MANADA DE LOBXS, 1a ed Milena Caserola
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Manada de Lobxs
La famiglia è una nocività patriarcale
Incursioni anarcofemministe
Introduzione alla presente edizione
Somos malas, podemos ser peores
(siamo cattive, possiamo essere peggio)
La barbarie inizia in casa:
la famiglia (un’altra) istituzione dell’eteromodernità
Introduzione alla presente edizione
In questo tempo rigurgitante discorsi sui diritti civili delle minoranze sessuali, nel momento più caldo di polemica mediatica su unioni civili, matrimoni gay, famiglia “naturale” (tradizionale) versus famiglie alternative (dalle coppie di fatto alle famiglie arcobaleno), in cui parole ieri sconosciute come omogenitorialità sono entrate nel gergo di tendenza dei mass media, si assiste all’assimilazione normalizzante verso il modello eteronormativo di famiglia e ad un deprimente appiattimento del potenziale sovversivo, anche laddove è in atto una critica di quel modello.
Manca una vera e propria messa in discussione radicale della famiglia, nonostante l’esistenza di tentativi di superarla. Ma di quale famiglia stiamo parlando? Oggetto di questa analisi è la cosiddetta famiglia mononucleare tipica della società moderna.
Prima di parlare di decostruzione però facciamo un passo indietro... una premessa ovvia: le famiglie con un solo genitore sono qualcosa di comune e accettato, ma quando si prova a dare legittimità e costruire affettività e intimità altre rispetto al modello mononucleare papà mamma bambino/a (+ cane o gatto) attraverso pratiche o discorsi critici allora è tutta un’altra storia... Mi riferisco a reti di relazioni più o meno fitte e allargate, molto diversificate tra loro, che non essendo riconosciute dalle istituzioni prima o poi vedono ostacolate le loro possibilità di autodeterminarsi, soprattutto in caso di presenza di figlx. Ma non solo: la riuscita di queste forme di relazioni “alternative” è ostacolata innanzitutto dall’interiorizzazione delle norme trasmesse da un’educazione affettiva e relazionale inculcata fin dall’infanzia. La socializzazione infantile influenza le nostre esperienze a tal punto da rendere difficile disarticolare il sistema di relazioni che conosciamo, fondato sulla coppia eterosessuale e monogama come prima base della famiglia. Esperimenti di decostruzione sono stati visibili fin dall’inizio del secolo scorso ma, il libero amore insegna, non sono arrivati a toccare il centro della questione.
Anche nelle comunità in cui si cerca di vivere in modo diverso, attraverso forme di relazioni secondo un’etica libertaria, rifiutando rapporti autoritari, possessività, gerarchie, e persino di produrre figli, spesso si tendono a ricreare ruoli paralleli a quelli della famiglia; li abbiamo talmente interiorizzati che anche quando vogliamo ricreare altre alleanze e forme di vita automaticamente mettiamo in atto vecchi modelli. Ancora regna l’idea che la relazione di coppia sia il massimo nella vita, il tipo di relazione di serie A (mentre l’amicizia è di serie B) che realizza al meglio le aspettative, i desideri e le necessità degli individui. Bisogna purtroppo ammettere che anche negli ambiti in cui questo dogma viene messo in discussione non esistono modelli vincenti tali da sostituirlo in un batter d’occhio. Reinventare forme di relazioni liberanti è un lungo e non semplice cammino di decostruzione, anche perché comporta il superamento di certe forme di dominio interiorizzate.
Questo breve testo politico-filosofico in origine è un capitolo (il cui titolo è La barbarie comienza en casa...) estratto dal saggio, in corso di traduzione, Foucault para encapuchadas firmato collettivamente da Manada de lobxs.
A partire dai contributi di Deleuze, Wittig, Butler e altre, seguendo la via aperta da Foucault, in questo specifico capitolo si decostruisce in chiave anarcofemminista il discorso retorico sulla famiglia, vista come nucleo contenente i micro-dispositivi di potere atti a formare individualità docili, sottomesse, conformi... Attraverso l’idea di amore romantico, la coppia monogama, ma ancora prima i ruoli di genere e gli stereotipi sessuali che costituiscono la struttura delle relazioni normate, il sistema sociale vigente produce, nel quadro di questa civiltà patriarcale, dei mandati sessuali che perpetuano in maniera straordinariamente efficace il regime politico dell’eteronormatività[1], e, attraverso la famiglia, instaura una forma di relazione di dominio, possesso, controllo, sfruttamento verso le persone (e logicamente le altre forme viventi). Leggendo al contrario invece, in questa dinamica di relazione affettiva di tutela/dipendenza partendo dal nucleo della famiglia si arriva alla legittimazione dello stato.
Le autrici partono dalla radice, dal significato semantico della parola “famiglia”, e individuano nella sua struttura il nucleo di ri-produzione di relazioni autoritarie e coercitive che non è possibile trasformare o migliorare per loro stessa natura. Distruggere queste relazioni con passione è la sola cosa da fare, riappropriandosi così dell’odio che la socializzazione infantile ci ha vietato di esercitare, in una liberazione del desiderio (già contaminato dal mondo in cui siamo) dalle gabbie prestabilite, dalle identità, verso forme inclassificabili di autosoggettivazione, passioni e potenze mai fisse, in divenire.
In tale prospettiva di liberazione proprio l’infanzia abusata è il secondo punto fondamentale preso in considerazione. Infatti le autric* parlano a partire dal comune vissuto di figlie ed individuano in questa esperienza marchiante il tassello primario di un futuro di replicazione sistematica di dominazioni, attive e passive, nelle relazioni e nella riproduzione di altri nuclei familiari (che tanto fanno comodo allo stato, e nella difesa dei quali si legittimano tante istituzioni). Dalla prospettiva dell’esperienza di figlie emerge un amore filiale dipendente, opposto all’auto determinazione... Questo è un racconto dalla parte delle bambine, e da qui si avvalora la scelta politica del rifiuto della riproduzione, collocandosi in parziale discontinuità con le classiche motivazioni di quella parte del femminismo anni ‘70 che rifiutava la maternità come lavoro o ruolo sociale imposto; questo discorso si lega, integrandolo e andando oltre, anche alle tesi eco-estinzioniste del genere umano... Ma la critica alla riproduzione non è ideologica quanto piuttosto ontologica, si vuole andare oltre e più a fondo: costruire relazioni diverse, reinventarsi, riappropriarsi delle nostre potenze...
Nella pratica però è inutile negarlo nascondendosi dietro all’individualismo, ci dice il testo: ogni scelta personale può solo rafforzare o entrare in conflitto con lo status quo, e dunque con l’ideologia dominante: in questo caso quella della famiglia.
La famiglia non si riforma, si demolisce con la costruzione di affettività liberate.
Queste riflessioni vengono dal contesto libertario latinoamericano ed intrecciano analisi anarcofemministe con teorie queer, antispeciste e filosofie eretiche.
Un segno di distinzione ribelle dal sapere accademico è la scelta da parte delle autrici di utilizzare una firma collettiva, Manada de lobas – branco di lupe.
Per chiarire il pensiero/pratica politic@ dellx Branco di Lupx da cui prende le premesse questo saggio la cosa migliore è usare le loro stesse parole, estrapolate da un altro capitolo del saggio: Somos malas, podemos ser peores (siamo cattive, possiamo essere peggio)
Somos malas, podemos ser peores
(siamo cattive, possiamo essere peggio)
La brava gente non ci piace, la brava gente produce le più grandi aberrazioni. Le madri vogliono fare del bene: per questo picchiano i figli quando li educano. I padri vogliono fare del bene, per questo controllano la sessualità delle figlie fino all’abuso. Il maestro di scuola vuole fare del bene: per questo ti lega la mano sinistra dietro la schiena.
Ci neghiamo a quel femminismo tenero che tratta le donne come infanti di sei anni a cui si insegna l’alfabeto. Le donne sono un artefatto dell’eterocapitalismo e vanno trattate con la stessa veemenza con cui si trattano tutti. La pedagogia della bontà sminuendo toglie potenza.
Facciamo parte di un femminismo transdeviato, intendendo per “trans” non il passaggio da un sesso all’altro quanto una potenza che fluisce tra differenti generi scherzosamente, l’essere quello che si può fare! Il corpo che manifesta che il potere non controlla i suoi effetti, il corpo che scardina attraverso le sue pratiche e forme di vita il regime eterocapitalista e i suoi equipaggiamenti di regolazione.
Ci troviamo in guerra sociale contro il regime eterocapitalista
Cercare di ritirare il corpo dalla trincea, o disconoscere che il corpo è il campo di battaglia, è semplicemente ignorare, come degli zombie, da dove vengono gestiti e dove avvengono i cambi e le modificazioni di questa grande guerra molecolare. I corpi e le loro potenze sono il principio e la fine di tutta questa guerra. Senza corpo, niente.
[...] Lontane dal rivendicarci un femminismo della connessione della donna con la sua femminilità o con un’identità comune fondata su di un’oppressione anch’essa comune, sosteniamo che non soltanto non esiste un unico modo di abitare un’unica femminilità, ma che anzi il destino irrevocabile delle “donne” (con o senza vagina) non è neanche la femminilità. [...] Donna non si nasce, lo si diventa assumendo una serie di privilegi che in ultima istanza comportano la diminuzione delle potenze dei corpi. [...]
Non c’interessa generare nessun tipo di sistema filosofico per entrare in competizione con le grandi leghe accademiche europee e nemmeno con le piccole leghe di sudakalandia[2]. Ci interessa di più vivere strutturazioni di desiderio perfino impensabili per quellx che pensano le grandi teorie.
Scriviamo sulle briciole del banchetto che Foucault, Deleuze e Guattari fecero di Spinoza e Nietzsche. Uscire e viverci quello che nemmeno loro riuscirono.
Filosofia pratica, dà voce all’inaudibile, impercettibile, anche a ciò che questi profeti non poterono. Verso dove? verso il nulla...
[...] Andarsene, fuggire da tutti gli ordini e regimi, scappare dall’Accademia verso il bosco, la taverna, per i sentieri...
[...] Divenire animal*. Urge una dis-affiliazione dall’umano e l’umanismo, dall’umanità tutta e dal suo desiderio di fare del bene, di essere buoni, di tolleranza e rispetto [....] per cui finiamo per organizzarci insieme a umani spregevoli. Sciopero umano, di genere, di ventri. Dis-affiliarci dalle file del partito della buona coscienza per recuperare la capacità di contagiarci con tutte le forme del vivente (anche con quelle che l’umanesimo ha considerato inanimate, come le pietre e i minerali), lanciarci nel fiume incalcolabile delle potenze.
Qualsiasi cosa appartenga agli ordini minoritari può aprire la possibilità di tuffarci in un divenire fuori dall’umano e dalle sue logiche eterosessuali.
Nota alla traduzione
Si trovano nel testo espressioni come “la bambino”, “le nostre progenitori”, “i figlx” ecc... Non sono refusi di stampa, ma un libero uso del linguaggio che esprime attraverso la degenerazione dei suffissi maschili e femminili l’idea dell’inclassificabilità all’interno di un genere sessuale. In altri casi invece viene usato il femminile per il neutro, come quando parla di “figlie” e “bambine” a contenere tutte le potenze di essere possibili, invece di adottare sempre il generico asterisco o la chiocciola. Analogamente altri termini sgrammaticati sono stati tradotti il più letteralmente possibile per riflettere il senso politico delle espressioni creative anche quando in italiano si sarebbe detto in altro modo.
Suggerimento: questo testo potrebbe risultare ostico se non si conosce Foucault; si consiglia un’introduzione ai concetti fondamentali del pensiero foucaultiano prima di addentrarsi nelle prossime pagine...
La barbarie inizia in casa:
la famiglia (un’altra) istituzione dell’eteromodernità
accade senza volerlo, però andò così.
Ti riempirono dei loro errori
e ne aggiunsero di extra, tutto solo per te.
Anche loro, a loro volta furono rovinati
da stupidi con cappelli e cappotti passati di moda.
La metà del tempo erano sentimentaloidi-severi
L’altra metà si scannavano uno contro l’altra
L’uomo riempie di miseria l’uomo.
Sprofonda come geografia costiera.
Vattene da lì appena puoi
e non avere mai figlx.
Philip Larkin, This be the vers
(ogni bambina sensibile capirà)
Determinatx dalle nostre famiglie – la cellula base della società, come ci viene ripetuto continuamente a scuola – lx bambinx nella nostra civilizzazione sono natx, cresciutx e formatx in un’atmosfera di disapprovazione della loro vitalità. Il pedagogo inglese A.S. Neill, famoso per il progetto della scuola Summerhill, afferma: “il bambino conformato, condizionato, disciplinato e represso, non libero, il cui nome è Legione, vive in ogni angolo del mondo. Vive nella nostra città, è quello che ci attraversa la strada. Si siede in un noioso banco di una noiosa scuola, e in seguito si siede in una noiosa scrivania in un ufficio o una fabbrica. É docile, tende a obbedire all’autorità, teme la critica ed è quasi un fanatico del desiderio di essere normale, convenzionale e corretto. Accetta quello che gli viene insegnato senza farsi domande, e trasmette tutti i suoi complessi e le sue frustrazioni ai suoi-sue figlx.”
Moltx, tra cui i professionisti dell’inconscio, sottoscrivono l’idea che praticamente tutti i danni psichici vengono fatti nei primi cinque anni di vita di una bambino. Però potremmo dire che il danno è previo, comincia persino prima della nascita, dell’indottrinamento in rosa e azzurro, delle bambole, delle macchinine, dell’educazione sessista, etero normativa e sessuata delle nostre corporalità inclassificabili, prima del bisturi nell’episiotomia di mamma o sulla clitoride intersex, prima dell’abbandono di persona nella notte di una nursery o dei toccamenti ostetrici irrispettosi della partoriente. Comincia nella rigidità fisica delle nostre progenitrici. La creatura disciplinata dalla (ri)strettezza della madre, previamente disciplinata a sua volta, metterà il lavoro davanti al piacere. A sua volta la famiglia, cellula base della società – non ci stancheremo di ripeterlo per tutte le volte che ce l’hanno inculcato in testa, la cui etimologia deriva dal latino “insieme di schiavi e di schiave” (famulus: servo, schiavo, secondo il Dizionario etimologico Corominas) dà per scontato che una bambino deve essere allevato per comportarsi in modo da fare la stessa vita della famiglia, e dellx adultx in generale, più tranquillamente possibile: buone maniere, obbedienza e docilità. Prevede anche una rete di divieti e menzogne, come vestitini, giacchine e scarpette, con cui le bambini sono forzate ad adattarsi alle misure di una società che si sa malata, annichilita: “Non fare rumore, non masturbarti, non mentire, non rubare... gli si insegna a dire di sì a tutto ciò che di negativo c’è nella vita. Rispettare i più grandi, la religione, il preside della scuola, rispettare la legge dei genitori. Non fare domande, obbedisci”, così scrive Neill in una parodia dei genitori.
La famiglia opera così non solo come l’insieme di schiavi ma anche come lo sguardo moralista onnisciente e onnipresente sulle nostre vite che riduce tutto al binomio vittima e carnefice. Non possiamo dimostrare le nostre proprie forme di abuso per come il Codice Penale le codifica, ma possiamo chiamare a testimonianza solo intuizioni e prove di altre dimensioni, e saremo ad aeternitatem sospettose della nostra colpevolezza. Perché alcune parole ci marchiano a sangue: non sapevamo cosa fare, i grandi bisogna rispettarli, sono tuo padre! sei una bambina molto ribelle, uno schiaffo non fa mai male, sei troppo piccola per fidanzarti, avere buoni voti è tua responsabilità... E così andando avanti con la lista di cose senza limiti etici; e per finire, quando sei uscita dal lager, dopo essere stata il fusibile di tutta la frustrazione borghese, prigioniera del potere famigliare, ti dicono: “abbiamo fatto quello che potevamo”. Poterono poco.
Scriviamo per tutte quelle individualità le cui famiglie provarono e a volte riuscirono a renderle invalide in qualche aspetto, che provarono e a volte riuscirono ad annullarle con il loro amore e le loro cure, o a impossibilitarle con il loro odio e le loro frustrazioni. Scriviamo per tutte quelle che i padri hanno trattato qualche volta da puttane in calore, incazzose, quelle con cui le madri si sono messe in competizione e che hanno svalorizzato, per tutte quelle che si sono viste sottomesse al crudele metodo di disciplinamento e soggettivazione che lo Stato Moderno (qualsiasi Stato) chiama “famiglia”. Scriviamo per tutte quelle che i progenitori hanno protetto, così tanto da non avergli fornito le armi con cui autogestire una sessualità finalizzata al piacere, soprattutto quello non eterosessuale, una sessualità diversa per ognuna e consensuale, che permetta di resistere ai soprusi di abusatori eterosessuali. Ci organizziamo e scriviamo anche per tutte quelle che non hanno bisogno del Codice Penale e le sue codificazioni per riconoscer(ci) e sapere che anche solo uno schiaffo è sufficiente, ma comunque furono di più. Molto più di uno: insulti, disprezzo, mancanza di stima o/e bugie, musi lunghi, neurastenia, e ancora botte, sottomissione, chiudi la bocca, silenzio che papà guarda la tele, zitta che papà guarda le corse, che papà guarda la partita, che papà ascolta il notiziario. E il sorriso compiaciuto del fratello incestuoso e represso che dice “Toccherà tutto a me, vedrai”. E la madre, molto impegnata con la sua carriera e intenta a far apparire tutto “più o meno perbene”, eteronormale, attenta a che nessuno faccia caso alla nostra vera estrazione sociale, lì a cancellarne le prove, facendo orecchie da mercante. Scriviamo per tutte le vittime soprav-viventi della famiglia – stato imposto a costo della propria scelta abdicata quotidianamente – per rendere possibile pensare ed esprimere da una prospettiva anarchica la nostra vita di figlie e obbiettarla. Scriviamo perché dobbiamo iniziare a parlare al di fuori dalla retorica del racconto sulla famiglia, dell’esilio famigliare e al di là ciò che la legge ci permette di dire.
Il futuro è arrivato, già da un po’
che non vogliono crescere
devono essere messi in riga.
Le bambine ribelli
che non si calmano
devono essere messa in riga.
Una botta in testa
avrai se non chiedi.
Una botta in testa
avrai se chiedi.
Una botta in testa
è proprio quello che guadagnerai
per essere come sei.
Una botta in testa
per quello che dici
e le cose che fai
per essere quello che sei.
Morrisey, Barbarism begins at home
L’anarchismo ha sempre contemplato tra le sue tematiche l’analisi e la modificazione dei vincoli tra esseri umani. L’amico barbuto Bakunin in un testo poco noto dal titolo “La società e i bambini” afferma che non siamo proprietà di nessuno, nemmeno da piccole: né dei nostri genitori, né della società. Le bambini appartengono solo alla loro propria futura Libertà, che aspetta ancora la coscienza piena e la sua realizzazione basata nel “sentimento della propria dignità e nell’autentico rispetto per la libertà e la dignità degli altri”. Tuttavia Bakunin in questo testo non radicalizza molto di più la questione dell’educazione di questi bambini, o se è desiderabile che non siano cresciuti dal padre e la madre. O ancora, se è desiderabile continuare a procreare questa progenie maledetta di umani in un mondo dove non ci sta più nessuno.
Possiamo citare invece La questione sociale, pubblicazione di fine ‘800, in cui nel secondo numero un autore anonimo afferma: “volendo l’uomo padrone trasmettere ai suoi discendenti il frutto delle sue rapine ed essendo stata la donna fino ad oggi giudicata come inferiore, anzi più come una proprietà che un socio, è evidente che l’uomo ha suggestionato la sua famiglia per assicurare la propria supremazia sulla donna e per poter, alla sua morte, trasmettere i suoi beni ai suoi discendenti; così è stato necessario dichiarare la famiglia indissolubile. Fondata sull’interesse e non sull’amore, è evidente che [la famiglia] necessitava di una forza e una convalida per impedire che si disgregasse sotto gli scontri causati dall’antagonismo degli interessi”.
Allo stesso modo, la grande anarcofemminista Emma Goldman, ha saputo vedere – e coinvolgersi politicamente – nell’analisi della “produzione” di esseri all’interno di ciò che letteralmente significa “insieme di schiavi”, come abbiamo già visto, la famiglia: “La donna non vuole continuare a essere la produttrice di una razza di esseri umani, malati, deboli, decrepiti e miserabili, che non hanno né la forza né il valore morale di scrollarsi il giogo della loro povertà e la loro schiavitù”. Infine anche l’anarcosindacalista italiano Errico Malatesta, che arrivò fino a queste regioni sudamericane ebbe qualcosa da aggiungere al riguardo: “Alcuni dicono che il rimedio si troverà nell’abolizione radicale della famiglia; l’abolizione della coppia sessuale più o meno stabile, riducendo l’amore al solo atto fisico o, per dirla meglio, trasformandolo, con l’aggiunta dell’unione sessuale, in un sentimento simile all’amicizia, un sentimento che riconosca la moltiplicazione, la varietà, la simultaneità degli affetti. E i bambini... ? Figli di tutti”.
Un po’ più avanti durante lo stesso secolo i filosofi insurrezionalisti francesi di Tarnac, Tiqqun, nel secondo ciclo de L’insurrezione che viene, in una lucida analisi della famiglia in chiave post-anarco-comunista affermano: “Si dice che c’è il ritorno della famiglia, della coppia. Ma questa famiglia non è quella di una volta. Il suo ritorno non è altro che un avanzamento della separazione regnante, che serve per ingannare, diventando esso stesso l’inganno. Chiunque può testimoniare le dosi di tristezza condensate ogni anno dalle festività famigliari, con i sorrisi forzati, la fatica di vedere tutti dissimulare invano, questa sensazione che c’è un cadavere lì, sul tavolo, e che tutti fanno finta di niente. Dall’avventura extraconiugale al divorzio, dal concubinato al riavvicinamento, ognuno risente dell’inerzia del triste nucleo familiare, ma la maggioranza sembra pensare che sarebbe ancora più triste dovervi rinunciare. La famiglia non è tanto l’asfissia dell’influenza materna o il patriarcato delle botte bensì questo abbandono infantile a una comoda dipendenza in cui tutto è conosciuto, questo moto di indifferenza davanti a un mondo in cui “diventare autonomo” è un eufemismo che significa “aver trovato un padrone”... La coppia è come l’ultimo scalino della grande catastrofe sociale. É l’oasi in mezzo al deserto umano. Si viene a cercarvi sotto gli auspici dell’”intimità” tutto ciò che diserta evidentemente le relazioni sociali contemporanee: il calore, la semplicità, la verità, una vita senza teatro né spettatore... [...] la decomposizione di tutte le forme sociali è un’opportunità.. la condizione ideale per una sperimentazione massiccia, selvaggia, di nuovi arrangiamenti, di nuove fedeltà... Nella morte della coppia vediamo nascere inquietanti forme di affettività collettiva... quanto di incondizionale c’è nei legami di parentela, contiamo di farne l’armatura di una solidarietà politica impenetrabile come un accampamento gitano all’ingerenza statale...”.
Comunque al di là delle abbondanti citazioni autorevoli al riguardo, non tutto luccica nel mondo delle famiglie alternative. Pieno di buone intenzioni, di nuove famiglie, di nuovi modelli... persino i supplementi LGTB dei quotidiani progressisti parlano di madri lesbiche, dell’attitudine genitoriale dei gay, o delle cosiddette “famiglie anarchiche” (ma non converrebbe avere affinità e branchi come parentela invece che figli?) soprattutto casi di adolescenti con gravidanze non interrotte.
Capiamoci. Non vogliamo nessuna famiglia – che non è lo stesso che dire non vogliamo più vivere, anche se siamo sicure che non vogliamo più figlix.
Vogliamo costruire branchi, vogliamo smettere di essere come nel verso di Alejandra Pizarnik, ostaggio perpetuo, vittime predestinate delle istituzioni, dello stato delle cose, delle cose dello Stato. Né migliorie, né riforme.
Sortilegi
impliciti dentro cui siamo prigionieri: ciò che vorrei comprendere
è il sistema di limiti e esclusione che pratichiamo senza saperlo,
mi piacerebbe rendere manifesto l’inconscio culturale.
Michel Foucault
Seguendo il pensiero di Foucault, quella bambino di cui si parla, che ci invita a liberare dall’abuso invisibile di questa famiglia/umanità che la rende problematica, viene concepita solo come problema da risolvere o una creatura indifesa da proteggere. Questa bambino è già in sé l’effetto di una sottomissione molto più profonda, posto che la soggezione è il principio di regolazione conforme al quale si formula o produce un soggetto (subiectum participio passivo di sub iaceo, trovarsi sotto, o subject in inglese: suddito, tema, non persona, la terza persona di cui si parla senza enunciarla davanti alla prima, l’esponente più chiaro della diminuzione delle potenze). Soggetto, forma di soggezione, soggetta, profondo controllo interiore che si è denominato “interpellazione”: il processo con il quale ci trasformiamo in elemento sociale comprensibile e assimilabile, ci trasformiamo in res.
In questo ordine delle cose, ci hanno abituate a confondere il potere con il suo dispositivo, o come qualcosa che esercita su di noi, soggetti a priori e naturalmente costituiti, una pressione dall’esterno, da cui bisogna emanciparsi/liberarci. Tuttavia in questa società il potere ci forma e determina la misura delle condizioni della nostra esistenza e la traiettoria del nostro desiderio (da qui il fatto che nemmeno l’inconscio è uno spazio assoluto di resistenza). Come direbbe Rossi, giornalista della Comune Socialista alla fine del XIX secolo che si insediò in Brasile nel progetto anarchico comunardo Colonia Cecilia: “Cambiamo pure i riti e i nomi quanto ci pare... però finché avremo un uomo, una donna, figlx, una casa, avremo una famiglia, ovvero un nucleo di una piccola società autoritaria, gelosa delle sue prerogative...”.
Per questo, e da nessun’altra parte è più evidente che nelle relazioni di parentela chiamate “famiglia” il potere ci mantiene così come siamo, sempre e quando restiamo gli esseri che dovremmo essere, che siamo buoni o che siamo cattive. A partire da ciò finiamo interiorizzando (accettando tacitamente) le sue condizioni, che rendono possibile d’altra parte la nostra esistenza e la nostra intellegibilità sociale. Posto che la sottomissione (al potere) consiste in questa dipendenza fondamentale davanti a un discorso che ci permette di stare in questo mondo così per come ora esiste, possiamo analizzare altre forme di abuso infantile, in cui l’asservimento sessuale esplicito (con, ad esempio, l’accesso carnale) è lo zenit o l’effetto di qualcosa antecedente che lo rende possibile, di qualcosa che avviene in larga misura, come tuttx sappiamo, all’interno delle famiglie. Ci riferiamo a un abuso primario, indissociabile dalla nostra posizione con la struttura di parentela, che sopraggiunge con la Modernità (la famiglia) più raffinata, un dispositivo disciplinare e coercitivo che opera in modo repressivo e su un piano simbolico, che può arrivare ad abilitare e produrre posteriormente il set o l’insieme definibile come condotte sessuali “aberranti” su una minore quando una persona le agisce invece di, paradossalmente, “curare” questa bambino (o dovremmo dire controllare e governare), la sua sessualità e le sessualità a cui è sottopostx (o asservimenti a seconda dei casi).
Questo abuso potrebbe essere definito come l’abuso del vincolo affettivo su di un essere che necessita, come condizione sine qua non per non cessare di esistere, delle cure psichiche, materiali e spirituali da parte delle persone a cui è a carico. Esattamente così i regimi di annichilimento naturalizzati, che pendono sulle teste di tutte coloro che hanno dovuto sopportare l’esperienza di essere figlie, ci costituiscono nel profondo, come il midollo osseo, fino al punto di non accorgersene più, nell’eteronormalità famigliare. Si trasformano nell’abuso della passione che ci unisce alle nostre progenitori, vincolo affettivo che ci lega indissolubilmente, per lo meno nei primi tempi, con chi non solo ci ha dato la vita bensì ce la restituisce ogni giorno da creature vulnerabili quali siamo, bisognose di cure quotidiane. Di fatto, secondo la filosofa femminista Judith Butler: “L’idea che il soggetto è appassionatamente attaccato alla sua subordinazione è stata cinicamente invocata da coloro che tentano di screditare le rivendicazioni dei subordinati... se si può dimostrare che il soggetto persegue o mantiene il suo status subordinato allora la responsabilità ultima della sua subordinazione forse risiede in esso stesso. Riguardo e contro questa visione io argomenterei che l’attaccamento alla sottomissione è il prodotto dei maneggi del potere e che il funzionamento del potere è visibile parzialmente in questo effetto psichico, il che costituisce una delle sue produzioni più insidiose”.
Insomma “famiglia” viene a significare vigilanza permanente sopra i corpi e le potenze da parte di qualcuno che esercita un dominio poiché, dal momento che esercita il potere contro i corpi, ha la possibilità non solo di vigilare ma anche di costituire un sapere su coloro lx quali sta vigilando: nessuno ti conosce più della mamma e del papà. Questo sapere si caratterizza per la tendenza a verificare se un corpo e le sue potenzialità funzionano come si deve. E a far sì che mai, mai, si vada lontano dalla casa del Padrone.
E ancora, come il potere produce i suoi soggetti? Come questi accolgono il potere che li inaugura in una intellegibilità eteronormale? Il desiderio di sopravvivenza, nel nostro caso, delle bambini che siamo stati e siamo, il desiderio di essere, di persistere (come lo intende Spinoza) nel nostro essere e di non cessare di esistere, è ampiamente sfruttabile dal potere a livello della struttura psichica. Per esistere in questo mondo così come lo conosciamo non ci resta altra opzione che essere soggetto (ovvero, essere subordinate). La subordinazione non solo forma il soggetto ma per di più misura e concede la sua condizione di possibilità hic et nunc in questa società.
Per poter persistere psichicamente e socialmente all’interno dell’eterocapitalismo, deve sussistere la dipendenza e la formazione di vincoli eteronormati di possessività e schiavismo soggettivo.
Per questo dentro le “famiglie” non esiste, da parte di (noi) bambine, la possibilità di non amare i nostri carcerieri quando l’amore è così strettamente vincolato alle necessità basiche della vita. Le bambine mancano, nell’istituzione chiamata famiglia, della capacità di odiare, per lo meno non scissa dall’affezione. Private della nostra capacità di defenestrare [chi ci opprime], come in una sindrome di Stoccolma, possiamo solo identificarci e vedere come desiderabile la maniera in cui le potenze insondabili delle nostre corporalità vengono assoggettate per costruirci come soggette. Per questo, concordiamo con Butler affermando che il problema non è tanto il fatto che “l’adulto imponga in modo unilaterale una certa sessualità” quanto piuttosto che costui “sfrutta l’amore del bambino, amore che è necessario per la sua esistenza, e abusa del suo vincolo emozionale”. Il potere non solo agisce per dominare, controllare e opprimere soggetti già esistenti, ma anche per formarne di nuovi. Così l’abuso del vincolo nelle relazioni di parentela cosiddette famigliari, forma alcuni tipi di soggetto con determinate pratiche e condotte, desiderosi di riprodurle appena abbiano l’opportunità su creature proprie; esseri desiderosi di coppia, di focolare e vogliosi di perpetuare la propria storia con gli stessi tipi di vincoli di “sempre”, di eterocapitalismo globale cognitivo e integrato. Considerare il desiderio di eteronorma e di sottomissione vuol dire in ultima istanza tenere in conto il desiderio di esistenza sociale, sfruttato dal potere regolatore di Progenitrici/tori annichilenti attraverso una condotta naturalizzata in tutte le sue pratiche – comprese quelle più intangibili – e considerata come “amore”: “Quando le categorie sociali garantiscono un’esistenza sociale riconoscibile e durevole, l’accettazione di queste categorie, anche se operano al servizio della sottomissione, sono abitualmente preferibili all’assenza totale di esistenza sociale”.
Nella misura in cui funzionano come fenomeni psichici, restringendo e producendo desiderio, le norme reggono anche la formazione del soggetti e circoscrivono l’ambito della socializzazione vivibile. Il funzionamento psichico della norma offre al potere regolatore un cammino più insidioso della coercizione esplicita, il cui esito permette il suo tacito funzionamento nel sociale. Per questo, lo ripetiamo, l’abuso del vincolo affettivo che si instaura nel tessuto famigliare con le creature umane, non scindibile, ai nostri occhi, da questa forma strutturale di relazione, è quasi impercettibile persino per chi la subisce, distinguibile solo nei danni che ne derivano e nelle cicatrici – suscettibili certamente di essere retrocesse – dentro questo ideale regolatore che non solo determina quali forme di amore sono possibili e quali no, ma che inoltre determina quali forme di odio non sono socialmente possibili e accettabili: il tabù di non amare più la propria famiglia e abbandonarla.
Sapendo che le istituzioni non si commuovono semplicemente per una volontà individuale, e che il desiderio non è qualcosa di privato, puro o al di fuori della norma, dobbiamo supporre che lo stato inconscio, il desiderio di seguire la norma incarnato nelle nostre pratiche quando creiamo le nostre proprie famiglie (che non smetteremo di desiderare né oseremo mettere in discussione davanti all’innegabile evidenza della catastrofe) è una chimera.
Per questo sono necessarie pratiche resistenti e conflittuali in branco, non solo per comprendere in che modo sono mantenuti specifici stati di dominazione, ma anche per distruggerli con la stessa passione con cui siamo state abusate, e ribaltare quel primo tentativo famigliare di annichilire le nostre potenze e le nostre possibili forme di vita.
La sottile linea rossa
che l’insulto deforma
e gli occhi
che la pazzia sfonda
e lo spavento,
che oscura la stanza
scosso dai battiti del mio cuore
quando distinguo
nella penombra
la linea che divide
la vita e la morte
Maria Julia de Ruschi, Noche oscura
La riforma introdotta nel Codice Penale Argentino nel 1994 dalla legge 25.0871 orienta la preoccupazione dello Stato per le libertà individuali, tra cui quella sessuale. Il passaggio da “Delitti contro l’onestà” a “Delitti contro l’integrità sessuale” rivela come la sessualità sia considerata un bene protetto giuridicamente, cioè una libertà personale, concepita nella sua realizzazione specifica come il diritto di ogni individuo ad esercitare liberamente la sua sessualità senza vedersi coinvolto senza il suo consenso in una relazione sessuale (Bompadre, 2000). Un attentato sessuale comporta “un’offesa alla dignità umana, ledendo in senso amplio il sublime diritto alla libertà e più precisamente, alla libertà sessuale”. Tuttavia la Legge se ne frega del fatto che la vita fu formata – soggettivata – per inabilitare una gestione efficiente nel campo della sessualità, specialmente fuori dall’eterosessualità intesa come regime politico.
L’abuso sessuale, codificato nell’articolo 119 della Legge 25.087, condanna da 4 a 6 anni di prigione chi “abusasse sessualmente di una persona minore di 13 anni, o nel caso in cui mediante violenza, minaccia, abuso coattivo o intimidatorio [sfrutta] una relazione di dipendenza, di autorità o di potere, approfittando del fatto che la vittima per qualsiasi ragione non abbia potuto consentire liberamente all’azione”. Cosa intende esattamente il verbo del potere con “abusare sessualmente”? Né più né meno che una serie di pratiche sessuali, con nomenclatura voyeuristica, che ruotano attorno alla penetrazione del maschio, con il suo membro, negli orifizi – rispettivamente — anale e vaginale... perché affinché una condotta sia sanzionata penalmente necessita, come condizione ineludibile, una tipicità. La pena cresce da 4 fino a 10 anni qualora l’abuso configurasse, per la sua durata, una sottomissione sessuale gravemente oltraggiante (“e risultasse un grave danno per la salute fisica o mentale della vittima”); da 6 a 15 anni se avvenisse accesso carnale attraverso qualsiasi via. Tutte queste pene sono aggravate da 8 a 20 anni se l’atto fosse commesso da “ascendente, discendente, parente in linea retta, fratello, tutore, ministro di un culto, incaricato della custodia o dell’educazione”. Ecco che l’abuso comporta “un attacco o aggressione sessuale violenta dell’agente contro la volontà della vittima”. Il termine “violenza” è definito da Rodriguez & Galetta come un esercizio di energia fisica, animale, meccanica, o di altra indole, portata avanti dall’agente o da una figura partecipe, che ricade sulla persona della vittima o si dirige direttamente a questa con il proposito di raggiungere il contatto sessuale (confondendo un’altra volta il potere con il suo esercizio). La vis absoluta sarà la violenza che arriva a spezzare la volontà del soggetto come conseguenza dell’assalto. La minaccia è una vis compulsiva, destinata a intimidire psicologicamente il soggetto passivo e obbligarlo a cedere davanti ai desideri dell’autore. L’abuso “coattivo o intimidatorio di una relazione di dipendenza, di autorità o di potere” si fonda nell’approfittarsi di una situazione di superiorità in cui si trova il soggetto attivo compiangendo la situazione di inferiorità del soggetto passivo, dal momento che quest’ultimo deve al primo obbedienza funzionale o lavorativa. E così si vive esattamente (occultandolo) in famiglia. Una buona parte della dottrina esige l’esistenza di contatto fisico diretto, cioè la produzione di atti fisici sulla vittima (cosa che arriverebbe a escludere per esempio, come suggerisce un’altra vulgata della dottrina, l’obbligo di spogliarsi... questo non ricorda per caso a nessuno la sua infanzia in famiglia?). Ancora, secondo R. & G., nella configurazione del delitto è materia opinabile se sia richiesto o meno il contatto corporeo fisico diretto tra l’aggressore e la vittima, così come è opinabile e rimane alla libera interpretazione del giudice cosa si intende per “accesso carnale”, quando avviene, quando è oltraggiante. Allo stesso modo la legge, eretta e creata a partire dall’eteronormalità obbligatoria come unica sessualità possibile, il cui centro è il pene e il suo fine la penetrazione, rafforza una volta di più “per natura” quelle individualità biopoliticamente assegnate come maschi come penetratori e abusatori istintivi. La legge omette di contemplare, per lo meno in modo chiaramente definibile, l’abuso invalidante dell’esercizio dell’asservita sessualità infantile, anche se segnala lo sfruttamento della particolare situazione di vulnerabilità in cui si trova la vittima (situazione che ai nostri occhi è comprovata in tutti i casi di infanzia in famiglia). Ma anche, attraverso il paragrafo 2° dell’articolo 119 della suddetta legge, che punisce con la pena di reclusione o prigione da 4 a 10 anni qualora “l’abuso per la sua durata o le circostanze della sua perpetrazione configurasse una sottomissione sessuale gravemente oltraggiante per la vittima”. Secondo la dottrina dominante si definisce “sottomissione” il caso in cui “si pone un individuo, per mezzo della forza o della violenza, sotto l’autorità o il dominio di un altro” o persino “quando [la sottomissione] misura l’assenza di volontà della vittima, sostituita da quella dell’autore”. Qualunque somiglianza con la famiglia è pura gestione dei biopoteri all’interno dell’eterosessualità come regime politico.
Stiamo tentando di dimostrare con tutto ciò che se potessimo in un gioco immaginario riconfigurare la nozione di “sessuale”, tutte queste massime sarebbero applicabili alla situazione di grave rischio in cui si trova la bambino nella famiglia. Tuttavia, la legge non può, dato che questa non è la sua funzione, distinguere le forme di abuso dalle modalità di soggettivazione e di produzione di determinate sessualità (o condotte non esplicitamente definibili come sessuali secondo l’eteronormatività) delle bambine in seno alla famiglia, così come nemmeno identificare i sottili meccanismi di disciplinamento e i dispositivi di controllo contro le corporalità e le potenzialità della bambino nella famiglia. La sua nomenclatura non pretende di arrivare a coprire tutte queste forme di abuso impercettibili (o neanche tanto impercettibili) perché la legge stessa, interiorizzata a sua volta per mezzo dei genitori, le produce, le conforma e le infligge in linea alla statu quo della Modernità. In altre parole, l’abuso del vincolo emozionale tra la creatura umana e i suoi progenitori, intrinseco e indissociabile dalla famiglia, in diversi gradi di agguato e di perpetrazione, possiede l’alibi della necessità fondamentale e indiscutibile della protezione, del rifugio e del riparo della creatura-figlio per molte più ragioni oltre alle sue funzioni fisiologiche. La storia comunque insegna che la famiglia non è qualcosa di inevitabile, quanto piuttosto una struttura contingente e suscettibile di essere modificata e sostituita da altre forme.
Per come la conosciamo la struttura delle relazioni famigliari si erge sotto una petizione di principi (cura, educazione ecc...) volti a proteggere il piccolo individuo umano da violenza e minacce esterne. Questa struttura però, se da una parte produce e riproduce il martirio da cui in teoria – e qui casca l’asino! – vorrebbe protegger(ci), dall’altra pretende di costruirci/soggettivarci come invalide per respingere quell’asservimento che potrebbe eventualmente violare i nostri corpi dall’esterno – ma non solo – in un meccanismo che necessariamente si produce all’interno della struttura familiare con tutta una serie di dispositivi che non analizzeremo qui (volendo solo menzionarne una potremmo partire dal dispositivo della “colpa”...). Tuttavia, come qualunque mente minimamente pensante potrebbe constatare nella sua autobiografia, questo abuso che, come già detto, produce e abilita la condizione di possibilità degli altri abusi ben codificati, non è (non potrebbe ad ogni modo esserlo) riconoscibile secondo gli schemi dell’apparato giuridico statale. Questo diventa tragicamente percettibile solo nei suoi effetti naturalizzati, culminando, nella maggioranza dei casi e per molte persone, nel desiderio di avere uno Stato.
In questo stato delle cose, nonostante la legge, le statistiche dicono che secondo le denunce ogni 48 ore si produce uno stupro nella regione occupata dallo Stato argentino. Oltre il 60%, dicono le cifre ufficiali, avviene all’interno della famiglia. Per lo sdegno delle etero-dame e le buone femministe! Costoro considerano la violenza sessuale come qualcosa di spontaneo e ritengono che sia la cosa peggiore che può capitarci nella vita, perché le sue tracce macchieranno indelebilmente la nostra pelle, marcando un cammino unico nella gestione dei piaceri, quello della normalità e dell’anormalità. Queste donne non sono solite mostrare la loro costernazione davanti alla magnifica rete di violenza e soggettivazione da parte della famiglia. Le stesse voci che si alzano per condannare e chiedere dalla castrazione chimica ai linciaggi pubblici fino alla pena di morte per gli abusatori, mai si fermeranno a pensare alle loro forme di abuso sui propri prigionieri, cioè la loro prole.
Mi riferisco a chi, noi comprese, ha avuto la disgrazia di essere figlia: violenza di genere esclusiva della struttura di relazione chiamata famiglia, che come già abbiamo visto, ci produce per e grazie a un eteroregime di controllo e una disciplina attuale di cui dobbiamo disfarci. Come afferma la specialista universitaria, la Laureata Laura Contrero: “L’asservimento delle sessualità infantili si produce prima che effettivamente sia avvenuto il fatto atteso. Lo sguardo morale e timorato della società benpensante ha generato e continuerà a generare ciò che teme per i suoi teneri frutti. La vigilanza parentale e statale impedisce per sua definizione la produzione di un’autogestione responsabile del proprio corpo infantile... Il pericolo diffuso della sessualità autorizza ogni sorta di controllo e assume contorni definiti: la paura delinea corpi che disconoscono le proprie possibilità di resistenza, come succede tradizionalmente per le donne e lo stupro. Continuare a pensare e produrre l’infanzia come una vittima predestinata della voracità adulta non ha mai salvato nessuno. L’infanzia è sottomessa quotidianamente in diverse forme, qui intervengono questi spazi di sovrapposizione tra genere, sesso, classe e etnia, ed è in questa stessa sottomissione che si producono le soggettività infantili: corpi inermi, esposti a ogni male, bambinx che non conoscono le loro potenzialità né dispongono di questi corpi”. La precarietà affettiva, la mancanza di sostegno, la psico-pazzia permanente, la svalorizzazione delle nostre potenze, la pena e la commiserazione perfino nella vita adulta da parte di padri e madri in tutti i diversi gradi e in tutte le forme, l’annichilimento da parte dell’eteronormalità o famiglia moderna nucleare (o quella alternativa, è lo stesso) non ci commuove più: “abbiamo bisogno della cronaca di qualche crimine sessuale particolarmente cruento,per svegliarci. E ricominciare con l’eterna litania diretta allo Stato di diritto, stato in cui l’interesse del bambino è sempre un re senza corona”.
Tuttavia anche se non è riconosciuto (anzi, intelleggibile) nella codificazione del Codice Penale, un abuso c’è, perché si forza il limite di una relazione di dominazione e di dipendenza fino al limite stesso di quanto è costitutivamente tollerabile. L’abuso infatti, come già abbiamo ripetuto fino all’esaurimento, non dev’essere metalepticamente confuso con l’esercizio delle sue forze, quei delitti nomenclati nella lista reattiva dell’apparato giuridico. Il crimine difatti è previo: sta nell’abuso del vincolo amatorio, abuso e passione della struttura di relazione chiamata famiglia, emblematica dell’eterosessualità come regime politico, contro la quale si scagliava già una lesbofemminista radicale come Shulamith Firestone. Questa metalepsis si produce quando quello stesso soggetto prodotto dal potere è proclamato soggetto con l’autorità di fondare il potere (che l’ha prodotto). Nonostante ciò il processo di assunzione del potere può comportare una modificazione tale che il potere assunto o appropriato finisca attuando contro il potere che rese possibile questa assunzione. È chiaro che, per poter agire, il potere necessita di un soggetto che lo metta in atto, ma questo soggetto non è l’origine del potere. È fondamentale, pertanto, scavare per individuare nella sua causa più in là che nel suo effetto. Questo ragionamento permette di non considerare coloro che abusano come mostri sui generis, per iniziare a vederli come produttori di strutture istituzionali interiorizzate ma contingenti che è necessario distruggere. E soprattutto ci permette di vedere l’abuso primario che ci costituisce in questa violenza originaria, a cui ancora cieche ci introdussero, nell’incubo chiamato società, per potere emergere luminosamente all’allegria dell’esistenza, per poter delle brutture fare meraviglia.
Rimedio per malinconici
Giovanni Rossi
Permetti che io e la mia follia corriamo questo rischio
Antigone
La produzione eterocapitalista infantilizza e subordina le nostre potenze vitali sotto una sceneggiatura che obbliga e FA desiderare un tipo di vita completamente sottomesso. Ci espropria della nostra capacità di formulare dubbi e domande nello spazio schiavizzato della nostra esistenza, in cui al posto dell’allegria del divenire c’è l’idea posticcia di felicità. Il filosofo francese Gilles Deleuze in un testo semplice che cerca di fare un passetto in avanti rispetto alla magnifica tesi di Foucault sulle società della disciplina afferma: “La famiglia è un “interiore” in crisi come tutte le interiorità: scolastica, professionale, ecc... Riformare la scuola, riformare l’industria, l’ospedale, l’esercito, il carcere: tutti sanno che queste istituzioni sono morte, o finiranno a breve di esistere. Si tratta solamente di amministrarne l’agonia e di tenere la gente impegnata fino all’installazione di nuove forze... Sono le società del controllo che stanno sostituendo le società della disciplina”.
Tutte coloro che divento, tutte quelle che avrei potuto essere, sono ridotte a mentire e all’obbedienza dalla famiglia e la sua unità. L’Io tradisce persino nei ricordi, per “amore”, annullando le potenze potenziali, persino l’odio e la rara rabbia di fuoco che abbiamo provato. Questi sono i nuovi meccanismi di controllo che competono e procedono simultaneamente agli imprigionamenti più duri e/o le più oscene sessualità imposte.
Noi postuliamo invece, proprio per far irruzione in quella che è diventata conoscenza fissa, “conoscibile come la nostra realtà”, una richiesta etica primordiale che nessun legame affettivo potrà mai abusare: la vulnerabilità, anche immanente al corpo e al vincolo affettivo/amoroso con altre. L’insieme di schiavi si disgrega attorno a una singolarità che è terreno fertile in cui cresce l’amicizia, l’affinità e l’affettività antisociale che non si basino nel matrimonio o nella coppia come rettori delle sessualità e delle intimità. Trascendere, così, i limiti naturalizzati della famiglia e dalle relazioni eteronormali, che reggono il dover essere della nostra sessualità e della nostra esistenza, che sarà rimpiazzata, non superandola, ma distruggendola con passione, da un’etica non individuale (e allo stesso tempo rispettosa dell’individualità e le sue potenze), un’etica nuova del fare, contro quella della dominazione. Non più figlie di Laio, diventiamo grido di Antigone e smettiamo di essere miti. Senza malinconia, lasciamoci indietro il concetto di “famiglia”, vera relazione sadomasochista, autentico bondage shibari, che, sì! possiamo sciogliere per costruire nuovi legami: esilio famigliare verso l’allegria di vivere senza essere figlx senza essere madri senza possedere nessuno.
[1] Regime eteronormativo: ordine politico che opera come una matrice producendo corpi-desideri.
[2] Sudakalandia è un’espressione orgogliosa e gergale per dire Latinoamerica.