di una società senza governo, qui da noi e nel tempo presente.

Altri aggruppamenti, tanto di destra che di sinistra, vogliono disfarsi del governo, in teoria, quando il mercato è così libero da non aver bisogno di sorveglianza, oppure quando le popolazioni si trovano in condizioni di uguaglianza tali da non aver bisogno di freni; ma i provvedimenti che costoro prendono sembrano fare il governo sempre più forte. Gli anarchici sono i soli a volere in pratica l’abolizione del governo. Ciò non significa che gli anarchici credano che tutti gli esseri umani sono buoni per natura, o identici, o perfettibili, o qualsiasi altra romantica nozione del genere.

Significa che gli anarchici pensano che quasi tutti gli esseri umani sono socievoli, e consimili, e capaci di vivere la loro propria vita.

Molta gente dice che il governo è necessario perché vi sono di quelli che non danno affidamento di essere in grado di prendersi cura di se stessi; gli anarchici dicono, invece, che il governo è dannoso perché nessun essere umano può dare affidamento di essere in grado di prendersi cura di altri. Se tutti gli esseri umani sono così cattivi da aver bisogno di essere governati da altri – domandano gli anarchici – com’è possibile che vi siano esseri umani tanto buoni da governare altri? Il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Nello stesso tempo, la ricchezza della terra è prodotta dal lavoro del genere umano nel suo insieme, e tutti gli umani hanno uguale diritto di partecipare alla continuità del lavoro ed al godimento dei suoi frutti. L’anarchismo è un ideale che preconizza contemporaneamente la libertà totale e la totale uguaglianza.

Liberalismo e socialismo

L’anarchismo può essere considerato come uno sviluppo tanto del liberalismo che del socialismo, o del liberalismo e del socialismo insieme.

Come i liberali, gli anarchici vogliono la libertà; come i socialisti, gli anarchici vogliono l’uguaglianza. Ma il liberalismo da solo non li soddisfa, come non li soddisfa il socialismo da solo. La libertà senza la uguaglianza vuol dire che il povero e il debole sono meno liberi del ricco e del forte, e l’uguaglianza senza libertà vuol dire che siamo tutti schiavi insieme. Libertà ed uguaglianza non sono contraddittorie, sono complementari; invece della vecchia polarizzazione della libertà in opposizione all’uguaglianza – secondo cui si vuol dare a intendere che più libertà significa meno uguaglianza, e più uguaglianza comporta meno libertà – gli anarchici sostengono che in pratica non si può avere l’una senza l’altra. La libertà è una vana parola se vi sono individui troppo poveri o troppo deboli per goderne, e la uguaglianza non è vera se vi sono individui governati da altri. Il contributo decisivo portato dagli anarchici alla teoria politica è proprio questa constatazione che la libertà e la uguaglianza sono, in ultima analisi, inseparabili.

L’anarchismo si differenzia dal liberalismo e dal socialismo anche perché concepisce il progresso in maniera diversa. I liberali vedono la storia come uno sviluppo lineare dalla vita selvaggia, dalla superstizione, dalla intolleranza e dalla tirannide alla civiltà, alla cultura, alla tolleranza e alla emancipazione. Vi sono passi in avanti e passi indietro, ma il vero progresso dell’umanità procede da un cattivo passato ad un buon avvenire. I socialisti vedono la storia come uno sviluppo dialettico dallo stato selvaggio, attraverso il dispotismo, il feudalismo ed il capitalismo, fino al trionfo del proletariato e all’abolizione delle distinzioni di classe. Vi sono rivoluzioni e reazioni, ma il vero progresso della umanità procede da un cattivo passato verso un buon avvenire.

Gli anarchici vedono il progresso in una maniera del tutto diversa; tanto è vero che spesso non vedono nessun progresso. Noi vediamo la storia non come sviluppo lineare o dialettico in una direzione unica, ma piuttosto come processo dualistico. La storia di tutte le società umane è la storia di una lotta continua fra governanti e governati, fra quelli che hanno e quelli che non hanno niente, fra coloro che vogliono governare ed essere governati e coloro che vogliono liberare se stessi e gli altri; i principi di autorità e libertà, di dominio e di rivolta, di Stato e società sono in perpetuo contrasto. Questa tensione non conosce soluzione di continuità; il movimento dell’umanità procede talora in un senso, tal’altra in senso diverso. Il sorgere di un nuovo regime o la caduta di un vecchio regime non costituisce una misteriosa rottura nello sviluppo od un’anche più misteriosa parte di sviluppo, ma è esattamente quel che sembra essere. Gli avvenimenti storici sono benefici solo nella misura in cui portano incremento alla libertà e alla uguaglianza per tutto il popolo; non v’è nessuna occulta ragione per dire buona una cosa cattiva solo perché è inevitabile. Noi non abbiamo la possibilità di fare utili previsioni per l’avvenire, e non abbiamo nessuna certezza che il mondo sarà migliore. La nostra sola speranza è che a mano a mano che la conoscenza e la consapevolezza aumentano, gli esseri umani si renderanno sempre più conto della propria capacità di controllare se stessi senza bisogno di autorità esteriori.

Ciò nonostante, l’anarchismo deriva dal liberalismo e dal socialismo tanto dal punto di vista storico che dal punto di vista ideologico. Il liberalismo e il socialismo hanno preceduto l’anarchismo, e l’anarchismo è sorto dalle loro contraddizioni: la maggior parte degli anarchici sono stati in precedenza liberali o socialisti, o socialisti e liberali nello stesso tempo. Lo spirito di rivolta nasce raramente adulto, e per lo più cresce con l’anarchismo anziché nell’anarchismo. In un certo senso gli anarchici rimangono sempre liberali e socialisti, e quando ripudiano ciò che è buono nell’uno o nell’altro, essi tradiscono l’anarchismo stesso. Da un lato noi contiamo sulla libertà di parola, di associazione, di condotta, e specialmente sulla libertà di dissenso; dall’altro lato noi contiamo sull’uguaglianza economica, sulla solidarietà umana, e specialmente sul potere su noi stessi.

Tuttavia, l’anarchismo non è soltanto una mescolanza di liberalismo e di socialismo, cioè non è la socialdemocrazia o il capitalismo d’abbondanza in cui vivono attualmente i cosiddetti paesi sviluppati. Quale che sia il nostro debito verso i liberali e verso i socialisti, per quanto possiamo essere vicini ad essi, siamo fondamentalmente diversi da essi – e dai socialdemocratici – perché respingiamo l’istituzione governativa. Tutti fanno assegnamento sul governo: i liberali dicono per preservare la libertà, ma in realtà per perpetuare la disuguaglianza; i socialisti dicono per preservare l’uguaglianza, ma di fatto per sopprimere la libertà. Anche i liberali ed i socialisti più generosi non possono fare a meno del governo, dell’esercizio dell’autorità da parte di certuni sopra gli altri. L’essenza dell’anarchismo, la cosa senza di cui cessa di essere anarchismo, è la negazione dell’autorità da chiunque o su chiunque esercitata.

Democrazia e rappresentanza

Molta gente avversa il governo non democratico, ma gli anarchici si distinguono da costoro in quanto avversano anche il governo democratico. Vi sono anche altri che avversano il governo democratico, ma gli anarchici si distinguono anche da questi in quanto la loro avversione non è determinata da paura o da odio del governo del popolo, ma perché sono convinti che la democrazia non è governo del popolo – che la democrazia è in realtà una contraddizione logica, una fisica impossibilità. La democrazia genuina è possibile soltanto in una piccola comunità dove tutti possono partecipare a tutte le decisioni: e in tal caso è superflua. Ciò che si chiama democrazia e si pretende sia governo del popolo ad opera di esso è in realtà governo del popolo ad opera di governanti eletti, e si dovrebbe più propriamente chiamare “oligarchia consentita”.

Un governo composto di governanti di nostra scelta è diverso e in generale migliore di un governo composto di governanti che si sono scelti da sé, ma è ancora il governo di alcuni su altri. Anche nel più democratico dei governi c’è sempre qualcuno che obbliga qualcun altro a fare una determinata cosa o ad astenersi dal fare un’altra cosa. Anche quando siamo governati da rappresentanti nostri noi siamo governati, e non appena incominciano a governarci contro la nostra volontà essi cessano di essere nostri rappresentanti. Ai nostri giorni, la maggior parte della popolazione conviene che noi non abbiamo nessun dovere verso un governo che non sia di nostra scelta; gli anarchici vanno oltre ed insistono che non abbiamo nessun dovere verso un governo scelto da noi stessi.

Noi possiamo ubbidirgli perché siamo d’accordo con le sue decisioni o perché non siamo forti abbastanza per disubbidirgli, ma non abbiamo nessun obbligo di ubbidirgli quando siamo in disaccordo e siamo abbastanza forti da non farlo. La maggior parte dei nostri contemporanei è d’accordo sul fatto che coloro i quali sono interessati a certi cambiamenti dovrebbero essere consultati prima che una decisione in merito sia presa; gli anarchici vanno oltre ed insistono che essi stessi dovrebbero prendere le decisioni ed eseguirle.

Quindi gli anarchici ripudiano l’idea del contratto sociale ed anche l’idea della delega dei poteri. In pratica, certamente, il più delle cose saranno sempre fatte da poche persone – da quelli, cioè, che sono interessati ad un problema e sono capaci di risolverlo – ma essi non hanno bisogno di essere scelti od eletti per farlo. Essi si faranno sempre avanti in ogni circostanza, ed è meglio per loro che lo facciano in modo naturale. L’importante è che le guide e gli esperti non debbono essere dei capi e che iniziativa e competenza non sono necessariamente legate all’autorità. Quando la rappresentanza è opportuna, essa è rappresentanza e null’altro; il solo vero rappresentante è il delegato o incaricato che riceve il suo mandato da coloro che glielo affidano ed è soggetto a revoca istantanea da parte loro. Il governante che pretende di essere un rappresentante è per molti versi peggiore dell’usurpatore dichiarato, e ciò perché è più difficile combattere contro l’autorità quando è avvolta in manto di belle parole e di argomenti astratti. Il fatto che noi possiamo eleggere i nostri capi di quando in quando non significa che noi dobbiamo ubbidire ai loro ordini per tutto il resto del tempo. Se ubbidiamo loro, ciò avviene per ragioni pratiche, non per ragioni morali. Gli anarchici sono contrari ai governi qualunque sia la loro origine.

Stato e classe

In tutti i tempi, gli anarchici hanno concentrato la loro opposizione all’autorità dello Stato, cioè contro l’istituzione che pretende monopolizzare il potere entro i limiti di una data estensione geografica. E questo perché lo Stato è il massimo esempio di autorità in una società e nello stesso tempo la fonte o la conferma dell’uso dell’autorità entro i suoi confini. Inoltre gli anarchici hanno storicamente avversato tutte le forme di Stato – non solo l’ovvia tirannide di un re, di un dittatore o di un conquistatore, bensì anche tutte le varianti quali il dispotismo illuminato, la monarchia progressista, le oligarchie feudali o commerciali, la democrazia parlamentare, il comunismo sovietico, e così via di seguito. Gli anarchici sono sempre stati inclini a dichiarare che tutti gli Stati si equivalgono e che non vi è da scegliere tra gli uni e gli altri.

Ora, questa è una semplificazione eccessiva. Tutti gli Stati sono certamente autoritari, ma vi sono Stati più autoritari di altri Stati ed ogni persona normale preferirà sempre vivere sotto uno Stato meno autoritario piuttosto che sotto uno Stato più autoritario. Per fare un esempio, non sarebbe stato possibile pubblicare questa esposizione dell’anarchismo sotto la maggior parte degli Stati del passato, ed oggi ancora non potrebbe essere pubblicata sotto la maggior parte degli Stati totalitari di sinistra e di destra, sia nell’Oriente che nell’Occidente. Io preferisco vivere dove è possibile pubblicarla, e sono convinto che così la pensa anche la maggior parte dei miei lettori.

Pochi sono gli anarchici che ancora prendono una posizione così semplicistica di fronte a quest’astrazione chiamata “lo Stato”; e gli anarchici concentrano i loro attacchi contro il governo centrale e le istituzioni che ne derivano non per la sola ragione che sono parte dello Stato, ma perché sono gli esempi estremi dell’impiego di autorità in seno alla società. Noi distinguiamo lo Stato e la società, ma non lo consideriamo più estraneo alla società stessa, come una escrescenza artificiale; lo vediamo invece come parte della società, come una formazione naturale. L’autorità è una forma naturale di condotta, come lo è l’aggressione; ma è una forma di condotta che deve essere frenata e di cui bisogna liberarsi. Il che non si potrà ottenere cercando di trovare vie e modi per istituzionalizzarla, ma soltanto cercando vie e modi per farne a meno.

Gli anarchici trovano da dire contro quelle istituzioni governative che sono ovviamente oppressive: amministrazione, leggi, polizia, tribunali, prigioni, eserciti, e così via, ed anche contro quelle che sono apparentemente benefiche, come gli enti sussidiati ed i consigli locali, le industrie nazionalizzate ed i servizi pubblici, le banche e le società di assicurazioni, scuole ed università, stampa, radioemissioni, e tutto il resto. Chiunque può vedere che le prime dipendono non dal consenso ma dalla coercizione e, in ultima analisi, dalla forza; gli anarchici affermano che anche le seconde hanno lo stesso pugno di ferro, anche se nascosto sotto guanti di velluto.

Ciò nonostante, le istituzioni che direttamente o indirettamente derivano dallo Stato non possono essere ben comprese se considerate come essenzialmente cattive. Esse possono infatti avere un lato buono sotto due punti di vista. Hanno un’utile funzione negativa quando si oppongono all’impiego di autorità da parte di altre istituzioni, come, per esempio, i genitori crudeli, i proprietari di casa ingordi, i padroni brutali, i criminali violenti; ed hanno una utile funzione positiva quando promuovono attività sociali desiderabili, come lavori pubblici, gli interventi in caso di disastro, i sistemi di comunicazioni e di trasporto, l’arte e la cultura, i servizi medici, i piani di pensione, i sussidi agli indigenti, l’educazione e le radioemissioni. Così noi abbiamo lo Stato liberatore e lo Stato provvidenziale, lo Stato che opera per la libertà e lo Stato che opera per la eguaglianza.

La prima risposta anarchica a tutto questo è che noi abbiamo anche lo Stato oppressore – che la funzione principale dello Stato è in linea di fatto di tenere sottomesso il popolo, di limitare la sua libertà – e che le funzioni utili dello Stato possono essere esercitate e spesso sono state esercitate da associazioni volontarie. Da questo punto di vista lo Stato rassomiglia alla chiesa medioevale. Nel Medio Evo la chiesa si occupava di tutte le attività di carattere sociale ed era difficile credere che tali attività fossero possibili senza di essa. Soltanto la chiesa poteva battezzare, sposare e seppellire la gente; si doveva ancora imparare che in realtà essa non aveva alcun controllo sulla nascita, l’amore e la morte. Ogni atto pubblico doveva avere una ufficiale benedizione religiosa – e molti l’hanno ancora – e la gente aveva ancora da imparare che l’atto potesse avere la stessa efficacia senza la benedizione. La chiesa s’intrometteva e spesso controllava tutti quegli aspetti della vita comunale che sono ora dominati dallo Stato. La gente ha imparato a comprendere che la partecipazione della chiesa non è necessaria e può essere persino dannosa; la gente deve ora imparare che il dominio dello Stato è egualmente pernicioso e superfluo. Noi abbiamo bisogno dello Stato finché continueremo a credere di averne bisogno, tutto quel che esso fa può essere fatto altrettanto bene ed anche meglio senza la sanzione dell’autorità.

La seconda risposta anarchica è che la funzione essenziale dello Stato è di mantenere la disuguaglianza esistente. Gli anarchici non sono d’accordo coi marxisti nel ritenere che l’unità fondamentale della società è la classe, ma la maggior parte di essi convengono che lo Stato è l’espressione politica della struttura economica, che esso rappresenta quella parte del popolo che possiede e controlla la ricchezza della comunità e sfrutta il popolo il cui lavoro crea la ricchezza stessa. Lo Stato non può ridistribuire la ricchezza con equità perché esso è l’organo principale della distribuzione ingiusta. Gli anarchici concordano con i marxisti che il presente regime deve essere distrutto, ma non convengono che il regime che dovrà succedergli possa essere costituito da uno Stato affidato a mani diverse; lo Stato è nello stesso tempo causa ed effetto del regime di classe, e una società senza classi, istituita da uno Stato, sboccherà immediatamente in una nuova società classista.

Lo Stato non svanirà; esso deve essere deliberatamente abolito dal popolo risoluto a togliere ogni potere ai governanti e la ricchezza ai ricchi: questi atti sono legati l’uno all’altro, ed uno senza l’altro sarà sempre vano. L’anarchia nel suo più vero significato vuol dire una società senza governi e senza ricchi.

Organizzazione e burocrazia

Questo non vuol dire che gli anarchici respingono l’organizzazione, sebbene esista su questo punto una delle maggiori prevenzioni verso l’anarchismo. La gente accetta che anarchia non voglia dire proprio caos e confusione, e che gli anarchici vogliano non il disordine, ma ordine senza governo; ma tengono per certo che anarchia vuol dire l’ordine che nasce spontaneamente e che gli anarchici non vogliono l’organizzazione. Questo è tutto l’opposto del vero. Gli anarchici in realtà vogliono maggiore organizzazione, ma organizzazione senza autorità. La prevenzione nei confronti dell’anarchismo deriva dal pregiudizio verso l’organizzazione; la gente non si rende conto che l’organizzazione non dipende dall’autorità, che in realtà essa funziona meglio senza autorità.

Basta un momento di riflessione per dimostrare che quando la coercizione è sostituita dal consenso deve esservi più – e non meno – discussione e preparazione. Chiunque è interessato ad una decisione avrà la possibilità di partecipare alla sua elaborazione, e nessuno avrà la possibilità di lasciarne il compito a funzionari pagati od a rappresentanti eletti. In mancanza di regole da rispettare o di precedenti da seguire, ogni decisione dovrà essere presa da capo.

In mancanza di governanti da obbedire o di capi da seguire, ognuno avrà la possibilità di farsi da sé la propria opinione. A tale scopo, la molteplicità e la complessità dei vincoli tra individui e individui sarà aumentata anziché diminuita. Siffatta organizzazione può essere disordinata e poco efficiente, in apparenza, ma molto più conforme ai bisogni ed ai sentimenti della popolazione interessata. Se capita che una cosa non possa essere fatta senza l’organizzazione di vecchio stampo, cioè senza autorità e coercizione, vorrà probabilmente dire che non merita di essere fatta e sarebbe meglio farne a meno.

Quel che gli anarchici ripudiano è l’istituzionalizzazione della organizzazione, cioè la creazione di uno speciale gruppo di persone avente la funzione di organizzare altre persone. L’organizzazione anarchica dovrebbe essere fluida ed aperta; non appena un’organizzazione si consolida e diviene fine a se stessa, cade nelle mani di una burocrazia, diventa lo strumento di una classe particolare e l’espressione dell’autorità e non della coordinazione sociale. Ogni gruppo tende all’oligarchia, il governo di pochi, ed ogni organizzazione tende alla burocrazia, cioè il governo dei professionisti; gli anarchici devono sempre lottare contro queste tendenze, nel futuro come nel presente, e fra loro stessi non meno che fra gli altri.

La proprietà

Gli anarchici non rigettano la proprietà sebbene abbiano un’opinione particolare nei suoi confronti. In un certo, senso la proprietà è un furto – nel senso cioè di esclusiva appropriazione di una cosa da parte di qualcuno ad esclusione di tutti gli altri. Ma questo non vuol dire che siamo tutti comunisti; vuol dire che il diritto di una data persona su una data cosa non dipende dal fatto di averla tale persona fabbricata o trovata o comprata o ricevuta in dono, o di farne uso o di volerla o di avere un diritto legale su quella cosa, bensì dal fatto di averne bisogno – e, più precisamente, che ne ha bisogno più di un altro. Questa non è una questione di giustizia astratta o di legge naturale, è una questione di solidarietà umana e di ovvio senso comune. Se io ho un pane e tu hai fame, il pane è tuo, non mio. Se io ho una giacca e tu hai freddo, la giacca ti appartiene. Se io ho una casa e tu sei senza, tu hai diritto all’uso di almeno una delle mie stanze. Ma in un altro senso la proprietà è libertà – vale a dire che il godimento personale di derrate e beni in quantità sufficiente è condizione essenziale ad una vita soddisfacente per l’individuo.

Gli anarchici ammettono la proprietà privata di quelle cose che non possono essere usate da un individuo per sfruttarne un altro – il possesso personale di quelle cose che andiamo accumulando fin dall’infanzia e che diventano parte della nostra vita stessa. Noi siamo invece contrari a quella proprietà privata che non ha uso per se stessa e può soltanto essere impiegata per sfruttare la gente: la terra e i fabbricati, gli strumenti di produzione e di distribuzione, le materie grezze e i manufatti, il denaro e il capitale. Il principio in questione è che un individuo si può dire che abbia diritto a ciò che produce col proprio lavoro, ma non a ciò che riceve dal lavoro di altri; ha diritto a ciò che gli abbisogna e di cui fa uso, ma non a ciò che non gli abbisogna e di cui non può far uso. Quando un individuo ha più di quel che gli basta, o egli sperpera oppure impedisce ad un altro di avere abbastanza.

Ciò vuol dire che i ricchi non hanno nessun diritto alla loro proprietà, perché non sono ricchi perché lavorano molto, ma perché molta gente lavora per loro; ed i poveri hanno diritto alla proprietà dei ricchi perché sono poveri non perché lavorano poco ma perché lavorano per conto di altri. I poveri lavorano anzi quasi sempre più ore in mestieri più pesanti ed in condizioni peggiori dei ricchi. Nessuno si è mai arricchito o si è mantenuto ricco mediante il suo lavoro personale, ma soltanto sfruttando il lavoro di altri. Un uomo può avere una casa ed un pezzo di terra, gli strumenti del suo mestiere e buona salute durante tutta la sua vita e può lavorare forte e a lungo finché può: produrrà abbastanza per la sua famiglia, ma poco di più; ed anche in questo non sarà veramente bastante a se stesso, perché dovrà dipendere da altri perché gli forniscano una parte dei materiali che gli occorrono e per ricevere una parte dei suoi prodotti in cambio.

La proprietà pubblica non è soltanto una questione di possesso, ma anche di controllo. Non è necessario possedere la proprietà per essere in grado di sfruttare altri. I ricchi si sono serviti sempre di altre persone per amministrare la loro proprietà, e, ai nostri giorni, quando le società anonime e le stesse imprese di stato prendono sempre più il posto dei proprietari privati, gli amministratori diventano i principali sfruttatori del lavoro altrui. Tanto nei paesi più avanzati che nei più arretrati, negli Stati capitalisti come negli Stati comunisti, una piccola minoranza della popolazione ancora possiede o comunque controlla la “proprietà” pubblica.

Ad onta delle apparenze, questo non è un problema economico o legale. Quel che conta non è la distribuzione del denaro o la forma del possesso terriero o l’organizzazione tributaria o il sistema tributario o la legge di eredità, bensì il fatto fondamentale che vi sono persone che lavorano per altre persone, così come vi sono persone costrette ad ubbidire agli ordini di altre persone. Se noi rifiutassimo di lavorare per i ricchi ed i potenti, la proprietà scomparirebbe[1] nello stesso modo che, se rifiutassimo di ubbidire ai governanti, scomparirebbe l’autorità. Per gli anarchici, la proprietà è basata sull’autorità e non viceversa. Il nocciolo della questione non è come i contadini mettano le derrate in bocca ai proprietari fondiari o come gli operai mettano il denaro nelle mani dei loro padroni, ma perché lo fanno e questo è un problema politico.

Taluni cercano di risolvere il problema della proprietà cambiando la legge o il governo, mediante riforme o mediante rivoluzioni. Gli anarchici non ripongono fiducia in tali soluzioni, ma non sono d’accordo fra di loro sulla soluzione migliore. Una parte di anarchici vogliono la divisione di tutto fra tutti, sì da avere ciascuno una parte equa della ricchezza mondiale e poi adottare un sistema libero di scambi con credito gratuito in modo da evitare eccessive accumulazioni. Ma la maggioranza degli anarchici non ripone fiducia nemmeno in tale sistema e preconizza l’espropriazione di tutta la proprietà pubblica[2] togliendola a coloro che hanno più del necessario, sì che tutti abbiano libero accesso alla ricchezza mondiale ed il controllo sia nelle mani di tutta la comunità. Però tutti sono d’accordo che il presente sistema della proprietà deve essere abbattuto insieme all’esistente sistema di autorità.

Dio e Chiesa

Per tradizione gli anarchici sono stati sempre anticlericali e atei.

I primi anarchici furono avversi alla chiesa non meno che allo Stato, ed i più erano avversi alla stessa credenza religiosa. Il motto “Né Dio né padrone” è stato largamente usato quale sintesi dell’aspirazione anarchica. Ancora oggi molti fanno il primo passo verso l’anarchismo abbandonando la fede per diventare razionalisti od umanisti; il ripudio dell’autorità divina incoraggia il ripudio dell’autorità umana. Quasi tutti gli anarchici ai nostri giorni sono probabilmente atei o, per lo meno, agnostici.

Però vi sono stati degli anarchici religiosi, per quanto usualmente al di fuori della corrente maggiore del movimento anarchico. Esempi furono le sette eretiche che precorsero certe idee anarchiche prima del diciannovesimo secolo, e gruppi di pacifisti religiosi europei e nord-americani nel corso del diciannovesimo secolo e del ventesimo, particolarmente Tolstoj e i suoi seguaci al principio del ventesimo secolo, e il movimento del Catholic Worker negli Stati Uniti dal 1in poi.

In generale, l’odio anarchico per la religione è andato declinando col declinare del potere della chiesa, e molti anarchici considerano la religione come una questione personale. Sarebbero contrari a scoraggiare la religione per mezzo della forza, ma sarebbero contrari anche al risorgere della religione per mezzo della forza. Sarebbero inclini a lasciare che ognuno creda quel che vuole finché non riguarda che lui: ma non permetterebbero che la chiesa aumentasse il proprio potere.

Frattanto, la storia della religione offre un modello per la storia dello Stato. Una volta si credeva impossibile avere una società senza dio: ora dio è morto. Ancora si ritiene impossibile avere una società senza Stato; tocca ora a noi liquidare lo Stato.

Guerra e violenza

Gli anarchici sono sempre stati contrari alla guerra, ma non sempre tutti contrari alla violenza. Sono antimilitaristi, ma non necessariamente pacifisti. Per gli anarchici, la guerra è il supremo esempio di autorità al di fuori della società, e nello stesso tempo un formidabile rafforzamento dell’autorità in seno alla società. La violenza organizzata e la distruzione della guerra sono una versione enormemente ingrandita della violenza e della distruzione organizzate dallo Stato. La guerra è la salute dello Stato. Il movimento anarchico ha una forte tradizione di resistenza alla guerra ed alla preparazione stessa della guerra.

Vi sono stati pochi anarchici favorevoli alla guerra, ma furono sempre considerati come rinnegati dai loro compagni, e questa totale avversione alle guerre nazionali è uno dei maggiori fattori di unificazione tra gli anarchici.

Tuttavia, gli anarchici fanno distinzione tra le guerre nazionali fra gli Stati e le guerre civili fra le classi. Il movimento anarchico rivoluzionario, dalla fine del diciannovesimo secolo in poi, ha preconizzato una rivoluzione violenta che distruggesse lo Stato, e gli anarchici hanno preso una parte attiva in molte insurrezioni armate e guerre civili, specialmente in Russia e in Spagna. Ma benché facessero atto di adesione a tali lotte, non si illudevano che potessero da se stesse determinare la rivoluzione. La violenza poteva bensì essere necessaria all’opera di distruzione del vecchio sistema, ma era inutile, anzi pericolosa, per l’opera di costruzione di un nuovo sistema. Un esercito popolare può sconfiggere una classe dominante ed abbattere un governo, ma non può aiutare il popolo a creare una società libera, e non giova vincere una guerra se non si sa guadagnare la pace.

Molti anarchici dubitano infatti che la violenza possa essere di qualsiasi utilità. Come lo Stato, la violenza non è una forza neutrale le cui conseguenze dipendono da chi ne fa uso, sì da fare il bene solo perché si trova in buone mani. Certo, la violenza degli oppressi non è la stessa cosa della violenza degli oppressori, ma anche quando è il mezzo migliore per uscire da una situazione intollerabile è soltanto un male minore. È uno dei tratti più sgradevoli della società presente e rimane sgradevole anche se il fine è buono; per di più essa tende a minare il fine per cui se ne fa uso, anche quando sembra giustificata – e questo è appunto il caso della rivoluzione. L’esperienza insegna che il successo di una rivoluzione non è assicurato dalla violenza; anzi, maggiore è la violenza e minore è la rivoluzione.

Tutto questo può sembrare assurdo a coloro che non sono anarchici. Uno dei più vecchi e più persistenti pregiudizi intorno all’anarchismo è appunto che gli anarchici sono soprattutto dei violenti. La banalità dell’anarchico con la bomba sotto il mantello è vecchia di cent’anni, ma è ancora in corso. Molti anarchici sono stati veramente a favore della violenza, taluni sono stati a favore dell’assassinio di personaggi pubblici. È stata solo una breve triste parentesi che deve considerarsi un aspetto marginale dell’anarchismo. La maggior parte degli anarchici è sempre stata contraria alla violenza salvo che non fosse strettamente necessaria: la inevitabile violenza che si verifica quando il popolo scuote il giogo dei governanti e degli sfruttatori.

I maggiori perpetratori di violenza sono sempre quelli che mantengono l’autorità, non quelli che l’attaccano. I grandi lanciatori di bombe non sono stati quei tragici individui che venivano spinti alla disperazione nell’Europa meridionale un secolo addietro, ma le macchine militari di tutti gli Stati del mondo che la storia ricorda. Nessun anarchico può essere paragonato al bombardamento di Londra o alla bomba atomica, nessun Ravachol o Bonnot può stare a fianco di Hitler o Stalin. Noi potremo incoraggiare i lavoratori ad occupare le loro officine o i contadini ad impossessarsi dei campi che lavorano, e potremo anche rompere dei vetri ed elevare barricate; ma noi non abbiamo soldati, né aeroplani, né poliziotti, né prigioni, né campi di concentramento, né plotoni di esecuzione, né camere a gas, né carnefici. Per gli anarchici, la violenza è l’esempio supremo dell’esercizio del potere da parte di una persona contro un’altra persona, il parossismo di tutto ciò che avversiamo.

Vi sono stati anarchici pacifisti, ma questo non è usuale. Molti pacifisti sono stati anarchici (o lo sono divenuti) e gli anarchici hanno avuto tendenza ad avvicinarsi al pacifismo a mano a mano che il mondo si è mosso verso la distruzione. Alcuni sono stati attratti specialmente da quel tipo di pacifismo militante che Tolstoj e Gandhi hanno preconizzato e dall’uso della nonviolenza come tecnica di azione diretta, e molti sono gli anarchici che hanno partecipato ai movimenti contro la guerra e qualche volta hanno esercitato una significativa influenza su di essi. Ma la maggior parte degli anarchici – compresi quelli che vi presero parte – trovano che il pacifismo è troppo ampio nel suo rifiuto d’ogni violenza, per tutti e in tutte le circostanze, e troppo ristretto nella sua fiducia che l’eliminazione della violenza basti da sola a cambiare fondamentalmente la società. Mentre i pacifisti vedono l’autorità come una più mite versione della violenza, gli anarchici vedono la violenza come una più forte espressione dell’autorità. Gli anarchici sono inoltre respinti dal lato moralistico del pacifismo, dal suo ascetismo e fariseismo, e dall’indulgente opinione che i pacifisti hanno del mondo. Come dicevo, gli anarchici sono antimilitaristi, ma non necessariamente pacifisti.

L’individuo e la società

L’unità base dell’umanità è l’uomo, l’essere umano individualmente considerato. Quasi tutti gli individui vivono in società, ma la società non è altro che un insieme di individui, e la sua sola ragion d’essere è di dar loro una vita piena. Gli anarchici non credono che esistano diritti naturali; ma questo vale per tutti: nessun individuo può richiamarsi ad un diritto per agire o per impedire ad un altro di agire. Non c’è volontà generale, non c’è nessuna norma sociale a cui siamo tenuti a conformarci. Noi siamo uguali, non identici. Competizione e mutuo appoggio, aggressione e tenerezza, intolleranza e tolleranza, violenza e cortesia, autorità e ribellione: tutte queste sono forme naturali di comportamento sociale, ma le une facilitano mentre le altre ostacolano la pienezza della vita individuale. Gli anarchici credono che il modo migliore di garantirla sia nella eguale libertà di tutti i membri della società.

Per questa ragione noi non perdiamo il nostro tempo con la moralità nel senso tradizionale, non ci interessa quel che la gente fa nella propria vita privata. Faccia ciascuno quel che vuole, entro i limiti della sua naturale capacità, alla condizione che egli lasci ad ogni altro individuo la libertà di fare altrettanto. Cose come gli oggetti di vestiario, l’aspetto, il parlare, i modi di fare, la conoscenza, e simili, sono cose di personale preferenza. Così dicasi del sesso. Noi siamo per l’amore libero, ma questo non vuol dire che noi preconizziamo la promiscuità universale; vuol dire che ogni amore è libero, ad eccezione della prostituzione o dello stupro, e che la gente dovrebbe essere in grado di scegliere (o respingere) da se stessa le forme di condotta sessuale e i compagni nei rapporti sessuali. L’estrema libertà sessuale può convenire a qualcuno, l’estrema continenza a qualche altro – ma gli anarchici pensano che il mondo sarebbe migliore se ci fosse stato molto meno “fussing” e molto più “fucking”[3]. Lo stesso principio si applica all’uso di stupefacenti. La gente si può ubriacare con alcol o caffeina, con cannabis o amfetamina, con tabacco od oppio, e noi non abbiamo nessun diritto di impedirglielo, meno ancora di punirla, per quanto possiamo tentare di aiutarla. Similmente, lasciate che ognuno pratichi il culto che gli pare e piace, finché egli stesso lasci gli altri individui praticare il culto che gli garba, o non praticarne nessuno.

Non importa che vi sia della gente che se ne sente offesa; quel che importa è che non vi sia della gente danneggiata. Non c’è nessun bisogno di tormentarsi se vi sono delle differenze nella condotta personale; quel che deve impensierire è la grande ingiustizia della società autoritaria.

Il principale nemico dell’individuo libero è l’opprimente potere dello Stato, ma gli anarchici sono contrari anche ad ogni altra forma di autorità che limita la libertà – nella famiglia, nella scuola, sul lavoro, nel vicinato – e ad ogni tentativo di costringere l’individuo a conformarsi. Ma prima di prendere in considerazione come la società possa essere organizzata per dare ai suoi componenti la massima libertà, bisogna descrivere le varie forme che l’anarchismo ha preso a seconda delle diverse opinioni sulle relazioni fra gli individui e la società.

Le espressioni dell’anarchismo

Gli anarchici sono notoriamente in disaccordo fra di loro, e – nell’assenza di capi e funzionari, di gerarchie ed ortodossie, di punizioni e premi, di regolamenti e programmi – è naturale che fra gente il cui principio fondamentale è il ripudio di ogni autorità si tenda ad un perpetuo dissenso. Ciò non di meno, vi sono diversi ben stabiliti tipi di anarchismo fra i quali la maggior parte degli anarchici ha scelto quello che meglio esprime il suo particolare punto di vista.

L’anarchismo filosofico

All’origine, l’anarchismo è stato quello che ora si chiama anarchismo filosofico. Esso consiste nella convinzione che l’idea di una società senza governo è bella, ma non veramente desiderabile, oppure desiderabile ma non veramente possibile, per ora almeno. Questa posizione sembra prevalere in tutti gli scritti anarchici anteriori al 1840, ed ha impedito che movimenti anarchici popolari diventassero un più serio pericolo per i governi.

Questo atteggiamento si può trovare ancora fra persone che si dicono anarchiche ma restano al di fuori di qualunque movimento organizzato, ma anche fra persone che partecipano al movimento anarchico. Molto spesso sembra essere quasi inconsapevolmente un atteggiamento per cui l’anarchismo, come il regno di Dio, sarebbe dentro di voi. E prima o poi, si rivela con frasi come questa:

“Naturalmente, io sono anarchico, ma …. ”.

Gli anarchici militanti tendono a disprezzare gli anarchici filosofici, e ciò è comprensibile, anche se criticabile. Fino a tanto che l’anarchismo resta un movimento minoritario, un sentimento diffuso in favore delle idee anarchiche, per quanto vago, crea un’atmosfera in cui la propaganda anarchica si fa ascoltare ed il movimento anarchico ha possibilità di svilupparsi. D’altra parte, l’accettazione dell’anarchismo filosofico può spingere la gente verso un adeguato riconoscimento del vero anarchismo; ed è almeno qualche cosa di meglio della completa indifferenza. Oltre agli anarchici filosofici vi sono poi molti individui che sono in realtà vicino a noi, ma rifiutano di dirsi anarchici, e vi sono altri che rifiutano di darsi una denominazione qualsiasi. Costoro hanno pure una parte da esercitare non fosse che quella di fornire un uditorio simpatizzante e di giovare alla causa della libertà nel loro ambiente.

Individualismo, egoismo, corrente libertaria

Il primo tipo di anarchismo ad essere qualche cosa di più del mero anarchismo filosofico è stato l’individualismo. Questo consiste nel ritenere la società non come un organismo ma come un insieme di individui autonomi, i quali non hanno nessun dovere verso la società come un tutto ma soltanto verso gli individui. Questa opinione è esistita molto tempo prima che l’anarchismo facesse la sua apparizione ed ha continuato ad esistere affatto separata dall’anarchismo. L’individualismo però postula che gli individui che compongono la società dovrebbero essere liberi ed uguali, e che possono diventare tali solo mediante i propri sforzi e non mediante l’azione di istituzioni esterne; e che ogni sviluppo di questa loro concezione porta ovviamente il semplice individualismo nella direzione del vero anarchismo.

Il primo che ha elaborato una identificabile teoria dell’anarchismo – William Godwin, in An Enquiry concerning Political Justice (1 – fu un individualista. Reagendo contro i fautori e contro gli avversari della Rivoluzione Francese, egli preconizzò una società senza governo e con meno organizzazione possibile, in cui gli individui sovrani si guarderebbero da qualunque forma permanente di associazione; malgrado molte variazioni, questa è ancora la base dell’anarchismo individualista. Questo è l’anarchismo degli intellettuali, degli artisti, e dei non conformisti, di persone che lavorano da sole e amano tenersi appartate. Fin dai tempi di Godwin esso ha attratto gente di quel genere, specialmente in Inghilterra e nell’America del Nord, comprese figure quali Shelley e Wilde, Emerson e Thoreau, Augustus John e Herbert Read. Si possono chiamare diversamente, ma l’individualismo traspare sempre.

Forse si cade in errore chiamando l’individualismo un tipo di anarchismo, giacché esso ha esercitato una profonda influenza su tutto il movimento anarchico, e se si osservano gli anarchici si rileva che esso è ancora una parte essenziale della loro ideologia o, quanto meno, della loro motivazione. Gli individualisti anarchici sono, infatti, gli anarchici di base, i quali desiderano semplicemente distruggere l’autorità e non sentono alcun bisogno di mettere alcunché al suo posto. Questo è un punto di vista valido fino ad un certo punto, ma insufficiente per affrontare i veri problemi della società, che ha certo bisogno di un’azione sociale piuttosto che personale. Da soli, noi possiamo salvare noi stessi, ma non possiamo far nulla per gli altri.

Forma più estrema dell’individualismo è l’egoismo, specialmente nella forma espressa da Max Stirner in Der Einzige und sein Eigentum (1845) – usualmente tradotto The Ego and His own, sebbene traduzione più appropriata sarebbe The Individual and His Property (L’individuo e la sua Proprietà). Come per Marx o Freud, è difficile interpretare Stirner senza offendere tutti i suoi seguaci; ma è forse ammissibile dire che il suo egoismo differisce dall’individualismo in generale in quanto ripudia le astrazioni come moralità, giustizia, obbligo, ragione e dovere, in favore di un intuitivo riconoscimento dell’esistenziale unicità di ciascun individuo. Si oppone naturalmente allo Stato, ma si oppone anche alla società, e tende al nichilismo (l’opinione che nulla merita conto) ed al solipsismo (l’opinione secondo cui nulla esiste all’infuori di se stessi). È incontestabilmente anarchico, ma in una maniera piuttosto improduttiva, dato che ogni forma di organizzazione che vada oltre la temporanea “unione degli egoisti” è considerata fonte di una nuova oppressione. È un anarchismo da poeti e da vagabondi, da gente che vuole una risposta assoluta e nessun compromesso. È l’anarchia immediata, se non nel mondo, almeno nella propria vita.

Una tendenza più moderata che deriva dall’individualismo è la corrente libertaria. Questa è nel suo senso più semplice la nozione che la libertà è l’aspirazione politica più importante. Sicché, il “libertarismo” non è tanto un tipo specifico di anarchismo, quanto una più mite forma di esso, il primo passo sulla via del completo anarchismo. A volte viene effettivamente usato come sinonimo od eufemismo di anarchismo in generale, quando vi sia motivo di evitare il termine più provocante; ma è più generalmente usato per indicare accettazione delle idee anarchiche in un campo particolare senza accettazione dell’anarchismo nel suo insieme. Gli individualisti sono libertari per definizione, ma i socialisti libertari o i comunisti libertari sono coloro che portano al socialismo o al comunismo un riconoscimento del valore essenziale dell’individuo.

Mutualismo e federazione

Il tipo di anarchismo che fa la sua apparizione allorquando gli individualisti incominciano a mettere in pratica le loro idee è il mutualismo. Questo è il principio secondo il quale la società, invece di dipendere dallo Stato, dovrebbe essere organizzata da individui contraenti accordi volontari fra di loro su basi di uguaglianza e di reciprocità. Il mutualismo è una caratteristica che si riscontra in qualunque associazione che sia più che istintiva e meno che ufficiale, e non è necessariamente anarchica; ma dal punto di vista storico il mutualismo ha avuto un’importanza nello sviluppo dell’anarchismo, e quasi tutte le proposte anarchiche per la riorganizzazione della società sono state essenzialmente mutualistiche.

Il primo che si è deliberatamente chiamato anarchico – Pierre-Joseph Proudhon, nel libro Che cosa è la Proprietà? (1840) – era un mutualista. Reagendo ai socialisti utopisti e rivoluzionari della prima metà del diciannovesimo secolo, Proudhon postulava una società composta di cooperative di liberi individui che si scambiavano le necessità della vita sulla base di buoni di lavoro, di credito gratuito attraverso una banca popolare. Questo è un anarchismo per operai e artigiani, piccoli imprenditori e commercianti, professionisti e tecnici, gente che ama essere indipendente. Ad onta dei suoi dinieghi, Proudhon aveva molti seguaci, specialmente fra i lavoratori qualificati e la piccola borghesia; la sua influenza fu considerevole in Francia durante la seconda metà dell’Ottocento; il mutualismo si diffuse specialmente nel Nord America e, in proporzioni minori, nella Gran Bretagna. Più tardi tese ad essere adottato da eccentrici preconizzanti riforme monetarie o comunità autarchiche – misure che promettono rapidi risultati ma non toccano la fondamentale struttura della società. Questa è un’idea valida sino ad un certo punto ma non arriva fino ad influire su cose come l’industria e il capitale, il sistema classista che li domina entrambi, oppure – soprattutto – sullo Stato.

Il mutualismo è, naturalmente, il principio da cui è ispirato il movimento cooperativo, ma le società cooperative sono rette secondo metodi democratici anziché anarchici. Una società organizzata secondo il principio del mutualismo anarchico sarebbe una società in cui le attività comunitarie sarebbero di fatto nelle mani di società cooperative senza dirigenti permanenti o funzionari eletti.

Il mutualismo economico può così essere concepito come un cooperativismo senza burocrazia, o come un capitalismo senza profitto.

Il mutualismo, considerato come espressione geografica piuttosto che come espressione economica, diventa federalismo. Questa è l’idea che la società in un senso più largo della comunità locale dovrebbe essere coordinata mediante una rete di consigli estesa su una zona più vasta. Il tratto essenziale del federalismo anarchico sarebbe che tali consigli verrebbero composti da delegati privi di qualsiasi autorità centrale, un semplice segretariato.

Proudhon, che per primo espose il mutualismo, fu anche il primo ad esporre il federalismo – ne il Principio Federativo (1863) – e i suoi seguaci furono chiamati federalisti oltre che mutualisti, specialmente quelli che erano attivi nel movimento operaio; così le figure della prima parte della storia della Prima internazionale e della Comune di Parigi, che precorsero le idee del movimento anarchico moderno, per la maggior parte si dicevano federalisti.

Il federalismo non è tanto un tipo di anarchismo quanto una parte inevitabile dell’anarchismo. Quasi tutti gli anarchici sono federalisti, ma quasi nessuno di essi si limiterebbe a dirsi federalista.

Dopotutto il federalismo è un principio comune niente affatto limitato al movimento anarchico. Non v’è nulla di utopico in esso. I sistemi internazionali di coordinamento delle ferrovie, dei trasporti marittimi, dei traffici aerei, dei servizi postali, telegrafici e telefonici, delle ricerche scientifiche, dei soccorsi alle vittime della carestia e dei grandi disastri, e molte altre attività internazionali, sono federalisti nella loro struttura. Gli anarchici aggiungono che tali sistemi opererebbero altrettanto bene all’interno d’ogni paese che all’esterno fra paesi diversi. Del resto ciò esiste già ai nostri giorni per quel che riguarda la stragrande maggioranza delle società, associazioni ed organizzazioni volontarie d’ogni sorta che danno tutte quelle attività sociali che non hanno scopo di profitto o sono scrupolose dal punto di vista politico.

Collettivismo, comunismo, sindacalismo

Il tipo di anarchismo che va oltre l’individualismo e il mutualismo e presenta una diretta minaccia per il sistema classista e statale è quello che si soleva chiamare collettivismo. Questo è la concezione secondo la quale la società può essere riedificata soltanto quando la classe lavoratrice ottiene il controllo dell’economia mediante una rivoluzione sociale, abbatte l’apparato statale, e riorganizza la produzione sulla base del possesso comune e del controllo per mezzo di associazioni di lavoratori. Gli strumenti della produzione saranno in comune, ma i prodotti del lavoro saranno distribuiti secondo il principio della massima: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”.

I primi anarchici moderni – i bakuninisti della Prima Internazionale – erano collettivisti. Per reazione ai riformisti mutualisti e federalisti, e anche in opposizione agli autoritari blanquisti e marxisti, essi postulavano una semplice forma di anarchismo rivoluzionario: l’anarchismo della lotta di classe e del proletariato, dell’insurrezione in massa dei poveri contro i ricchi, e transizione immediata ad una società libera e senza classi, senza nessun periodo intermedio di dittatura. Questo è un anarchismo di operai e contadini aventi coscienza di classe, di militanti e attivisti del movimento operaio, di socialisti che vogliono insieme la libertà e l’uguaglianza.

Questo collettivismo anarchico o rivoluzionario non va confuso col più conosciuto collettivismo autoritario e riformista dei socialdemocratici e dei Fabiani – il collettivismo fondato sì sulla comune proprietà dell’economia, ma anche sul controllo statale della produzione. In parte, a causa del pericolo di questa confusione, e in parte perché su questo punto anarchici e socialisti si avvicinano di più gli uni agli altri, una migliore denominazione di questo tipo di anarchismo è quella di socialismo libertario – che include non solo gli anarchici che sono socialisti, ma anche i socialisti che tendono all’anarchismo senza essere propriamente anarchici.

Il tipo di anarchismo che appare quando il collettivismo viene elaborato in maniera più particolareggiata è il comunismo. Questo è la concezione secondo la quale non basta che gli strumenti della produzione siano in comune, ma anche i prodotti del lavoro debbano essere distribuiti in base al principio della formula: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno a seconda dei suoi bisogni”. I comunisti argomentano che mentre ogni singolo ha diritto al valore integrale del suo lavoro, è cosa impossibile calcolare il valore esatto del lavoro di ciascuno, perché il lavoro di ciascuno è conglobato nel lavoro di tutti e le diverse qualità di lavoro hanno una diversa qualità di valore. È quindi meglio che tutta l’economia sia nelle mani della società nel suo insieme e che il sistema dei salari e dei prezzi sia abolito.

Le figure più spiccate del movimento anarchico verso la fine del secolo decimonono e il principio del secolo ventesimo – quali Kropotkin, Malatesta, Reclus, Grave, Faure, Goldman, Berkman, Rocker ed altri – erano comuniste. Partendo dal collettivismo e reagendo contro il marxismo, essi preconizzavano una forma più avanzata di anarchismo rivoluzionario – un anarchismo che contenesse una critica il più possibile accurata della società presente e proposte per la società futura. Questo è un anarchismo adatto per coloro che accettano la lotta di classe, ma hanno del mondo una visione più larga. Se il collettivismo è un anarchismo rivoluzionario concentrantesi sul problema del lavoro ed ha nella collettività lavoratrice la sua base, il comunismo è un anarchismo rivoluzionario che si concentra sul problema della vita ed ha la sua base nella comune popolare.

Dal 1870 in poi, il principio del comunismo è stato accettato dalla maggior parte delle organizzazioni anarchiche rivoluzionarie fatta eccezione principalmente del movimento spagnolo, il quale si mantenne fedele al principio del collettivismo, per effetto della grande influenza delle idee di Bakunin; ma, in sostanza, le sue aspirazioni erano poco diverse da quelle degli altri movimenti, e in pratica il “comunismo libertario” realizzato al tempo della Rivoluzione Spagnola nel 16 fu l’esempio più suggestivo di comunismo anarchico che la storia abbia conosciuto.

Tale comunismo anarchico o libertario non deve naturalmente essere confuso col più largamente conosciuto comunismo dei marxisti – comunismo fondato sulla proprietà collettiva dell’economia e sul controllo statale della produzione e della distribuzione, oltre che sulla dittatura del partito. L’origine storica del movimento anarchico moderno risiede nelle polemiche coi marxisti in seno alla Prima e alla Seconda internazionale e si riflette nell’inflessibile opposizione ideologica degli anarchici al comunismo autoritario, opposizione che è aumentata in seguito alla Rivoluzione Russa e alla Rivoluzione Spagnola. In conseguenza di che, molti anarchici sembrano essersi definiti comunisti non tanto per convinzione profonda, ma piuttosto per il desiderio di affrontare i marxisti sul loro stesso terreno e per superarli agli occhi della pubblica opinione. Si può ritenere che gli anarchici siano di rado veramente comunisti, in parte perché sono sempre troppo individualisti, e in parte perché non sono disposti a tracciare piani complicati per un avvenire che deve essere libero di fare i propri ordinamenti.

Il tipo di anarchismo che fa la sua apparizione allorquando il collettivismo o il comunismo si concentrano in modo esclusivo sui problemi del lavoro è il sindacalismo. Questo è il punto di vista secondo cui la società dovrebbe essere basata sulle unioni operaie, come espressione della classe lavoratrice, riorganizzate in maniera da coprire tanto la categoria di lavoro che la regione in cui si svolge, e trasformate in maniera da essere nelle mani delle maestranze – rank and file – sì che tutta l’economia sia gestita conformemente al principio del controllo operaio.

La maggior parte degli anarchici collettivisti e molti comunisti del diciannovesimo secolo erano implicitamente sindacalisti e ciò era in modo particolare vero per gli anarchici aderenti alla Prima Internazionale. Ma l’anarco-sindacalismo non si sviluppò in modo esplicito che al sorgere del movimento sindacale francese sul finire del secolo. (La parola inglese “syndicalism” viene dalla parola francese syndicalisme, che vuol dire semplicemente unionismo di mestiere).

Quando il movimento unionista francese si divise in due sezioni, rivoluzionaria l’una e riformista l’altra, nel decennio 18, i sindacalisti rivoluzionari divennero la parte predominante e molti anarchici si unirono a loro. Alcuni di essi, come Fernand Pelloutier e Emile Pouget, divennero influenti, e il movimento sindacalista francese, sebbene non fosse mai completamente anarchico, fu per l’anarchismo una forza considerevole fino al tempo della Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione Russa. Le organizzazioni anarco-sindacaliste furono forti anche nei movimenti operai d’Italia e di Russia nel primo dopoguerra, ed in Spagna, sopratutto, sino alla fine della guerra civile nel 1

Questo è un anarchismo appropriato agli elementi militanti aventi maggiore coscienza di classe in un forte movimento operaio. Ma il sindacalismo non è necessariamente anarchico e nemmeno necessariamente rivoluzionario; in pratica gli anarco-sindacalisti hanno avuto tendenza a diventare autoritari o riformisti, o autoritari e riformisti nello stesso tempo, e si è dimostrato difficile il mantenere un equilibrio fra i principi libertari e le pressioni della lotta quotidiana per la conquista di miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro. Più che un argomento contro l’anarco-sindacalismo questo costituisce un pericolo permanente per gli anarco-sindacalisti. Il vero argomento contro l’anarco-sindacalismo e contro il sindacalismo in generale è che esso esagera la importanza del lavoro e della funzione della classe lavoratrice. Il sistema classista è un problema politico centrale mentre la lotta di classe non è per gli anarchici la sola attività politica. Il sindacalismo è accettabile quando lo si consideri come uno degli aspetti dell’anarchismo, ma non quando eclissi tutti gli altri aspetti dell’anarchismo stesso. È un punto di vista limitato della società che non consente di trattare i problemi della vita al di fuori del lavoro.

Poca differenza

Bisogna dire che le differenze tra i vari tipi di anarchismo sono diventate meno importanti in questi ultimi anni. Se si eccettuano i dogmatici di tutti gli estremismi, la maggior parte degli anarchici tende a vedere le vecchie distinzioni come più apparenti che reali, come artificiali differenze di enfasi, magari di vocabolario, anziché come gravi differenze di principio. Sarebbe forse meglio considerarle non tanto come diversi tipi quanto come diversi aspetti dell’anarchismo dipendenti dalla direzione delle nostre particolari predisposizioni.

Così, nella nostra vita privata noi siamo individualisti, facciamole nostre attività e scegliamo i nostri compagni ed amici per ragioni personali; nella nostra vita sociale siamo mutualisti, stringiamo accordi liberi fra di noi e diamo quel che abbiamo ricevendo quel che ci abbisogna mediante liberi scambi fra gli uni e gli altri; nella nostra vita lavorativa saremmo per lo più collettivisti, unendoci ai nostri colleghi nella produzione per il bene comune, e nella gestione del lavoro saremmo per lo più sindacalisti, unendoci ai nostri colleghi nel decidere come ogni lavoro dovrebbe essere eseguito; nella nostra vita politica saremmo per lo più comunisti e ci uniremmo ai nostri vicini per decidere come la comunità dovrebbe essere retta. Questa è, naturalmente, una semplificazione, ma esprime una verità generale sul modo di pensare degli anarchici ai nostri giorni.

Quel che vogliono gli anarchici

È difficile dire che cosa vogliono gli anarchici, non solo perché differiscono gli uni dagli altri, ma anche perché essi esitano ad avanzare proposte particolareggiate su di un avvenire che non sono in grado e non hanno nemmeno il desiderio di controllare. Dopo tutto, gli anarchici vogliono una società senza governo, ed una società di tal genere sarà ovviamente molto diversa a seconda delle circostanze di tempo e di luogo. Il tratto caratteristico di una società quale viene auspicata dagli anarchici è che dovrebbe essere come la vogliono i suoi componenti stessi. Ciò nonostante, è possibile dire quel che la maggioranza degli anarchici vorrebbe vedere in una società libera, ma si deve ricordare sempre che non esiste una linea ufficiale, così come non esiste una maniera di riconciliare gli estremi dell’individualismo e comunismo.

L’individuo libero

Per lo più gli anarchici incominciano con un atteggiamento libertario nei confronti della vita privata, e preconizzano una possibilità di scelta molto più vasta sia nel campo della condotta personale che in quello dei rapporti sociali fra individui e individui.

Ma se l’individuo è l’atomo della società, la famiglia ne è la molecola, e la vita familiare continuerà anche se ogni forza coercitiva sarà eliminata. Ciò non di meno, per quanto la famiglia possa essere cosa naturale, essa non è più necessaria; mezzi antifecondativi efficaci ed una intelligente divisione del lavoro hanno liberato l’umanità dall’angusta necessità di scegliere fra il celibato e la monogamia. Non è indispensabile che una coppia abbia figli, ed i figli possono essere allevati da più o meno di due genitori. Si potrebbe vivere da soli pure avendo rapporti sessuali e figlioli, oppure vivere in comunità senza avere moglie o marito o prole ufficiale.

Senza dubbio la maggioranza continuerà a praticare qualche forma di matrimonio ed i figli continueranno per lo più ad essere allevati in un ambiente famigliare, qualunque sia la forma sociale, ma potrebbero esservi in grande numero accomodamenti personali nell’ambito di una stessa comunità. L’essenziale è che le donne devono essere libere da ogni oppressione da parte degli uomini e che i bambini siano liberi da quella dei genitori. L’esercizio dell’autorità non è migliore nel microcosmo della famiglia di quel che non sia nel macrocosmo della società.

Le relazioni personali al di fuori della famiglia sarebbero regolate, non arbitrariamente da leggi o dalla concorrenza economica, ma dalla naturale solidarietà della specie umana. Quasi tutti noi sappiamo come comportarci verso i nostri simili – come vorremmo essi stessi si comportassero verso di noi. L’amor proprio e l’opinione pubblica sono alla condotta guide assai migliori che la paura e la colpabilità. Certi avversari dell’anarchismo hanno supposto che l’oppressione morale della società sarebbe peggiore dell’oppressione fisica dello Stato, ma il pericolo più grave è certamente quello presentato dalla autorità sfrenata di un gruppo di poliziotti, di una turba di linciatori, di una banda di rapinatori o di delinquenti: le forme rudimentali dello Stato che vengono a galla ogni qualvolta l’autorità regolata del vero Stato sia, per una ragione o per un’altra, assente.

Ma gli anarchici hanno pochi dissensi intorno alla vita privata, e non vi sono molti problemi su questo punto. Dopo tutto, una grande quantità di gente ha già raggiunto gli accomodamenti che le convengono, senza aspettare una rivoluzione od altro. Per la liberazione dell’individuo occorre la emancipazione dai vecchi pregiudizi e il conseguimento di un certo tenore di vita. Il vero problema è quello della liberazione della società.

La società libera

La prima cosa necessaria per una società libera è l’abolizione dell’autorità e l’espropriazione della proprietà. Al posto del governo composto di rappresentanti permanenti soggetti ad elezioni occasionali e di burocrati di carriera virtualmente inamovibili, gli anarchici vogliono un coordinamento dell’attività ad opera di delegati temporanei soggetti a revoca istantanea e da professionisti esperti veramente responsabili. In un sistema siffatto, tutte quelle attività sociali che richiedono organizzazione sarebbero probabilmente gestite da associazioni libere, le quali potrebbero essere chiamate consigli o cooperative o collettivi o comuni o comitati o unioni o sindacati o soviet, od altro: il nome non avrebbe importanza, importante sarebbe invece la loro funzione.

Vi sarebbero associazioni di lavoro che andrebbero dal labora- torio o dalla piccola azienda ai più grandi complessi industriali ed agricoli, per occuparsi della produzione e del trasporto dei prodotti, decidere delle condizioni di lavoro e fare attenzione all’economia. Vi sarebbero associazioni regionali, dal rione o dal villaggio alle più vaste unità residenziali, per trattare della vita della comunità: abitazioni, strade, rifiuti, amenità. E vi sarebbero associazioni per trattare gli aspetti sociali di altre attività, come le comunicazioni, la cultura, gli svaghi, le ricerche, l’igiene e l’istruzione.

Una delle conseguenze della coordinazione per mezzo di associazioni libere invece che per mezzo di gerarchie istituzionalizzate sarebbe l’estremo decentramento su linee federaliste. Questo può sembrare un argomento contro l’anarchismo, ma a noi pare un argomento in suo favore. Una delle cose più strane che si riscontra nel pensiero politico moderno è che le cause delle guerre vengono spesso attribuite all’esistenza di molte piccole nazioni mentre si sa che le maggiori guerre che la storia ricordi furono causate da poche grandi potenze. Nello stesso modo, i governi cercano continuamente di creare unità amministrative sempre più vaste, mentre l’osservazione scopre che le migliori sono proprio le piccole. Il crollo dei grandi sistemi politici sarà uno dei maggiori benefici dell’anarchismo, e le popolazioni avrebbero la possibilità di tornare ad essere entità culturali, mentre le nazioni scomparirebbero.

L’associazione incaricata di qualunque specie di ricchezza e di proprietà avrebbe la gravissima responsabilità o di assicurarne l’equa divisione fra tutti i componenti la comunità oppure di tenerla in comune assicurando che l’uso ne sarebbe equamente condiviso da tutti i componenti della popolazione interessata. Gli anarchici differiscono in quanto al sistema che ritengono migliore, e senza dubbio anche i membri della società libera avranno opinioni diverse; spetterà ai componenti di ogni associazione di adottare il metodo che riterranno migliore. Vi sarà eguale salario per tutti, o salario adeguato ai bisogni di ciascuno, o nessun salario addirittura. Certe associazioni potranno fare uso di denaro come mezzo per tutti gli scambi, altre soltanto per le grandi e complesse transazioni, altre ancora potranno non servirsi di denaro in nessun caso.

Le merci potranno essere comprate, o affittate, o razionate, o gratuite. Se questa specie di speculazione sembra assurda, fuori dalla realtà od utopica, non sarà male ricordare quanto noi abbiamo fin da ora in comune, e quante siano le cose che possono essere usate senza pagare.

Nella Gran Bretagna, per esempio, la comunità possiede una parte delle industrie pesanti, i trasporti aerei e ferroviari, traghetti e autobus, servizi di radio e televisione, acqua, gas ed elettricità, sebbene siamo tenuti a pagare per farne uso; ma le strade, i ponti, i fiumi, le spiagge, i parchi, le biblioteche, i campi di ricreazione, lavatoi, scuole, università, ospedali e servizi di pronto soccorso non solo appartengono alla comunità ma possono essere usati senza pagare. La distinzione tra quel che è di proprietà privata e quel che è proprietà comunale, e quel che può essere usato dietro pagamento e quel che può essere usato gratuitamente, è affatto arbitraria. Può parere ovvio che si dovrebbe essere in grado di fare uso delle strade e delle spiagge senza pagare, ma questo non è sempre stato il caso, e l’uso gratuito degli ospedali e delle università è invalso solo nel corso di questo secolo. Analogamente, può parere ovvio che si debba pagare per il trasporto e per il combustibile, ma è possibile che questo non sia sempre il caso, e non v’è ragione perché questi non debbano essere gratuiti.

Conseguenza dell’equa divisione o della gratuita distribuzione della ricchezza al posto dell’accumulazione della proprietà sarebbe la fine del regime di classe fondato sulla proprietà. Ma gli anarchici vogliono anche la fine del regime di classe fondato sul controllo dei monopoli. Ciò richiede la vigilanza continua onde prevenire l’accrescere della burocrazia in tutte le associazioni, e soprattutto comporta la riorganizzazione del lavoro senza classe dirigente.

Il lavoro

Le prime necessità dell’essere umano sono l’alimentazione, il tetto e il vestiario, che rendono la vita sopportabile; le secondarie sono quelle altre comodità che rendono la vita degna di essere vissuta. La prima attività economica di qualunque aggruppamento umano è quella della produzione e della distribuzione delle cose che soddisfano questi bisogni; e l’aspetto più importante di qualunque società – dopo i rapporti personali su cui questa è basata – è l’organizzazione del lavoro necessario. Gli anarchici hanno in tema di lavoro due idee caratteristiche: la prima è che il lavoro non è piacevole ma potrebbe essere organizzato in maniera da essere più sopportabile e magari anche gradevole; e la seconda è che ogni lavoro dovrebbe essere organizzato da quelli che di fatto lo forniscono.

Gli anarchici pensano, come i marxisti, che il lavoro nella società presente aliena il lavoratore. Non è parte della sua vita, è soltanto ciò che fa per poter vivere; la sua vita è in quel che fa al di fuori del suo lavoro, e quando fa qualche cosa che gli piace non lo chiama lavoro. Ciò è vero per la maggior parte del lavoro e per la maggior parte della gente sotto tutti gli orizzonti e non può che esser vero per una grande quantità di lavoro e per molta gente in ogni tempo. Il faticoso e ripetuto lavoro che si deve fare per far crescere le piante ed allevare gli animali, per far funzionare le industrie ed i sistemi di trasporto, per procurare alla gente quel che vuole e prendere da essa quel che non vuole, non potrebbe esser abolito senza provocare un drastico abbassamento del tenore di vita materiale; e l’automazione, che può renderlo meno faticoso, lo rende anche più ripetitivo. Ma gli anarchici affermano che la soluzione del problema non sta nel condizionare la gente a credere che questa situazione sia inevitabile, bensì nel riorganizzare il lavoro essenziale in maniera che, in primo luogo, sia normale che tutti coloro che sono in grado di farlo, facciano la loro parte nell’eseguirlo, e che nessuno sia tenuto ad attendervi per più di poche ore al giorno; e, in secondo luogo, in modo che sia a tutti possibile di alternarsi fra diverse qualità di lavoro tedioso, che sarebbe reso meno tedioso dalla maggiore diversificazione. Non si tratta soltanto di una giusta quantità per tutti, bensì anche di una giusta qualità di lavoro per tutti.

Gli anarchici convengono con i sindacalisti nel sostenere che il lavoro dovrebbe essere organizzato dai lavoratori stessi. Ciò non vuol dire che la classe lavoratrice – o le unioni di categoria o il partito della classe lavoratrice (cioè il partito che pretende di rappresentare la classe lavoratrice) – dirigerà l’economia ed avrà il controllo supremo del lavoro. Né vuol dire, su una scala più ridotta, che il personale amministrativo di uno stabilimento possa eleggere il direttore o rivedere i registri. Vuol semplicemente dire che le persone occupate ad eseguire un particolare lavoro controllino completamente e direttamente quel che fanno, senza capoccia o soprintendenti o ispettori. Possono esservi dei buoni coordinatori, e questi possono dedicarsi alla coordinazione, ma non v’è nessuna ragione perché debbano esercitare alcun potere su coloro che effettivamente eseguono il lavoro. Altri possono essere pigri e inefficienti, ma questi vi sono già. Il punto fondamentale è che ciascuno abbia il maggiore possibile controllo del proprio lavoro, come della propria vita.

Questo principio si applica a tutti i tipi di lavoro – nei campi come nelle officine, nelle grandi aziende come nelle piccole, nelle occupazioni puramente manuali come nelle specializzate, nei lavori sporchi come nelle professioni liberali – e questo non è un semplice gesto opportuno per accontentare i lavoratori, ma è un principio fondamentale in qualunque forma di economia libera.

Un’obiezione ovvia è che il completo controllo dei lavoratori condurrebbe alla concorrenza rovinosa fra diversi posti di lavoro e alla produzione di cose che nessuno vuole; ma non meno ovvia sarebbe la risposta che la completa mancanza di controllo da parte dei lavoratori conduce proprio a questo. Quel che occorre è una intelligente pianificazione, e malgrado quel che molta gente sembra credere, questa dipende non da un maggiore controllo dall’alto, ma da una maggiore conoscenza nel basso.

Gli economisti si sono preoccupati per lo più della produzione anziché del consumo – della fabbricazione delle cose piuttosto che dell’uso da farne. Tanto i partigiani delle destre che i partigiani delle sinistre vogliono che i lavoratori producano di più, che sia per arricchire vieppiù il ricco o per rendere lo Stato più forte, e quel che ne consegue è la “sovrapproduzione” a fianco della povertà, la produttività crescente accompagnata da crescente disoccupazione, più alti edifici adibiti ad uffici nello stesso tempo che aumenta il numero dei senza tetto, grandi raccolti per ogni acro mentre aumenta il numero degli acri non coltivati. Gli anarchici si preoccupano più del consumo che della produzione, dell’uso delle cose atte a soddisfare i bisogni di tutta la popolazione invece che dell’incremento dei profitti e del potere dei ricchi e dei forti.

Il necessario ed il superfluo

Una società che abbia la benché minima pretesa di decenza non può permettere lo sfruttamento dei bisogni elementari.

Può essere tollerabile che gli oggetti di lusso siano comprati e venduti, dal momento che abbiamo una facoltà di scelta tra il farne uso o meno: ma i generi di prima necessità non sono semplici mercanzie, giacché il farne uso non è questione di scelta. Se vi sono cose che dovrebbero essere tolte dal commercio mercantile e dalle mani di gruppi monopolistici, esse sono certamente la terra su cui viviamo, gli alimenti che vi crescono, le case che si costruiscono sulla sua superficie e tutte quelle altre cose essenziali che costituiscono la base materiale della vita umana: vestiario, strumenti, cose piacevoli, combustibile, e così via di seguito. Ovvio è anche che quando vi è abbondanza di una cosa necessaria tutti dovrebbero essere in grado di prenderne quanto occorre; ma quando vi è scarsità dovrebbe esistere un sistema liberamente concordato di razionamento equo, sì che ciascuno ne abbia la sua giusta parte. È chiaro che deve esservi qualche cosa di ingiusto in un regime in cui lo sperpero esiste accanto all’indigenza, in cui alcuni hanno più di quel che i loro bisogni richiedono mentre altri mancano del necessario.

Al di sopra di ogni altra cosa è evidente che il primo compito di una società sana è di eliminare la penuria dei beni di prima necessità – come la mancanza di alimenti nelle società arretrate e la mancanza di abitazioni nei paesi più progrediti – mediante l’utilizzazione appropriata delle conoscenze tecniche e delle risorse sociali. Se, per esempio, le capacità e la mano d’opera disponibili nella Gran Bretagna o nella Francia fossero impiegate razionalmente, non vi sarebbe ragione perché non si producessero alimenti in quantità sufficienti e non si costruissero case abbastanza per alimentare e per dare alloggio alla intera popolazione del paese.

Questo non succede oggi, non perché sia impossibile, ma perché la società presente ha un diverso ordine di priorità. Una volta si credeva che fosse impossibile vestire tutti in modo appropriato, e la povera gente era sempre in cenci; ora vi sono abiti in abbondanza, e vi potrebbe essere abbondanza anche di tutte le altre cose.

Per quanto sembri paradossale, anche gli oggetti di lusso sono necessari sebbene non siano di prima necessità. E il secondo compito di una società sana è di rendere anche gli oggetti di lusso disponibili, sebbene questo sia un campo nel quale il denaro potrebbe conservare una funzione utile a condizione che non fosse distribuito con quella ridicola mancanza di sistema che esiste nei paesi capitalisti o, più ridicolo ancora, nei paesi comunisti. Il punto essenziale è che ognuno dovrebbe avere libero ed eguale accesso al lusso.

Ma l’uomo non vive soltanto di pane e nemmeno di dolci. Gli anarchici non vorrebbero vedere le attività ricreative, intellettuali, culturali e simili nelle mani della società, fosse pure la società più libertaria. Vi sono però altre attività che non possono essere lasciate agli individui uniti in libere associazioni, ma devono essere rette dalla società nel suo insieme. Queste sono le attività riguardanti i servizi sociali della collettività, il mutuo appoggio che va al di là del nucleo familiare o di affinità, o al di là dei confini del posto di residenza o di lavoro. Prendiamone in esame tre.

La società del benessere

Nelle società umane l’educazione è molto importante, perché all’uomo occorre tempo per crescere ed imparare fatti e tecniche necessari alla vita sociale; e gli anarchici sono sempre stati molto interessati ai problemi dell’istruzione. Molti esponenti dell’anar- chismo hanno dato contributi preziosi alla teoria e alla pratica dell’insegnamento, e molti riformatori della pedagogia hanno avuto tendenze libertarie – da Rousseau a Pestalozzi, a Montessori, a Neil, a Freinet. Certe idee sull’educazione, che una volta erano considerate utopiche, fanno ora parte dell’insegnamento tanto al di dentro che al di fuori del sistema scolastico statale britannico, e il campo dell’istruzione è forse quello che più si presta agli anarchici amanti della pratica. Quando la gente dice che l’anarchismo è una bella idea, ma che non può essere tradotto in pratica, noi possiamo additare una scuola d’avanguardia, o qualche buon esperimento di autogestione in fatto di circoli giovanili. Ma anche il migliore sistema scolastico rimane sempre sotto il controllo di gente investita di autorità: insegnanti, amministratori, governanti, funzionari, ispettori e così via di seguito. Gli adulti interessati comunque all’educazione hanno generalmente la tendenza a controllarne tutte le forme. In realtà, non è necessario che venga controllata da essi, né, a maggior ragione, da coloro che non hanno nulla a che vedere con l’educazione.

Gli anarchici vorrebbero che le riforme attuali dell’insegnamento fossero liberate dal potere delle autorità estranee. Non solo dovrebbero essere abolite la severa disciplina e le punizioni corporali, ma dovrebbero egualmente scomparire le discipline imposte in ogni forma e tutti i sistemi punitivi. Non solo le istituzioni scolastiche dovrebbero essere emancipate dal potere di autorità estranee, ma gli studenti dovrebbero essere liberati dal potere degli insegnanti o degli amministratori. In un salutare rapporto educativo il fatto che un individuo sa più di un altro non costituisce ragione perché l’insegnante abbia autorità sull’allievo. La condizione di superiorità degli insegnanti nella società presente è basata sull’età, la forza, l’esperienza e la legge; la sola superiorità degli insegnanti dovrebbe essere basata sulla conoscenza in una data disciplina e sulla loro capacità di insegnarla e in ultima analisi sulla loro capacità di ispirare ammirazione e rispetto. Quel che occorre non è tanto un potere nelle mani degli studenti – per quanto questo sia un utile correttivo al potere degli insegnanti e dei burocrati – quanto un “controllo operaio” ad opera di tutti coloro che sono impegnati in una data istituzione educatrice. Il punto essenziale è di spezzare il vincolo esistente fra l’insegnamento e il governo e far sì che l’istruzione divenga libera.

Questa meta è ora più vicina nel campo della medicina che in quello dell’istruzione. I medici non sono più dei maghi e gli infermieri non sono santi, ed in molti paesi, la Gran Bretagna inclusa, il diritto all’assistenza medica gratuita è acquisito. Quel che occorre è che questo principio di libertà venga esteso dal lato economico al lato politico della medicina. La gente dovrebbe potere andare all’ospedale senza pagare, e la gente dovrebbe inoltre poter lavorare nell’ospedale senza nessuna gerarchia. E anche qui occorre il controllo operaio ad opera di tutte le persone che sono impiegate nelle istituzioni mediche. Quel che l’istruzione è per gli studenti, i servizi medici sono per gli ammalati.

Anche il trattamento della delinquenza ha fatto molta strada in avanti, ma è ancora lontano dall’essere soddisfacente. Gli anarchici hanno due idee caratteristiche in merito alla delinquenza: la prima è che i così detti criminali sono, per la maggior parte, soltanto un po’ più poveri, più deboli, più sciocchi o sfortunati; la seconda è che coloro i quali persistono nel far del male agli altri non dovrebbero essere a loro volta maltrattati ma curati. I maggiori delinquenti non sono i ladri, ma i padroni, non i malfattori ma i governanti, non gli assassini ma quelli che sterminano le masse.

Alcune ingiustizie minori sono denunciate e punite dallo Stato, mentre le più grandi ingiustizie della società presente sono mascherate ed effettivamente perpetrate dallo Stato. In linea generale, la punizione è più dannosa per la società di quel che non sia il delitto; è più estesa, meglio organizzata e molto più efficace. Ciò nonostante, anche la più libertaria delle società dovrà proteggersi da certa gente, e ciò comporterà inevitabilmente una certa misura di costrizione. Ma un appropriato trattamento della delinquenza dovrebbe far parte del sistema educativo e medico, e non dovrebbe diventare un sistema penale istituzionalizzato. L’ultimo espediente non dovrebbe essere la galera o la pena di morte, ma il boicottaggio o l’espulsione.

Pluralismo

Questo potrebbe operare in senso inverso. Tanto un individuo come un gruppo potrebbe rifiutarsi di entrare, oppure insistere nel voler uscire dalla migliore società possibile, e non vi sarebbe nulla che possa riuscire a trattenerlo. In teoria è concepibile che un individuo possa riuscire a sostenersi col suo solo lavoro, ma in pratica dovrebbe dipendere dalla comunità perché gli fornisca certi materiali che gli abbisognano o per scambiare con essa certi prodotti, sicché è difficile essere letteralmente sufficienti a se stessi.

Una società collettivista o comunista dovrebbe tollerare e magari anche incoraggiare simili casi di individualismo. Inammissibile, invece, sarebbe il caso di un individuo che cercasse di sfruttare il lavoro altrui, impiegando persone a salari inadeguati o scambiando prodotti a prezzo d’usura. Questo non dovrebbe succedere, tuttavia, perché in condizioni normali la gente non lavorerebbe o non comprerebbe se non vi trovasse il proprio tornaconto; e se è vero che non esistono leggi che impediscano l’appropriazione, non ve ne sono neppure che impediscano l’espropriazione: voi potreste prendere qualche cosa da un altro, ma questo potrebbe riprendersela. L’autorità e la proprietà non saranno certamente restaurate da individui isolati.

Maggior pericolo presenterebbero invece dei gruppi indipendenti. In seno alla società potrebbe facilmente esistere una comunità separata, e questo potrebbe diventare causa di gravi tensioni.

Se tale comunità facesse ritorno all’autorità e alla proprietà, cosa che potrebbe elevare il tenore di vita di pochi, certuni potrebbero essere tentati di unirsi ai secessionisti, specialmente se la società più vasta stesse attraversando tempi tristi.

Ciò nonostante una società libera dovrebbe essere pluralista e tollerare non soltanto le differenze di opinioni in merito alla libertà e all’eguaglianza da mettere in pratica, bensì anche le deviazioni dalla teoria della libertà e dell’uguaglianza. La sola condizione sarebbe che nessuno può essere forzato ad associarsi con tali tendenze contro la propria volontà, e in questo caso qualche forma di pressione autoritaria dovrebbe essere a portata di mano per proteggere anche la più libertaria delle società umane. Ma gli anarchici vogliono sostituire alla società di massa una massa di società, viventi le une a fianco delle altre, nello stesso modo che gli individui in seno a ciascuna di esse. Il maggior pericolo per le società libere che sono esistite nel passato non furono le repressioni interne, ma le aggressioni dal di fuori, ed il vero problema non sta tanto nel sapere come mantenere in funzione una società libera, quanto nel come incominciare a metterla in funzione.

Rivoluzione e riforma

Gli anarchici hanno tradizionalmente preconizzato una rivoluzione violenta mediante la quale raggiungere una società libera, ma una parte di essi ha ripudiato la violenza o la rivoluzione o entrambe, dato che la violenza è tanto spesso seguita dalla contro-violenza e la rivoluzione dalla controrivoluzione. D’altra parte, pochi sono gli anarchici che hanno invocato le semplici riforme, rendendosi ben conto che fino a tanto che il sistema dell’autorità e della proprietà esiste, i cambiamenti superficiali non metteranno mai in pericolo la fondamentale struttura della società. La difficoltà sta nel fatto che quel che gli anarchici vogliono è rivoluzionario, ma la rivoluzione non condurrà necessariamente – e nemmeno probabilmente – a ciò che gli anarchici vogliono.

Questa è la ragione per cui gli anarchici hanno fatto ricorso ad atti disperati oppure sono ricaduti nell’inerzia della disperazione.

In pratica, la maggior parte delle dispute fra anarchici riformisti e anarchici rivoluzionari non hanno ragion d’essere, poiché soltanto un rivoluzionario esaltato rifiuta di accogliere con piacere le riforme e soltanto un riformista esaltato rifiuta di accogliere con piacere le rivoluzioni, e tutti i rivoluzionari sanno che le loro attività condurranno generalmente a nulla più delle riforme così come tutti i riformisti sanno che l’opera loro tende generalmente ad una rivoluzione. La maggioranza degli anarchici vuole una costante vasta pressione propiziatrice di conversioni individuali, la formazione di gruppi, la riforma di istituzioni, il sollevamento delle popolazioni e la distruzione dell’autorità e della proprietà. Se questo avvenisse senza disturbi, noi ne avremmo piacere; ma questo non è mai avvenuto e, forse, non avverrà mai. In ultima analisi, bisogna uscire ed affrontare le forze dello Stato nel vicinato, sul posto di lavoro, per le strade – e se lo Stato è sconfitto allora si rende anche più necessario continuare ad agire per impedire la formazione di un nuovo Stato e per dare invece inizio alla formazione di una società libera. In questo procedimento c’è posto per tutti, e tutti gli anarchici trovano qualche cosa da fare nella lotta per quel che vogliono.

Quel che gli anarchici fanno

La prima cosa che gli anarchici fanno è pensare e parlare. Pochi nascono anarchici e il divenirlo è un’esperienza sconcertante che implica un considerevole capovolgimento emotivo e intellettuale.

Un anarchico cosciente si trova sempre in una posizione difficile (press’a poco come essere ateo nell’Europa medioevale); è difficile superare le barriere del pensiero e persuadere la gente che la necessità del governo (come l’esistenza di Dio) non è chiara per se stessa, ma può essere contestata ed anche negata. Un anarchico deve elaborare tutta una nuova concezione del mondo e una nuova maniera di comportarsi nei suoi confronti; questo si fa generalmente nelle conversazioni con persone che sono anarchiche o vicine all’anarchismo, specialmente nei gruppi e nelle attività di sinistra.

Ma anche il più intransigente degli anarchici ha contatti con non anarchici, e tali contatti offrono inevitabilmente l’opportunità di diffondere le idee anarchiche. Nella famiglia e tra gli amici, a casa e sul posto di lavoro, ogni anarchico che non sia puramente “filosofico” è in condizione di manifestare la propria influenza.

Senza generalizzare, è usuale per gli anarchici essere meno di altri preoccupati di problemi come la fedeltà coniugale, l’obbedienza dei figli, il conformismo col vicinato o la puntualità dei colleghi.

Gli impiegati ed i cittadini anarchici sono meno portati a fare ciò che si dice loro, e gli insegnanti e i genitori anarchici sono meno inclini ad obbligare i figli a fare quel che si dice loro. Un anarchismo che non si manifesta nella vita privata non ispira molta fiducia.

Certi anarchici si contentano di avere le loro opinioni e di limitarle alla propria condotta, ma la maggior parte va oltre e cerca di influenzare anche altri. Nelle discussioni su problemi politici e sociali essi espongono il punto di vista libertario, e nelle pubbliche lotte difendono la posizione libertaria. Ma per avere veramente efficacia bisogna agire insieme ad altri anarchici o in qualche raggruppamento politico che abbia basi più permanenti dell’incontro fortuito. E questo è il principio dell’organizzazione che conduce alla propaganda e finalmente all’azione.

Organizzazione e propaganda

La forma iniziale dell’organizzazione anarchica è il gruppo di discussione. Se questo sarà vitale, si svilupperà in due modi: stabilirà rapporti con altri gruppi ed allargherà il campo delle sue attività. I rapporti con altri gruppi potranno eventualmente condurre ad una specie di federazione capace di coordinare le attività ed intraprendere iniziative più ambiziose. L’attività anarchica normalmente incomincia con la propaganda intesa a diffondere le idee fondamentali dell’anarchismo. E la propaganda si fa in due modi, con le parole e con i fatti.

La parola può essere scritta o parlata. Ai nostri giorni la parola parlata si sente meno di quel che non lo fosse una volta, ma i comizi pubblici, all’aperto e in luoghi chiusi, sono ancora un modo efficace per raggiungere la gente direttamente. L’ultimo passo per diventare anarchici è di solito affrettato da contatti personali, ed un’assemblea può offrirne una buona occasione. Oltre al tenere riunioni specificatamente anarchiche, torna vantaggioso partecipare ad altre assemblee per portarvi il punto di vista anarchico, sia partecipando direttamente alle discussioni, sia interrompendole.

Il mezzo più perfezionato per la propaganda orale è ai nostri giorni quello della radio e della televisione, e gli anarchici hanno talvolta trovato il modo di farsi sentire in qualche programma[4]. Ma le trasmissioni radiofoniche sono in realtà poco soddisfacenti come mezzi di propaganda, perché inadatte a comunicare idee poco note, e l’anarchismo è ancora un’idea poco nota alla maggior parte del pubblico; sono inoltre inadatte alla presentazione di esplicite idee politiche e probabilmente l’anarchismo può essere più efficacemente presentato con questi mezzi in forma di racconti implicitamente morali. Altrettanto si può dire del cinematografo e del teatro che possono essere impiegati con grande efficacia dalle persone competenti. In generale, tuttavia, gli anarchici non sono riusciti a valersi di questi mezzi di comunicazione come sarebbe desiderabile.

Comunque, per quanto efficace sia la propaganda orale, la parola scritta è necessaria per completare il messaggio, e questa è, oggi come ieri, la forma di propaganda più frequente. L’idea di una società senza governo ha potuto esistere in sordina per dei secoli, e di quando in quando affiorare alla superficie in occasione di movimenti popolari radicali, ma fu portata all’aperto per la prima volta in libri alla portata di migliaia di persone da scrittori come Paine, Godwin, Proudhon, Stirner e così via. E quando l’idea prese radice e fu espressa da gruppi organizzati, allora ebbe inizio quel fiorire di periodici e di opuscoli che costituisce ancora il principale mezzo di comunicazione del movimento anarchico. Talune di queste pubblicazioni sono state eccellenti, per la maggior parte sono state mediocri; ma tutte quante sono state essenziali per far sì che il movimento non si racchiudesse in se stesso e mantenesse un dialogo continuo col resto del mondo. Per di più, oltre a produrre opere specificamente anarchiche giova contribuire a periodici non anarchici e scrivere libri non anarchici onde presentare un punto di vista anarchico a lettori che anarchici non sono.

Ma la parola orale e scritta, per quanto necessaria, non basta mai. Noi possiamo parlare e scrivere in termini generali finché vogliamo, ma con ciò solo non arriveremo mai a niente. Bisogna anche andare al di là della semplice propaganda, e questo si fa in due modi: discutendo problemi particolari al momento giusto ed in maniera da produrre un effetto immediato, oppure ottenere grande pubblicità mediante qualcosa di più drammatico delle semplici parole. Il primo è l’agitazione, il secondo è la propaganda col fatto.

L’agitazione è il frangente in cui la teoria politica affronta la realtà politica. L’agitazione anarchica torna appropriata quando la gente diventa particolarmente ricettiva alle idee anarchiche in conseguenza di tensioni acuitesi nel regime statale: durante guerre civili o di frontiera, di lotte industriali od agrarie, di campagne contro l’oppressione o di scandali pubblici e consiste essenzialmente in una propaganda realistica e realizzabile. In circostanze di crescente consapevolezza, la gente non è tanto interessata alla speculazione di carattere generale quanto alle proposte specifiche.

Allora si offre l’opportunità di dimostrare in dettaglio che cosa non va nel vigente sistema e come rimediarvi. L’agitazione anarchica è stata a volte efficace, specialmente in Francia, in Spagna e negli Stati Uniti avanti la prima la prima guerra mondiale, in Russia, in Italia e in Cina dopo; in Spagna negli anni ’; è stata efficace a volte in Inghilterra nel 1880, nei primi anni del 10 e poi nel decennio 10.

L’idea della propaganda col fatto è spesso male intesa tanto dagli anarchici che dai loro nemici. Quando questa espressione venne in uso (durante il decennio 1870) voleva dire dimostrazioni, tumulti e sollevazioni intesi come azioni simboliche miranti non ad un successo immmediato ma ad una pubblicità vantaggiosa.

L’importante era che la propaganda non consistesse soltanto di parole intorno a quel che si potrebbe fare, ma di notizie su quel che si era fatto. Non voleva dire in origine e non vuol necessariamente dire ora uso di violenza, meno ancora assassinio; ma dopo un’ondata di attentati, commessi da anarchici durante gli anni 18, la propaganda col fatto divenne popolarmente identificata con atti personali di violenza, e questa immagine non s’è ancora dileguata.

Ai nostri giorni, tuttavia, la propaganda col fatto è per la maggior parte degli anarchici non violenta, o per lo meno priva di violenza, piuttosto contraria alle bombe che favorevole. Di fatto è ritornata al significato delle origini, ad onta delle forme diverse che assume: “sit-down” e “sit-ins”[5], rumori organizzati, e dimostrazioni poco ortodosse. La propaganda col fatto non è necessariamente illegale, per quanto lo sia spesso. La disobbedienza civile è un tipo speciale di propaganda col fatto che comporta l’aperta e premeditata infrazione alla legge per ottenere pubblicità. A molti anarchici non piace perché comporta anche l’aperto e premeditato invito alle punizioni, cosa che ferisce i sentimenti anarchici in materia di contatti volontari con le autorità; ma vi sono stati momenti in cui gli anarchici hanno trovato utile questa forma di propaganda.

Tanto l’agitazione, specialmente quando riesce efficace, che la propaganda col fatto, specialmente quando è illegale vanno più lontano della semplice propaganda orale e scritta, giacché l’agitazione incita ad agire mentre la propaganda col fatto è già azione; questo è il punto in cui gli anarchici entrano nel campo dell’azione e l’anarchismo comincia ad essere cosa concreta.

L’azione

Il passaggio dalla teoria alla pratica dell’anarchismo comporta un cambiamento di organizzazione. Il tipico gruppo di discussione o di propaganda, che è aperto alla facile partecipazione di estranei ed alla altrettanto facile sorveglianza delle autorità, e che è fondato sul principio che ognuno fa quel che vuole e non fa ciò che non vuole fare, diventa alquanto più esclusivo e formale. Ci si trova in un momento molto delicato perché un atteggiamento troppo rigido condurrebbe all’autoritarismo e al settarismo, mentre un atteggiamento troppo flessibile potrebbe condurre alla confusione e alla irresponsabilità. È anche un momento di maggiore pericolo perché quando l’anarchismo diventa cosa seria gli anarchici diventano a loro volta un serio pericolo per le autorità, e la vera persecuzione incomincia.

L’azione anarchica, nella sua forma più comune, è l’agitazione su una data questione, che diventa partecipazione ad una campagna di protesta. Questa può essere riformista, cioè fatta per qualche cosa che non cambierebbe tutto il sistema, oppure rivoluzionaria, cioè per il cambiamento dell’intero sistema; può essere legale o illegale o l’una e l’altra cosa insieme, violenta o non violenta o semplicemente pacifica. Può avere una probabilità di successo od essere senza speranza di riuscita fin dall’inizio. Gli anarchici possono essere influenti o magari anche prevalenti nella campagna od essere semplicemente uno fra i diversi gruppi partecipanti.

Non ci vuol molto ad immaginare una grande quantità di possibili esempi d’azione e nel corso di un secolo gli anarchici li hanno provati tutti. Ma la formazione che gli anarchici considerano migliore ed è più tipicamente anarchica è l’azione diretta.

L’idea dell’azione diretta è spesso fraintesa tanto dagli anarchici che dai loro nemici. Quando questa espressione venne in uso (nell’ultimo decennio del secolo passato) voleva dire soltanto l’opposto dell’azione politica – parlamentare – e nel campo del movimento operaio voleva dire azione “industriale”, specialmente scioperi, boicottaggio e sabotaggio, fatti che erano concepiti come preparativi e anticipi della rivoluzione. S’intendeva dire che l’azione viene esplicata non indirettamente per tramite di rappresentanti, ma direttamente dalle persone più strettamente coinvolte nella situazione, allo scopo di conseguire qualche successo concreto piuttosto che un semplice effetto pubblicitario.

Ciò sembra abbastanza chiaro, ma in pratica l’azione diretta è stata confusa con la propaganda col fatto e specialmente con la disobbedienza civile. La tecnica dell’azione diretta si è veramente sviluppata nel movimento sindacalista francese come reazione alle tecniche più estreme della propaganda col fatto; invece di straniarsi con gesti drammatici ma inefficaci, i sindacalisti procedettero con un’opera monotona ma efficace o questa era almeno la loro teoria. Ma a mano a mano che il movimento sindacalista si sviluppava ed entrava in conflitto con l’ordine costituito, in Francia, in Spagna, in Italia, negli Stati Uniti, e anche in Inghilterra, i momenti culminanti dell’azione diretta incominciarono ad assumere la stessa funzione degli atti propri della propaganda col fatto. Poi, quando Gandhi incominciò a descrivere come azione diretta quella che era in realtà una forma non violenta di disobbedienza civile, tutte e tre le fasi si confusero e vennero ad avere lo stesso significato, più o meno, di qualunque forma di attività politica contraria alla legge o comunque al di fuori delle norme costituzionali.

Per la maggior parte degli anarchici, tuttavia, l’azione diretta conserva ancora il suo significato originario sebbene, oltre alle forme tradizionali, ne prenda anche delle nuove, come l’invasione di basi militari, l’occupazione di edifici universitari, di abitazioni, di fabbriche ed officine. Ciò che la rende in modo particolare attraente agli anarchici è la sua consistenza, la sua compatibilità con i principi libertari.

Le forme di azione politica impiegate dai gruppi di opposizione sono per lo più escogitate in modo da conquistare il potere; vi sono gruppi che adottano la tattica dell’azione diretta, ma non appena sono arrivati al potere non solo abbandonano quella tattica, ma impediscono agli altri di farne uso. Gli anarchici, invece, sono sempre per l’azione diretta che considerano forma normale d’azione, un’azione che prende vigore e cresce con l’uso, che può essere impiegata per creare e sostenere una società libera.

Vi sono tuttavia anarchici che non ritengono possibile la creazione di una società libera e la loro azione varia di conseguenza.

Una delle maggiori tendenze pessimiste dell’anarchismo è il nichilismo. La parola fu coniata da Turgeniev (nel suo romanzo “Padri e Figli”) per descrivere l’attitudine scettica e sprezzante dei giovani populisti russi del secolo passato, ma servì poi a indicare il punto di vista che nega qualunque valore, non solo allo Stato ed alla morale dominante, bensì anche alla società e all’umanità stessa; per il nichilista intransigente non v’è nulla di sacro, nemmeno se stesso – cosicché il nichilismo è un passo più in là del più integrale egoismo.

Una forma estrema di azione inspirata dal nichilismo è il terrorismo fine a se stesso anziché mezzo di vendetta o di propaganda.

Gli anarchici non hanno il monopolio del terrore, ma vi sono stati momenti in cui era di moda in certi ambienti del movimento.

Dopo l’esperienza deludente della predicazione di una teoria minoritaria in seno ad una società ostile e spesso indifferente, si può esser tentati di attaccare fisicamente la società stessa. Ciò non produrrà gran che per quel che riguarda l’ostilità, ma metterà certamente fine all’indifferenza: non importa se mi odiano, purché mi temano; tale è pressappoco quel che pensa il terrorista. Ma l’assassinio ragionato è stato improduttivo, il terrore cieco è risultato controproducente e non si esagera dicendo che nulla ha più nociuto all’anarchismo della corrente di violenza psicopatica che in esso si è sempre trovata e si trova ancora.

Una forma attenuata d’azione inspirata dal nichilismo è il bohemienismo, che è un fenomeno costante anche se il nome varia col variare delle sue manifestazioni. Anche questo è stato di moda in certi settori del movimento anarchico e, naturalmente, anche al di fuori di esso. Invece di scagliarsi contro la società, il bohémien se ne allontana sebbene, pur non conformandosi ai valori della società, viva usualmente nel suo seno ed a suo carico.

Molte sciocchezze si sono dette intorno a questa tendenza. I bohemiens possono essere parassiti, ma questo è il caso di molti altri. Il meglio che si può dire di loro è che possono fare del bene divertendosi e sfidando i valori tradizionali in una maniera ostentata ma inoffensiva. E il peggio che si può dir di loro è che in realtà non possono veramente cambiare la società, mentre possono con la loro condotta deviare delle buone energie da ciò che gli anarchici per lo più considerano il punto fondamentale dell’anarchismo.

Un modo più coerente e costruttivo di staccarsi dalla società è quello di uscirne per fondare una comunità bastante a se stessa. In certi momenti della storia questo è stato un fenomeno diffuso fra gli entusiasti religiosi del Medioevo, per esempio, e più recentemente fra certi popoli, specialmente nell’America Settentrionale e in Palestina. Gli anarchici hanno subito l’influenza di questa tendenza in tempi passati, ma non più tanto ai nostri giorni; come gli altri raggruppamenti di sinistra, essi tendono piuttosto a costituire senza formalità le loro comunità composte di persone che vivono e lavorano dentro la società invece di uscirne. Si può considerare la loro comunità come il nucleo di una nuova forma di società che si sviluppa nel seno delle vecchie forme, oppure una specie vitale di rifugio contro le esigenze dell’autorità, non troppo estremista per la gente comune.

Un’altra forma d’azione basata su una concezione pessimista dell’anarchismo è la protesta permanente. Secondo questa concezione non v’è speranza di cambiare la società, di abolire il regime statale e di mettere in pratica l’anarchismo. Quel che importa non è il futuro, la rigorosa aderenza a un dato ideale e l’accurata elaborazione di una bella utopia, ma il presente, la già tardiva constatazione di una realtà amara e la costante resistenza ad una situazione intollerabile. Questa, della protesta permanente, è la teoria di molti ex anarchici che hanno rinunciato alle loro convinzioni e non sperano più nel loro trionfo; ed è anche la pratica di molti anarchici militanti che si mantengono fedeli ai loro principi e continuano a lottare come se sperassero nella vittoria pur sapendo, consapevolmente o non, che non la vedranno mai. Quel che gli anarchici hanno contribuito a fare nel corso di quest’ultimo secolo può essere considerato, retrospettivamente, come protesta permanente; ma è altrettanto dogmatico affermare che le cose non cambieranno mai, come il dire che le cose dovranno cambiare.

Nessuno può prevedere quando le cose potrebbero cambiare e il presente diventare improvvisamente il futuro. La vera distinzione è che la protesta permanente è considerata l’azione di retroguardia per una causa disperata, mentre, invece, la maggior parte delle attività anarchiche è concepita come azione d’avanguardia, o quanto meno, di pionieri impegnati in una lotta che forse non vinceremo mai e che forse non avrà mai fine, ma che merita ancora di essere combattuta.

Le migliori tattiche da seguire in questa lotta sono quelle che si conformano alle linee generali della lotta per la libertà e l’eguaglianza, dalle scaramucce di guerriglia nella privata vita personale alle battaglie di posizioni nelle più vaste campagne sociali. Gli anarchici sono quasi sempre una piccola minoranza, hanno quindi scarsa possibilità di scegliere il campo di battaglia e sono perciò tenuti a battersi ovunque sia l’azione. In linea generale, le occasioni più favorevoli sono state quelle in cui l’agitazione anarchica è sboccata nella partecipazione degli anarchici nei più vasti movimenti d’avanguardia (di sinistra) e specialmente nel movimento operaio, ma anche nel movimento antimilitarista e pacifista nei paesi che preparavano o facevano la guerra, nel movimento anticlericale od umanista nei paesi religiosi, nei movimenti di liberazione nazionale o coloniale, per l’uguaglianza delle razze e dei sessi, per le riforme legali e penali o per le libertà civili in generale.

Tale partecipazione comporta inevitabilmente alleanze con gruppi non anarchici e qualche compromesso di principi, e gli anarchici che si coinvolgono a fondo in azioni di questo genere sono sempre in pericolo di allontanarsi completamente dall’anarchismo. D’altra parte, il rifiuto di esporsi a questo rischio si traduce generalmente in sterilità e settarismo, e il movimento anarchico ha avuto tendenza ad esercitare influenza solo quando si è impegnato veramente a fondo. In tali occasioni, il particolare contributo degli anarchici assume due aspetti: prospettare il fine di una società anarchica e insistere sulla bontà dei metodi anarchici per raggiungerlo. Questo è di fatto un contributo unico, giacché la cosa più importante che noi possiamo offrire, non è soltanto che il fine non giustifica i mezzi ma che i mezzi determinano il fine, che i mezzi sono essi stessi fini, nella maggior parte dei casi. Noi possiamo essere sicuri delle nostre azioni, ma non delle loro conseguenze.

[1] S’intende il diritto di proprietà.

[2] S’intende la proprietà avente funzione sociale.

[3] L’espressione vuol dire che in materia di amore libero si sono fatte troppe chiacchiere e non abbastanza fatti.

[4] In Inghilterra, sì. In Italia mai.

[5] Queste sono manifestazioni di sciopero bianco e di occupazione non violenta.


Reperibile presso Biblioteca Libertaria Armando Borghi: Quaderni del Centro Studi Libertari Camillo di Sciullo, 2005