Machete (rivista)
Senza via d’uscita
Rimbomba nelle orecchie, balla davanti agli occhi, si insinua attraverso le narici, occupa i nostri sensi. E la menzogna sociale di massa che ci viene quotidianamente ammannita. La si potrebbe definire, fra uno sbadiglio e l’altro, oggettivazione del mondo in cui viviamo. Consiste nell’affermazione onnipresente di scelte già fatte in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Il compito di travestire l’essenza dei rapporti e dell’organizzazione sociale spetta principalmente ai cortigiani intellettuali (giornalisti, filosofi, scienziati, sociologi, esperti ...), che elaborano i discorsi e le griglie di percezione mentale che consentiranno di spiegare la realtà astraendola dalla sua natura sociale. Si tratta di prodotti immateriali, fabbricati e spacciati sotto forma di opinioni, giudizi e pregiudizi, veri e propri brandelli di una coscienza fatta letteralmente a pezzi. Possono consentire a chiunque di avere un parere su tutto, tranne che sull’essenziale.
«Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che tutto continui così è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato.
Così Strindberg – in Nach Damaskus?- : l’inferno non è qualcosa che ci attende, bensi questa vita qui>>.
Walter Benjamin
Un tempo, dopo aver dato per scontato che è nostro dovere produrre, consumare ed obbedire, ci veniva concessa la “libertà” di scegliere la modalità di adempimento. Bisogna lavorare, ma quale mestiere? Bisogna votare, ma quale partito? Bisogna guardare la tv, ma quale canale? Ora ci stiamo accorgendo che anche questa è una menzogna, una semplice illusione. Il precariato non ci darà mai la sensazione di conoscere un mestiere, le elezioni presentano candidati perfettamente intercambiabili, quanto alla televisione è un’unica merda. Non possiamo esprimerei sul cosa, non possiamo interrogarci sul perché, e non abbiamo molta voce in capitolo neppure sul come. Restano però le conseguenze. Di quelle sì, che possiamo ancora discutere appassionatamente.
Gli “incidenti” mortali sul lavoro succedutisi nello spazio di pochi mesi in Piemonte, in Liguria, in Puglia,... – hanno fornito una concreta dimostrazione di quanto a fondo sia radicata la convinzione che l’essere umano sia circondato dal suo habitat naturale, che è solo da gestire nella maniera più opportuna per evitare gli spiacevoli inconvenienti che possono capitare. Quelle tragedie annunciate hanno sollevato una grande indignazione. Nel caso della ThysseniKrupp, poi, anche i più scettici hanno potuto constatare il disprezzo da parte degli amministratori dell’azienda per la legislatura ufficiale relativa alle norme di sicurezza. Ma questo incidente e i suoi retroscena non hanno messo in luce solo l’opacità gestionale di quell’azienda (negare ogni responsabilità, attribuendola alla disattenzione delle vittime) e la trasparenza della sua strategia imprenditoriale (esseri umani e macchine costituiscono il capitale variabile e fisso al servizio del profitto): hanno evidenziato le condizioni presenti all’interno di tutte le aziende moderne. A confermarlo con brutalità è stato l’incidente di Molfetta, dove altri operai sono caduti uno dopo l’altro in quella che è stata definita una impresa-famiglia modello in cui tutti si volevano bene.
Al nord come al sud, nelle grandi come nelle piccole aziende, il lavoro uccide e fa stragi. Lo scorso anno in Italia sono stati registrati 8.000.000 di incidenti sul lavoro, cioè circa 21.917 al giorno, cioè circa 913 all’ora, cioè circa 15 al minuto, uno ogni 4 secondi. Qualche decennio fa tutti questi feriti e morti sarebbero stati considerati il tragico bollettino della guerra di classe, sangue proletario che grida vendetta: si tratta di altri tempi, tempi in cui i lavoratori italiani percepivano salari molto più alti e potevano anche permettersi il lusso di sognare la rivoluzione. Mentre oggi che la loro paga è la più bassa in Europa non c’è più guerra di classe, non si è più sfruttati dai «padroni», si viene ricompensati dagli «imprenditori»; non ci si scontra più nel «conflitto sociale», si dialoga nel «confronto fra le parti»; non si protesta contro gli «omicidi bianchi», si piange per i «morti sul lavoro». In mancanza di una rabbia da scatenare, in assenza di un nemico da odiare, di fronte a sindacati incapaci anche di indire uno sciopero subito dopo i recenti omicidi bianchi nella Torino operaia, non è affatto strano che una simile ecatombe abbia suscitato solo attestazioni di cordoglio e auspici di maggior responsabilità.
Ma questa esigenza “civile” di consentire a chiunque di poter lavorare in santa pace, stando al sicuro, più volte riesumata nell’ultimo periodo da un vecchio signore che siede al Quirinale, si scontra per forza di cose col carattere stesso dello sviluppo economico ed industriale. Malgrado gli sforzi di razionalizzazione da parte dei vari consulenti, malgrado i possibili decreti-legge da varare, lo sfruttamento immediato attraverso mezzi diretti è la regola che domina ovunque nel mondo del lavoro (dove le cassiere dei supermercati non possono neanche assentarsi per fare pipì). La sicurezza delle infrastrutture e dei salariati passa necessariamente in secondo piano rispetto al guadagno, anche perché l’incidente è una eventualità che non si può eliminare con un apposito investimento. Nessuna azienda garantisce sicurezza ai suoi dipendenti, né può farlo. Le più razionali imprese moderne sono fatte ad immagine della società che le produce, un miscuglio di razionalità necessaria alla gestione di massa e di irrazionalità adatta a produrre capitale in fretta e con facilità, qualsiasi siano i rischi che si corrono (siano essi umani, ambientali o penali).
I morti di Torino e Molfetta mostrano che i pericoli maggiori non si trovano laddove ci viene indicato. Non provengono da un aereo dirottato da fanatici musulmani, né da stranieri che attraversano clandestinamente le nostre frontiere. Non sono gli altri che ci minacciano, siamo noi stessi. È la vita che conduciamo la trappola da cui bisogna sottrarsi. Chi si ostina a indicare in una maggiore sicurezza sul lavoro la soluzione di ogni problema, farebbe bene a riflettere su quanto è accaduto nell’ottobre 1996 a Genova, quando sei operai morirono su una petroliera asfissiati dall’anidride carbonica sprigionata per spegnere un incendio: vittime dello stesso meccanismo che avrebbe dovuto proteggerli. Oggi come allora si piangono i morti, ma si continua a restare indifferenti di fronte alla morte, a quella fabbrica di morte che è l’odierna organizzazione sociale – la cui colonna portante è il Lavoro – che ha raggiunto un livello tale di complessità da sfuggire a ogni controllo. Le strutture, le macchine, le istituzioni create dall’uomo per vivere la propria esistenza si sono dimostrate nocive, e ancora più nocivi sono spesso i sistemi adottati per correggere i guasti prodotti. Ma, anziché fermarsi e bloccare tutto, si continua ad andare avanti. Ad andare sul posto di lavoro, dove chi ha il privilegio di essere sfruttato in cambio di una quantità di denaro sempre più insufficiente – con cui si procurerà del cibo sempre più contaminato e sempre meno saporito e nutriente, da consumare in alloggi sempre più angusti e squallidi – potrà morire atrocemente mentre fa qualcosa di completamente inutile.
È arduo trovare un esempio più indicativo del mondo in cui viviamo, una sua espressione meglio miniaturizzata, di quello che ci fornisce quanto sta accadendo a Pianura, a Marigliano e nel circondario di Napoli. Un mondo sommerso dalla spazzatura che produce, minato nella salute dai veleni che diffonde, incapace di risolvere i problemi che esso stesso crea. Di fronte alle strade invase dalla spazzatura, di fronte all’esigenza di barricarsi in casa e all’impossibilità perfino di tenere aperte le finestre, cresce la consapevolezza di non avere più vie di uscita. Allora, la rabbia monta e non bastano più le antenne paraboliche per intrattenere nella quotidiana rassegnazione. A lungo covata e compressa, questa rabbia talvolta esplode senza guardare in faccia a nessuno ed è capace sia di attaccare con mezzi adeguati la polizia sia di respirare la diossina sprigionata dai roghi che accende. Contro tutto ciò la ragione politica, letteralmente, non sa più cosa fare. Sempre più in precario bilico sul consunto filo delle illusioni che la reggono, alla politica non rimane che annaspare nel vuoto, sbracciandosi per riuscire a riprendere l’equilibrio, rimandando in tutti i modi il momento della caduta. In Campania, prima calunnia la protesta attribuendola a losche infiltrazioni camorristiche, poi si rivolge a un supersbirro affinché si adoperi graziosamente per risolvere una situazione diventata una questione di ordine pubblico (peccato che la spazzatura non si liquefi come il sangue di San Gennaro, né che si possa disperdere a colpi di manganello come una manifestazione a Genova). In questo paesaggio desolato, i militari professionisti vengono riciclati sotto forma di poliziotti/netturbini e dispiegati, a seconda delle necessità di intervento, per liberare le strade dalle barricate o dai rifiuti.
Per tranquillizzare gli animi, anche e soprattutto in prospettiva di future “emergenze” sempre dietro l’angolo, il pensiero a senso unico dominante è costretto a martellare l’idea che a Napoli si è alle prese con un problema di mal governo, drammatico ma circoscritto.
Se così fosse, si potrebbe risolvere tutto con opportuni provvedimenti quali un cambio della guardia ai vertici, diligenti raccolte differenziate, accorte riduzioni dell’utilizzo di imballaggi, eccetera. Il messaggio che deve arrivare è: scusate il disagio locale, abbiate pazienza, ma stiamo lavorando per voi. Ma un’amministrazione più efficiente ed onesta, una popolazione più attenta ai comportamenti quotidiani, imprenditori più sensibili ad evitare sprechi, potranno mai fare qualcosa contro uno dei tanti sintomi della necrosi sociale e ambientale che avanza? Ha senso far sparire dalle strade tutte quelle tonnellate di spazzatura attraverso gli inceneritori per poi ritrovarsele dentro i polmoni?
No, il degrado di quelle zone non costituisce l’imbarazzante eccezione di un Paese sano e normale. È lo specchio di una civiltà intera, che ovunque nel mondo a ridosso delle metropoli apre discariche sociali sempre più sterminate in cui far confluire i propri rifiuti urbani. Scarti di merci e scarti di esseri umani si trovano a condividere gli stessi spazi, la stessa aria, lo stesso destino in quello che è stato definito un pianeta bidonville. Quando gli abitanti dei dintorni di Napoli raccontano le loro storie di povera gente costretta a vivere in case costruite in poche settimane, precarie e insicure, su terreni resi micidiali dalle sostanze tossiche industriali là sepolte, quando riconoscono che spinti dalla mancanza di un lavoro sono costretti a campare di espedienti, in mezzo a relazioni umane degradate, non stanno descrivendo un’avvilente storia locale. Stanno raccontando una storia universale.
È la stessa che potrebbero raccontare gli abitanti dei bustees di Calcutta, dei kampungs di Djakarta, degli iskwaters di Manila, dei shammasas di El Khartum, degli umjondolos di Durban, dei baladis del Cairo, degli intra-muros di Rabat, dei gecekondus di Ankara, dei conventillos di Quito, delle favelas del Brasile, delle villas miseria di Buenos Aires, delle colonias populares del Messico, ma anche dei ghetto di New York o dei HLM di Parigi. All’inizio del terzo millennio un miliardo di esseri umani sopravvivono in questi agglomerati di abitazioni costruite per i poveri, con materiali scadenti e di fortuna, che sorgono come funghi il più delle volte abusivamente alla periferia delle grandi città dove talvolta costituiscono interi quartieri. Se è vero che «l’evento più importante del XX secolo è la scomparsa dei contadini», se è vero che l’esodo rurale è diventato ormai irreversibile, ci troviamo di fronte alle conseguenze devastanti di un fenomeno mai presentatosi prima. Che sia per sfuggire alla guerra o alla fame, alle epidemie o ai debiti, alle carestie ambientali o alle politiche d’esproprio, o anche solo per la speranza di afferrare l’occasione di un avvenire migliore, milioni e milioni di esseri umani hanno abbandonato le zone rurali per riversarsi nelle città, o meglio nelle loro periferie. Per la prima volta nella storia dell’umanità, la maggioranza della popolazione mondiale si trova concentrata nello spazio ridotto dell’ambiente urbano.
Ma la conseguente mancanza di spazio spinge i poveri ad installarsi ovunque sia possibile, anche in zone pericolose, costringendoli ad una convivenza forzata, ad un sovraffollamento gravido di disperazioni ed insidie di varia natura.
Nemmeno la facile chiarezza delle cifre è in grado di trasformare in un problema tecnico quella che è e resta una incontestabile questione sociale. Ma a differenza del passato, quando erano le diverse visioni del mondo a scatenare conflitti, oggi siamo alle prese con le ricadute del trionfo planetario di un unico modello di vita contraddistinto dal consumo della merce e dall’obbedienza all’autorità. Offuscato dagli scarichi industriali, dai grattacieli, dalla montagne di spazzatura, per non parlare dei fumi causati dai bombardamenti, il sole rischia di non risplendere più sulla futura Umanità la cui mera sopravvivenza biologica sulla terra nei prossimi decenni è messa in dubbio da più parti. La catastrofe in corso è talmente estesa da essere diventata palpabile, visibile, respirabile, manifestandosi in tutti gli aspetti della quotidianità. Chi è persuaso della necessità immediata di una trasformazione sociale radicale si trova quindi davanti a un interrogativo: come può un’umanità senza più speranze e sogni, sfinita e disperante, disintegrata e marginalizzata, uscire dal vicolo cieco in cui si trova?
Le continue stragi di lavoro in tutta Italia, così come le tonnellate di spazzatura che da mesi invadono le strade di Napoli, sono lì a dimostrarci che non esistono facili soluzioni. Né norme di sicurezza più severe o ispettori più agguerriti e meno corrotti, né una civile raccolta differenziata basteranno per uscire da questo inferno sociale.
Di fronte al quotidiano sfilare delle bare, di fronte all’olezzo dei rifiuti sparsi per le strade, non c’è spazio per il massimalismo – si dirà. È ora di essere pratici e di dare risposte concrete. Pratico come un sistema d’allarme, concreto come un inceneritore? No, grazie. Che le vie di mezzo rischino di essere inevitabili in tutti i contesti su cui non si ha l’ultima parola, è una banalità difficile da negare. Ma perlomeno che siano l’esito involontario dello scontro fra due tensioni incompatibili, non il loro intenzionale accomodamento tattico! Contrariamente a quanto ritengono tutti i realisti, sostenere il massimo delle proprie aspirazioni non è consegnarsi ad una vanità irrealizzabile. Nel caso peggiore, senza dover nulla chiedere e nulla rinunciare dei propri propositi, si contribuirà a costringere la controparte alle maggiori “concessioni” possibili poiché si dilata l’estremo da mediare.
E poi, cosa abbiamo da perdere? Questo mondo è senza via d’uscita. Procrastinarne il crollo sarebbe ingannare se stessi e gli altri. Non c’è più tempo per i piccoli passi, che, per altro, dove ci hanno portato fino ad ora? Forse è meglio accelerare la fine. Perché almeno sarà la fine da noi voluta, non quella per noi preparata. E perché potrebbe rivelarsi un inizio.