Albert Libertad

Il culto della carogna

1925

    Nota introduttiva alla terza edizione

    Introduzione alla seconda edizione

    Nota

    Il culto della carogna

    Un pregiudizio tenace

    I necrofagi

    I necrofili

    Ai rassegnati

    Il gregge patriottico

    La scuola dell’abiezione

    Sono le reclute che passano

    Carne da macello

    L’uomo e la folla

    Arriva!... Arriva!... L’Alfonso!

    Numero tredici

    Intorno a una morte

    La carne flaccida

    Lo sciopero dei vivi

    La brutalità poliziesca

    Il colera avanza...

    Chiquenaudes e croquignoles

      Distributori automatici

      Piccola storia operaia

      Interessi e capitale...

      Dalla Mansarda al Palazzo

      Ai buoni capomastri

      Il segreto del voto

      I soldati tuttofare

      Il contratto tre-sei-nove

      Le suffragette

      Un rapido “de profundis”

      Il culto della carogna

      Ancora

    Nota storico-biografica

Nota introduttiva alla terza edizione

Ancora una volta un opuscoletto rischioso che proponiamo alla lettura. Perché rischioso? Perché potrebbe essere letto come un inno al semplice fare, all’attacco come che sia, ovunque e sempre, in qualsiasi occasione e contro qualsiasi genere di nemico, vicino o lontano, piccolo o grosso, contrassegnato da una colpa specifica o genericamente appartenente ad un ceto sociale particolarmente infame per i compiti che il potere gli affida. Che poi sarebbe lettura legittima se da sola fosse capace di spingere all’azione. Ma non è così. Privandosi del senno logico che sta dietro i semplici fatti: il paralitico che combatte con gli sbirri e muore sulle scalinate di Montmartre, la vicenda diventa “eroica” e, come tale, entra nel fumetto avventuroso che molti amano leggere sognando cataclismi astrali che nulla hanno a che fare con la lotta nella sua realtà. Ecco il rischio. Prendere in mano un altro dei tanti appelli al cieco fare per il fare, per trovare una nuova medaglietta da appuntarsi al petto, per dire: c’ero anch’io.

L’azione è sposalizio instabile tra pensiero e fare, ma più di tutto è coinvolgimento di se stessi nell’agire, cioè nel trasformare la realtà che ci sta davanti. E questa trasformazione è sempre un nuovo progetto e una nuova realizzazione. Il passato, se ha da dirci qualcosa, non può diventare “una storia”, ma deve impallidire dietro la lettura, offuscarsi per lasciare libero spazio alla coscienza di sé che liberamente decide di attaccare, qui e ora, senza che quella “storia”, anche questa di Libertad, sia altro che un’occasione come un’altra, presto messa da parte e non iconizzata con la meticolosità dell’ortodossia fideista.

Avverso a qualsiasi “storia”, Libertad sarebbe stato il primo a indicare questa chiave di lettura per le sue analisi e le sue azioni. E, in questo modo, non ci sono più rischi. Dalle nebbie di una vicenda appassionante ma estranea, come estranea è qualsiasi “storia”, edificante o meno che sia, affiora così solo la nostra occasione d’agire. E questa occasione è sempre a fianco a noi e, in fondo, non ha affatto bisogno della lettura di questo libricino.

Con buona pace degli intendimenti editoriali.


Trieste 16 ottobre 2001

Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla seconda edizione

La presente raccolta di scritti di Albert Libertad non rende conto in maniera adeguata della figura e dell’azione anarchica di questo lottatore, morto sulle scale di Montmartre nell’ennesimo scontro con la polizia, mentre difendendosi attaccava con le proprie stampelle di paralitico. Non rende conto perché si tratta di parole, di poche parole, quando l’essenza del pensiero di Libertad è tutta, o quasi, nell’azione, nella continua azione di attacco con qualsiasi mezzo contro il nemico.

La sua influenza sulle scelte degli anarchici francesi del suo tempo fu immensa, lo si capisce dal modo in cui le sue tesi vennero accolte: da un canto con l’entusiasmo dei pochi, dall’altro con l’indifferenza dei molti, ma anche, come spesso accade, con l’acredine e il veleno degli imbecilli.

Il passaggio tra le discussioni periodiche che si tenevano nella stessa sede del giornale l’“Anarchie” e gli scontri di piazza era senza soluzione di continuità. Per Parigi di quei tempi erano indicazioni precise, non soltanto sfoghi senza ragione e senza scelta, non tanto moti dell’animo quanto decisioni conseguenti e precisione di riferimenti. Scoprire, anche attraverso la lettura di questi scritti, la tecnica analitica di Libertad è importante, anche come possibile suggerimento per cogliere un modo di comunicazione diretta con la gente, scansando l’ostacolo insormontabile (a volte) di quelle comunicazioni ricche soltanto di luoghi comuni e parole d’ordine che solo pochi iniziati capiscono (e spesso nemmeno loro, come purtroppo si è potuto constatare).

Sarebbe stato di gran lunga più interessante potere usufruire direttamente delle forme linguistiche di Libertad, del suo modo di scrivere pieno di frantumazioni, di parole in argot, di polarità non concluse, di parodie, di spezzettature simboliche, di riferimenti per noi non più comprensibili, di immagini oniriche, di scardinamenti della parola, ecc., tutte cose che una traduzione non può fornire. Ma su questo non possiamo farci niente.

Libertad, insieme ai suoi compagni co-redattori dell’“Anarchie”, parte da accadimenti semplici, quotidiani, fatti di cronaca a volte trascurabili, quasi sempre mistificati dalla grande informazione, oppure del tutto tralasciati, e da questi punti di riferimento periferici, marginali, risale ai grandi problemi della vita, non tanto ai problemi del vivere in società, di quello che una deformazione lessicale chiama “politica”, ma alla vita nel suo significato più profondo, ai desideri degli uomini e delle donne, ai bisogni, alle speranze, ai sogni. Il ragionamento è semplice e immediatamente comprensibile, e se si collega questa tecnica, puntualmente impiegata nel giornale, con i dibattiti periodici, a cui partecipava un gran nunero di persone, si capisce l’influsso che nella Parigi del primo decennio del secolo scorso aveva ogni critica e ogni lotta che gli anarchici riuscivano ad organizzare, specialmente contro l’esercito.

Molti compagni, anche a seguito di esperienze recenti e meno recenti, pensano che la dimensione analitica sia faccenda di secondaria importanza, che quello che conta sia soltanto l’azione, lo scontro in primo luogo, sia avvertire il respiro dell’odiato nemico, individuarlo fra i tanti fantasmi che ci circondano e colpirlo con qualsiasi mezzo. E sbagliano. Il colpire in queste condizioni è quasi sempre un vano dibattersi.

Molti altri pensano che l’analisi sia necessaria, anzi indispensabile, ma sia faccenda di estrema difficoltà perché fondata su uniformità ed esattezze che solo a pochi è dato cogliere, quindi non realizzabile da tutti, delegabile pertanto soltanto a pochi capaci di realizzarla, per cui finiscono per sentirla come faccenda estrema, anche quando per loro avventura gli capita fra le mani qualcosa che lontanamente ad un’analisi somiglia. E sbagliano. Il capire in queste condizioni è un inutile equivoco con se stessi. Lo stesso agire finisce per somigliare molto ad un continuo rinvio in attesa di chiarimenti.

Libertad fu uno di quei compagni che ammirevolmente seppero fondere insieme l’analisi, semplice e immediata, con l’azione, sempre efficacemente collegata con i presupposti analitici, mai fine a se stessa o banale attestazione d’esistenza in mancanza d’altro. Non riproponiamo questo libretto per suggerire un modello da impiegare a colpo sicuro, per altro siamo radicalmente contrari ai modelli, e anche i tempi sono radicalmente cambiati rendendo impossibile, tanto per limitarci a un esempio, una realtà come quella delle “Causeries populares” di rue Chevalier-de-la-Barre, ma riteniamo importante riflettere su alcuni temi che spesso sfuggono all’attenzione, o vengono considerati di secondaria importanza. Valga l’esempio della “carogna” e di quanta preoccupazione si prendono i compagni non solo della propria “carogna”, prenotando posti in questo o quel cimitero più o meno connotato come “anarchico”, o lasciando indicazioni esplicite sulla destinazione della suddetta “carogna” o sul modo di inumarla. Evidentemente molte delle nostre preoccupazioni personali muoiono parecchio tempo dopo che abbiamo tirato le cuoia. Ma è solo un esempio.

In fondo la lotta è legata ai vari problemi sui quali riusciamo a condurla. Può svilupparsi o miseramente annegare a seguito di nostre scelte, trovare risposte e colpire il nemico, come pure diventare occasione solo per ascoltare la nostra voce, tanto per dirci di essere ancora in vita.

Con buona pace del nemico.


Trieste, 4 febbraio 2001

Alfredo M. Bonanno

Nota

La versione de Il culto della carogna, qui presentata, apparve ne “La Brochure mensuelle” nel 1925. Eccetto la fine dell’articolo che porta questo titolo, che è stata inserita nel testo stesso, diamo tra parentesi quadre i diversi passaggi degli articoli originari componenti l’opuscolo e che non sono stati conservati.

Il culto della carogna

In un desiderio di vita eterna, gli uomini hanno considerato la morte come un passaggio, come una tappa dolorosa e si sono inchinati davanti al suo “mistero” fino a venerarla.

Ancor prima che gli uomini sapessero lavorare la pietra, il marmo, il ferro per ripararsi, essi sapevano utilizzare queste materie per onorare i morti.

Le chiese e i chiostri, sotto le loro absidi e nei loro corpi proteggevano riccamente le tombe, allorché i vivi erano protetti miseramente da capanne di paglia.

Il culto dei morti ha, sin dagli albori, frenato l’evoluzione degli uomini. Esso è il “peccato originale”, il peso morto, la palla che l’umanità trascina con sé.

Contro la voce della vita universale, sempre in evoluzione, ha tuonato la voce della morte, la voce dei morti.

Geova, che migliaia di anni fa l’immaginazione di un Mosè fece sorgere dal Sinai, detta ancora le sue leggi; Gesù di Nazareth, morto da circa venti secoli, predica ancora la sua morale; Budda, Confucio, Lao-Tze, fanno ancora regnare la loro Saggezza. E quanti altri ancora!

Portiamo su di noi la pesante responsabilità dei nostri avi, ne abbiamo le “tare” e le “qualità”.

In Francia, siamo i figli dei Galli, quantunque siamo francesi per i Franchi e di razza latina quando si tratta del secolare odio contro i Tedeschi. Ognuna di queste eredità ci porta dei doveri.

[Siamo i figli maggiori della Chiesa per volontà di non si sa quali morti e anche i piccoli figli della Rivoluzione. Siamo i cittadini della terza Repubblica e siamo anche devoti del Sacro Cuore di Gesù. Nasciamo cattolici o protestanti, repubblicani o monarchici, ricchi o poveri. Siamo sempre in virtù dei morti, non siamo mai niente per noi. I nostri occhi, piazzati in cima al nostro corpo, guardano avanti, hanno un bel dirigerci in avanti, è sempre verso il suolo dove riposano i morti, verso il passato dove hanno vissuto i morti, che la nostra educazione ci permette di dirigerli. – “L’Anarchie”, n. 134, 31 ottobre 1907].

I nostri antenati..., il Passato..., i Morti...

I popoli sono morti di questo triplice rispetto.

La Cina è ancora allo stesso stadio di migliaia di anni fa perché ha conservato ai morti il posto principale.

Il morto non è solamente un germe di corruzione in seguito alla disgregazione chimica del suo corpo che avvelena l’atmosfera, lo è ancora di più per la consacrazione del passato, per l’immobilizzazione dell’idea ad uno stadio dell’evoluzione. Vivendo, il suo pensiero si sarebbe evoluto, sarebbe andato più avanti. Morto, esso si cristallizza. Ed è esattamente questo il momento che i vivi scelgono per ammirarlo, per santificarlo, per deificarlo.

Dall’uno all’altro, nella famiglia, si tramandano gli usi e i costumi, gli errori ancestrali. Si crede al dio dei padri, si rispetta la patria dei propri avi ... Perché non rispettiamo il loro modo di farsi luce e di vestire?

Sì, si produce il fatto strano che allorquando l’esteriore, l’economia quotidiana si migliora, si cambia, si differenzia, in quanto tutto muore e tutto si trasforma, gli uomini, lo spirito degli uomini, resta nello stesso servaggio, si mummifica negli stessi errori.

Nel secolo dell’Elettricità, come nel secolo della Torcia, l’uomo crede ancora al Paradiso di domani, agli dèi della vendetta e del perdono, agli inferni e al Walhalla al fine di rispettare le idee dei suoi antenati. I morti ci dirigono; i morti ci comandano, i morti prendono il posto dei vivi.

Tutte le nostre feste, tutte le nostre glorificazioni, sono anniversari di morti e di massacri. Si fa la festa di Ognissanti per glorificare i santi della Chiesa; la festa dei morti per non dimenticare alcun morto. I morti se ne vanno all’Olimpo o al Paradiso alla destra di Giove o di Dio. Riempiono lo spazio “immateriale” e ingombrano lo spazio “materiale” con cortei, esposizioni e cimiteri. Se la natura non si incaricasse, essa stessa, di decomporre i loro corpi e di disperdere le loro ceneri, i vivi non saprebbero ora dove poggiare i piedi nella vasta necropoli che sarebbe la Terra.

La memoria dei morti, dei loro accadimenti e delle loro gesta, ostruisce il cervello dei bambini. Non si parla loro che di morti, non si deve parlare loro che di questo. Li si fa vivere nel campo dell’irreale e del passato. Loro non devono sapere niente del presente.

Se il Laico ha abbandonato la storia di Noè o quella di Mosè, l’ha rimpiazzata con quella di Carlomagno o di Capeto. I bambini conoscono la data di morte di Fredegonda, ma ignorano le più piccole nozioni di igiene. Vi sono ragazze di quindici anni le quali sanno che in Spagna una Isabella restò per tutto un lungo secolo con la stessa camicia, ma sono stranamente spaventate quando arrivano le mestruazioni.

Vi sono donne che potrebbero recitare la cronologia dei re di Francia sulla punta delle dita senza un errore di data ma che non sanno quali cure apprestare al neonato che getta il suo primo vagito.

Allora, che si lasci la ragazza presso colui che muore, che agonizza, la si allontani con ogni cura da colei dal cui ventre sta venendo fuori la vita.

I morti ostruiscono le città, le strade, le piazze. Li incontriamo in marmo, in pietra, in bronzo; questa iscrizione ci dice la loro nascita, quest’altra la loro dimora. Le piazze portano i loro nomi o quello delle loro imprese. Il nome della strada non indica la sua posizione, la sua forma, la sua altitudine, il posto, parla solo di Magenta o di Solferino, un’impresa di morti dove si è molto ucciso; vi ricorda sant’Eleuterio o il cavaliere de la Barre, uomini la cui sola qualità fu quella di morire.

Anche nella vita economica, sono i morti a tracciare la vita di ciascuno. L’uno vede la sua vita oscurata dal “crimine“ di suo padre, l’altro è inondato dall’aureola di gloria del genio e dell’audacia dei suoi avi. Tale nasce zotico anche se ha lo spirito più distinto; talaltro nasce nobile ed ha lo spirito grossolano. Non si è niente in quanto se stessi, tutto viene dai propri avi.

Cos’è la morte agli occhi della critica scientifica? Questo rispetto per gli scomparsi, questo culto della decrepitezza, attraverso quali argomenti possono giustificarlo? Ma poca gente se lo è chiesto e la questione non è risolta.

Vediamo attorno alle città grandi spazi che i vivi curano pietosamente: sono i cimiteri, i giardini dei morti.

I vivi amano sotterrare, proprio accanto alle culle dei loro bambini, ammassi di carne in decomposizione, elementi nutritivi di tutte le malattie, campi di coltura di tutte le infezioni.

Essi consacrano grandi spazi con magnifici alberi per deporvi un corpo tifoide, appestato, carbonchioso, a uno o due metri di profondità; e i virus infettivi, in capo a qualche giorno, gironzolano per la città alla ricerca di nuove vittime.

Gli uomini che non hanno alcun rispetto per il loro organismo vivente, che affaticano, che avvelenano, che mettono a repentaglio, hanno, tutto ad un tratto, un comico rispetto per la loro spoglia mortale, quando bisognerebbe che se ne sbarazzassero al più presto, disponendola sotto la forma meno ingombrante e più utilizzabile.

Il culto dei morti è una delle più grossolane aberrazioni dei vivi. È un residuato delle religioni promettenti il paradiso. Bisogna preparare i morti per la visita dell’aldilà, mettere delle armi perché possano prendere parte alle cacce del Velléda, qualche nutrimento per affrontare il viaggio, dar loro il supremo viatico e prepararli a presentarsi davanti a Dio.

[Le religioni se ne vanno, ma restano le loro ridicole forme. I morti prendono il posto dei vivi. – “L’Anarchie”, n. 82, 1 novembre 1906].

Operai e operaie impiegano le loro facoltà, la loro energia a portare avanti il culto dei morti. Uomini scavano la terra, tagliano la pietra e il marmo, forgiano cancelli, preparano per essi tutta una casa, al fine di sotterrarvi rispettosamente la carogna sifilitica che è appena morta.

Donne tessono il sudario, fanno fiori artificiali, preparano corone, confezionano mazzi di fiori per ornare la casa dove riposerà l’ammasso in decomposizione del tubercolotico che ha chiuso la sua vita. Invece di affrettarsi a far sparire questi focolai di corruzione, di impiegare tutta la velocità e tutta l’igiene possibile per distruggere questi cattivi nuclei la cui conservazione non può che portare la morte attorno ad essi, ci si dà da fare per conservarli il più a lungo possibile, si portano a spasso questi mucchi di carne in speciali vagoni, carri funebri, per le strade, fuori e dentro le città. Al loro passaggio, gli uomini si scoprono. Essi rispettano la morte.

Per mandare avanti il culto dei morti, la somma di sforzi, di materiali che l’umanità consuma è inconcepibile. Se si impiegassero tutte queste forze ad aver cura dei bambini, migliaia e migliaia di essi sarebbero preservati dalla malattia e dalla morte.

Se questo imbecille rispetto dei morti sparisse per lasciar posto al rispetto dei vivi, la vita umana ne guadagnerebbe in felicità e salute in proporzioni inimmaginabili.

Gli uomini accettano l’ipocrisia dei necrofagi, di coloro che mangiano i morti, di coloro che vivono della morte [nell’articolo de “l’Anarchie” utilizzato per questa parte dell’opuscolo, Libertad scriveva: “Israél ha mostrato i necrofagi, coloro che mangiano i morti”, facendo allusione a un testo di Léon Israél apparso precedentemente sul giornale sotto il titolo I Necrofagi. – ndr.], dal curato donatore di acqua benedetta, fino al mercante di terreno per le tombe; dai mercanti di corone, agli scultori di angeli funebri. Con ridicole casse condotte e accompagnate da grotteschi burattini, si procede al trasporto di questi detriti umani e alla ripartizione secondo il loro stato di fortuna, quando sarebbe sufficiente un buon sistema di trasporto, delle macchine ermeticamente chiuse e un forno crematorio, costruito secondo le ultime scoperte scientifiche.

[Non mi preoccuperò dell’impiego di queste ceneri, quantunque mi sembrerebbe più interessante utilizzarle come humus invece che portarle in giro in piccole scatole. Gli uomini si lamentano del lavoro e non vogliono semplificare i gesti troppo complicati in quasi tutte le occasioni della loro esistenza, e neanche sopprimere quelli che fanno per l’imbecille e pericolosa conservazione dei loro cadaveri. Gli anarchici rispettano troppo i vivi per rispettare i morti. Ci auguriamo il giorno in cui questo culto, desueto, diverrà un servizio di nettezza urbana, ma in cui, per contro, i vivi conosceranno la vita in tutte le sue manifestazioni. – “L’Anarchie”, n. 82, 1° novembre 1906].

L’abbiamo detto: è solo perché gli uomini sono ignoranti che essi continuano a circondare con questi scimmiottamenti del culto un fenomeno così semplice qual è quello della Morte.

D’altronde notiamo che si tratta solo della Morte umana, la morte degli altri animali e quella dei vegetali non è occasione di simili manifestazioni. Perché?

I primi uomini, bruti appena evoluti, vuoti di ogni conoscenza, sotterravano insieme al morto la sua sposa viva, le sue armi, i suoi mobili, i suoi gioielli. Altri facevano comparire il “morto” davanti a un tribunale per chiedergli conto della sua vita. In ogni tempo gli uomini hanno ignorato il vero significato della morte.

Ma, nella natura, tutto ciò che vive muore. Ogni organismo vivente è in pericolo quando per una ragione o per un’altra l’equilibrio fra le sue differenti funzioni si rompe. Si determinano molto scientificamente le cause della morte, le devastazioni della malattia o l’accidente che ha prodotto la morte dell’individuo.

Dal punto di vista umano, si ha dunque la morte, scomparsa della vita, cioè cessazione di una certa attività sotto una certa forma.

Ma dal punto di vista generale, la morte non esiste. Non vi è che la vita. Dopo ciò che noi chiamiamo morte, il fenomeno della trasformazione continua. L’ossigeno, l’idrogeno, il gas, i minerali vanno, sotto forme diverse, ad associarsi in nuove combinazioni contribuendo all’esistenza di altri esseri viventi. Non vi è morte, vi è circolazione dei corpi, modificazione negli aspetti della materia e dell’energia, continuazione incessante nel tempo e nello spazio della vita e dell’attività universale.

Un morto è un corpo reso alla circolazione sotto la sua triplice forma: solida, liquida e gassosa. Non è altro, e noi dobbiamo considerarlo e trattarlo come tale. È evidente che queste concezioni positive e scientifiche non lasciano posto alle speculazioni piagnucolose sull’anima, l’aldilà, il nulla.

Ma sappiamo che tutte le religioni predicatrici della “vita futura” e del “mondo migliore” hanno lo scopo di suscitare la rassegnazione fra coloro che vengono spogliati e sfruttati.

Piuttosto che inginocchiarsi presso i cadaveri, conviene organizzare la vita su basi migliori per trarne il massimo di gioia e di benessere.

La gente si indignerà per le nostre teorie e per il nostro disdegno; pura ipocrisia da parte loro. Il culto dei morti non è che un oltraggio al vero dolore. Il fatto di coltivare un piccolo giardino, di vestirsi di nero, di portare il lutto, non prova la sincerità del dolore. Quest’ultimo deve d’altronde sparire, gli individui devono reagire di fronte alla fatalità della morte. Si deve lottare contro la sofferenza invece di esibirla, di portarla a spasso in grottesche cavalcate e menzognere condoglianze.

Il tale segue rispettosamente un carro funebre e si accanisce a diffamare il defunto, il talaltro si lamenta appresso ad un cadavere e non ha fatto niente per venirgli in aiuto quando probabilmente poteva fare ancora in tempo a salvargli la vita. Ogni giorno, la società capitalista semina la morte, con la sua cattiva organizzazione, con la miseria che crea, con la mancanza d’igiene, le privazioni e l’ignoranza di cui soffrono gli individui. Sostenendo una tale società, gli uomini sono dunque la causa della loro stessa sofferenza e, invece di gemere davanti al destino, farebbero meglio a lavorare per migliorare le condizioni di esistenza in modo che la vita umana si sviluppi al suo massimo grado e alla sua massima intensità.

Come si può conoscere la vita se essa è diretta solo dai morti?

Come si può vivere il presente sotto la tutela del passato?

Se gli uomini vogliono vivere non devono più avere rispetto dei morti, devono abbandonare il culto della carogna. I morti sbarrano ai vivi la strada del progresso.

Bisogna abbattere le piramidi, i tumuli, le tombe; bisogna passare l’aratro nel chiuso dei cimiteri alfine di sbarazzare l’umanità di quello che si chiama il rispetto dei morti, di quello che è il culto della carogna.

Un pregiudizio tenace

Alla fine di giungo, navi da guerra partirono dall’America per rimpatriare i resti dell’ammiraglio Paul Jones. (I giornali)

È dall’America che ci arriva questa notizia, dall’America! il paese di Franklin e di altri tanti illustri sapienti, il paese del vapore, dell’elettricità, di tutte le nuove invenzioni.

I “civilizzati Stati Uniti” non hanno niente da invidiare alla “barbara” Spagna né alla “pietosa Francia”; là, come qui, i cervelli sono pregni dei più sciocchi e peggiori pregiudizi.

Uomini saranno mobilitati, battelli pronti a salpare, un immenso lavoro sarà compiuto per coprire i 6.000 chilometri che ci separano dall’America, senza contare tutte le cerimonie protocollari e diplomatiche che dovranno compiersi seguendo il rito abituale e con il concorso di numerosi e importanti notabili.

E perché tutti questi sforzi? Per soccorrere un essere umano separato dai suoi simili e salvargli la vita? Per tentare una scoperta utile al progresso dell’umanità? Per trasportare roba da mangiare? – No! Per andare alla ricerca di qualche osso e di un po’ di polvere da potere tenere nelle mani, e che sarebbe molto più giusto depositare nella prima “pattumiera” che si incontra. E, se dopo trovate che gli uomini del XX secolo non sono illuminati, confessate di avere cattiva volontà!

Gli Americani, che vegetano penosamente nella miseria e sotto il dispotismo dei grossi miliardari, si sentiranno sollevati vedendo presso di loro i resti dell’ammiraglio Jones, lo stesso i Francesi per quelli di Napoleone o di Giovanna d’Arco e i Tedeschi per quelli di Guglielmo o di Bismarck.

Patriottismo, Religione, Stupidaggine, indissolubile trinità!

[Un anno più tardi, Libertad aggiungerà a quest’articolo di Lorulot la seguente nota: «Ricordate che circa un anno fa Lorulot vi parlava dei funerali di un certo signor Jones, scozzese, che il suo patriottismo faceva sentire americano, e il cui mestiere consisteva nel lavorare nell’acqua, come magnaccia o come ammiraglio, non so troppo bene. Ma questo non era che l’inizio della cerimonia. Dopo l’invio di una corazzata americana per trasportare la carogna di Jones al di là del mare, ecco che il governo francese decide lo spostamento di una intera corazzata per assistere ad un’altra manipolazione di questa carogna. Due constatazioni si impongono: in America non esiste il buongusto e il carbone non costa caro in Francia». “L’Anarchie”, n. 52, 5 aprile 1906. – ndr.].

È veramente scoraggiante constatare ancora la tenacia del pregiudizio del rispetto dei morti, diffuso anche presso i cosiddetti “liberi pensatori” e presso i “libertari” allo stesso modo che fra i cattolici praticanti e altre sette religiose.

Quale differenza trovate fra il trasporto delle ceneri dell’ammiraglio Jones o di Napoleone I e i funerali di Louise Michel? Nessuna, salvo, può essere, la distanza e la pompa impiegata. Ma chi ci dice che se la “Vergine rossa” fosse morta a New York non l’avrebbero riportata fino a Levallois-Perret? La Parigi rivoluzionaria avrebbe saputo fare il suo dovere, perché se Jones appartiene agli Stati Uniti, Louise Michel appartiene alla “Causa” e alla Francia.

Può essere si tratti del fatto che coloro che si pretende siano emancipati lo sono così poco che la massa resta in una così grande ignoranza. Ecco perché credo bene attaccare, in ogni circostanza, il culto della morte e dimostrare la sua origine puramente metafisica. Per questo, tutti i mezzi sono utili, dal rifiuto di scoprirsi davanti al carro funebre all’abbandono della cura delle tombe e soprattutto la propaganda di idee sane e scientifiche, delle teorie del trasformismo della sostanza, al fine di condurre i cervelli a una ragionevole concezione della vita e della sua evoluzione.

Allora spariranno le corone, le tombe e i cimiteri, e i loro costosi apparati. Gli uomini non avranno più paura della morte avendone compresa e accettata la filosofia, e si applicheranno a vivere sanamente e utilmente.

Noi, che abbiamo troppo vissuto nel Nulla e nell’Aldilà, applichiamoci a vivere nella realizzazione sempre più completa del nostro “Io” liberato dagli errori passati e presenti.


25 maggio 1905

André Lorulot

I necrofagi

De profundis!

Sotto i salici e i cipressi, novembre porta ombre silenziose che, lentamente, se ne vanno fra le tombe: donne nascoste sotto lunghi veli neri, borghesi dall’aria grave, operai raccolti tengono in mano il modesto mazzo di fiori o la corona che non appassisce.

I sopravvissuti ricordano.

Nelle loro bare, vestigia dalla forma umana sussultano liete: è il giorno della loro festa!

...

Nella chiesa vicina, i muti penitenti si inginocchiano con umiltà, le mani giunte, il pensiero perduto... Dall’alto del suo pulpito il pastore nero, cauto e nasale, recita con tono monotono la preghiera dei defunti, senza inflessione di voce. Sempre salmodiando, evoca il fuoco dell’Inferno.

Lo spettro della Morte invade la grande sala nella semioscurità delle vetrate e alla luce vacillante delle candele. Un brivido di terrore passa sulla folla dei fedeli prosternati.

L’incenso esala come un odore di niente; il luogo divino dà il primo senso del sepolcro!...

Preghiamo, fratelli! Salutiamo!

Il nostro regno non è di questo mondo!...

Beati pauperes spiritu. Amen!

...

Il bettoliere abbrutisce coloro che la religione dimentica. Il ricordo è pretesto ai bevitori. Si vantano, tra due grandi sorsate di alcol, le qualità del defunto di cui si sta onorando la memoria. Non si ricordano mai i vizi dello scomparso.

Rispettiamo i Morti!

La Morte, nel nostro secolo di scienza, di igiene e di progresso, nutre un nucleo di parassiti: necrofori, corvi, avvoltoi, iene e sciacalli.

Il curato, mercanteggiando, vende oremus. Se ne hanno a seconda delle proprie possibilità economiche. “San Giuseppe” o “Nostra Signora” sono invocati secondo la parrocchia o la tariffa.

È da un banco di vendita che parte la scala del pulpito.

I ceri, che piangono lagrime di sego, fanno andare in fumo i soldoni delle buone “anime” ingenue.

Il mercante di corone si affligge per la “stagione morta”. Presto, che arriva l’autunno e Ognissanti!

Lo stampatore di lutti, il mercante di veli, i tintori cui si porta a tingere l’unica gonna scarlatta, le imprese di pompe funebri con i loro paramenti neri, i cocchieri di carri funebri, il cui travestimento rassomiglia a quello dei domestico, del gendarme, del napoleone...

... Costoro sono interessati a festeggiare i Morti.

Vediamo adesso la clientela afflitta: il grosso negoziante esperto in biacca, che non intravede nei suoi sogni beati, attraverso il fumo blu del suo sigaro, la lunga teoria delle sue vittime, fantasmi affetti da saturnismo e necrotizzati, intossicati, scheletriti, che si torcono dal dolore, rotolando e fuggendo in una macabra sarabanda; il bruto sottufficiale, che attende il segnale per il macello che gli assicurerà l’avanzamento e che non sogna altro che ecatombi; l’impiegato al ministero, che spia la “fine” del capo con cui condivide il posto e che mentalmente invia ad patres; il falsificatore di derrate alimentari; truccatore di pesci avariati, di dolci avvelenati; venditore di latte battezzato o adulterato che accresce in proporzioni considerevoli la mortalità infantile; i proprietari di locali insalubri, a Ménilmontant... e altrove, dove si accalcano non si sa come tanti poveri piccoli marmocchi anemici, atrofizzati, o periscono prima del termine tante vite miserabili rose dalla tubercolosi e dalle privazioni; tutti versano, una a una, le perle del loro rammarico, le loro lacrime di coccodrillo.

Ecco il previdente, il mutualista, l’onest’uomo per eccellenza, uno dei 50.000 soddisfatti del banchetto-reclame. Costui ha acquistato in vitalizio una casa modesta. A partire da allora spera ansiosamente la “disgregazione” del proprio beneficiario della rendita che s’intestardisce a non voler fare il suo ultimo viaggio. I suoi giorni, le sue notti sono assaliti da questa ricorrente ossessione: “Il vecchio, dunque, non crepa ancora!...”.

Questo è il simbolo del tipo sociale contemporaneo.

La concorrenza è dappertutto; dappertutto si desidera la scomparsa di un vicino. A volte, l’intensità del desiderio supera la volontà vacillante, l’attiva.

Ecco allora sopraggiungere della gente! Legislatori, giudici, carcerieri, sbirri e boia. La porta della prigione stride, la ghigliottina è in funzione!

La banda riceve il suo salario.

Non è uno sporco mestiere.

Dai tumuli preistorici, ai sarcofagi e al mausoleo di Alicarnasso, una delle sette meraviglie del mondo, fino alle moderne tombe di famiglia, i monumenti funerari attestano la persistenza del culto della Morte.

Ancora oggi, le donne si segnano devotamente e gli uomini si scoprono al passaggio di una spoglia mortale.

Le classi dirigenti non hanno il monopolio dell’ipocrisia, il “proletariato” disputa loro questo privilegio.

Tutti gli incoscienti, tutti i mediocri, lettori di storie illustrate, che si rifanno al teatro di de Lorde e al romanzo di appendice di Decourcelle, che palpitano agli incidenti, agli stupri, agli omicidi, ai suicidi, portano anch’essi il loro contributo alla costernazione commemorativa.

Il gusto dell’orribile, l’amore del tragico non escludono lo spirito tradizionale.

Nell’ambiente dei miseri e dei sofferenti, tra i gemiti e i singhiozzi, mentre attorno a noi cadono sfiniti, uccisi, i compagni vinti, affermiamo la nostra volontà di vivere.

La vita è bella e buona!

Solo l’ignoranza, la brutalità ci intralciano, ci schiacciano e ci rendono dolorosa l’esistenza.

Al macello, ipocriti, mentitori, stanchi e rassegnati! Non impedite con i vostri ridicoli gesti e le vostre passività lo sbocciare delle energie che si risvegliano.

Al macello! Che le vostre meschine carcasse se ne vadano in fumo nei campi vicini; che le vostre “pallide ossa” restituite alla terra facciano sbocciare il dolce fiore che i bambini e gli amanti in festa coglieranno. Lasciateci preparare il tempo in cui non vi sarà più né legge né repressione e in cui gli inverni, oggi mortali, non saranno più che un’eterna primavera, per la gioia di vivere degli umani liberati.


2 novembre 1905

Léon Israël

I necrofili

Mentre gli umani riposano, i ricchi in un tranquillo far niente, i poveri in un sonno fatto di stanchezza e di sfinimento, dalle viscere della terra sale un urlo sinistro. Con convulsioni titaniche, la terra apre abissi giganteschi, scuote il grappolo umano abbarbicato al suo fianco. Con una grandiosa rivolta, si sbarazza dell’uomo parassita che vive d’essa e per essa. E tutto ciò che i Pigmei costruirono crolla come un castello di carte. Terribile, egualitaria, essa livella le classi fittizie create dagli uomini lamentosi. Il palazzo crolla come la catapecchia, l’opulenza si mischia con la miseria, il padrone lascia la vita fianco a fianco con lo schiavo.

... Il terremoto ha appena distrutto Messina.

E improvvisamente, ecco che i necrofili sorgono ...

Ecco, cinici e nauseabondi, i corvi sociali che si abbattono sulle macerie.

Ecco, ipocriti e astuti, gli impostori che inviano condoglianze e spargono l’acqua benedetta di una solidarietà di paccottiglia.

Re e papi, ministri, speculatori piangono sulla città morta.

Accanto all’articolo sul mantenimento della pena di morte, i giornali riportano “appelli lacrimosi e singhiozzi... a tre soldi il rigo”.

E i semplici sentono sorgere dentro di loro i princìpi innati della fraternità, seppelliti sotto il peso di cento secoli di lotta implacabile e feroce.

Per svegliare gli uomini occorrono scosse violente e brutali. Occorrono i due morti di Draveil e i cinque di Villaneuve-Saint-Georges.

La guerra sociale, atroce, cronica, non li commuove.

E tuttavia, cosa sono i 50.000 morti della Martinica, i 200.000 di Messina, i 600.000 della Manciuria accanto a tutti quelli che la miseria falcia ogni giorno?

Quale paragone si può fare fra questa fine rapida, immediata, imprevista, e la lenta agonia di milioni di uomini, il doloroso calvario, l’allucinante Golgota che pesa sull’Umanità?

Cosa interessa a me dei terremoti e delle mareggiate! Che m’importa del fulmine rapido e della guerra sanguinosa! La guerra non è sempre presente? La morte non si trova ad ogni crocevia?

I pidocchiosi delle Asturie vivevano di sudiciume e di abiezione, i calabresi scheletriti gioivano per due soldi di maccheroni quotidiani.

E ora, che il movimento sismico ha affrettato il lavoro della fame e dei pidocchi, i necrofili si lamentano come antiche prefiche.

Le maschere carnevalesche delle ragazzine di dodici anni cui la necrosi fosforica ha divorato le unghie e i capelli, le teorie dantesche delle vittime della biacca, gli occhi corrosi dei manipolatori di mercurio, la spaventosa agonia dei vetrai nei forni delle fabbriche, le laide purulenze della sifilide, i cancri sanguinolenti che attendono la povera figlia all’angolo della strada, la diarrea infantile che il lattaio porta con il latte aggiungendo a questo l’acqua impura, la tisi e la tubercolosi che abitano i tuguri, il freddo che stende l’uomo sulla strada deserta, la fame che, prima di ucciderlo, dipinge sulla sua pelle le livide tinte della decomposizione cadaverica, i miasmi deleteri, gli sbirri, i germi infettivi; tutto ciò che costituisce il marciume sociale, la morte sotto tutti i suoi aspetti, la tortura, l’angoscia, l’usciere, il proprietario, il padrone, il giudice e la ghigliottina; tutto ciò che uccide, tutto ciò che assassina, tutto ciò che martirizza, tutte le potenze coalizzate dal male che sterminano ogni giorno migliaia di individui, tutto questo non conta.

Occorre che un fenomeno brutale uccida collettivamente perché si elevino i gemiti, perché i cuori degli uomini si commuovano, perché l’attenzione si fermi sulla lotta fratricida e universale.

E ancora, questa emozione non dura che un minuto e svanisce nel Requiescat in pace delle cattedrali.

Gli uomini non comprendono che non vi è cataclisma più mortale della società attuale? Che non vi sono morti più numerosi di quelli che cadono ogni giorno, vittime della guerra interumana, della lotta incessante e senza pietà che è stata chiamata con una terribile parola: concorrenza?

Gli uomini non comprendono la responsabilità che hanno in questa ecatombe, visto che sono le loro gesta, cattive, false, inette, che determinano le mostruose organizzazioni che li uccidono?

Gli uomini non comprendono la puerilità delle loro condoglianze, e non cesseranno di essere dei necrofili, degli amici della morte, per venire insieme a noi, a distruggere il macello sociale, per venire insieme a noi, che siamo gli amici della Vita?


14 gennaio 1909

Mauricius

Ai rassegnati

Odio i rassegnati!

Odio i rassegnati, come odio i sudici, come odio i fannulloni.

Odio la rassegnazione!

Odio il sudiciume, odio l’inazione.

Compiango il malato curvato da qualche febbre maligna; odio il malato immaginario che un po’ di buona volontà rimetterebbe in piedi.

Compiango l’uomo incatenato, circondato da guardiani, schiacciato dal peso del ferro e del numero.

Odio il soldato curvato dal peso di un gallone o di tre stellette; i lavoratori curvati dal peso del capitale.

Amo l’uomo che esprime il suo pensiero nel posto in cui si trova; odio il votato alla perpetua conquista di una maggioranza.

Amo il sapiente schiacciato sotto il peso delle ricerche scientifiche; odio l’individuo che china il suo corpo sotto il peso di una potenza sconosciuta, di un X qualsiasi, di un Dio.

Odio tutti coloro che cedendo ad altri per paura, per rassegnazione, una parte della loro potenza di uomini non solamente si schiacciano, ma schiacciano anche me, quelli che io amo, col peso del loro spaventoso concorso o con la loro inerzia idiota.

Li odio, sì, io li odio, perché lo sento, io non mi abbasso sotto il gallone dell’ufficiale, sotto la fascia del sindaco, sotto l’oro del capitale, sotto tutte le morali e le religioni; da molto tempo so che tutto questo non è che una indecisione che si sbriciola come vetro ... Io mi curvo sotto il peso della rassegnazione altrui. Odio la rassegnazione!

Amo la Vita.

Voglio vivere, non meschinamente come coloro che si limitano a soddisfare solo una parte dei loro muscoli, dei loro nervi, ma largamente soddisfacendo sia i muscoli facciali che quelli dei polpacci, la massa dei miei reni come quella del mio cervello.

Non voglio barattare una parte dell’oggi con una parte fittizia del domani, non voglio cedere niente del presente per il vento dell’avvenire.

Non voglio curvare niente di me sotto le parole Patria – Dio – Onore. Conosco troppo bene il vuoto di queste parole: spettri religiosi e laici.

Mi burlo delle pensioni, dei paradisi, sotto la cui speranza religioni e capitale tengono nella rassegnazione.

Rido di tutti coloro che accumulano per la vecchiaia e si privano nella gioventù; di coloro che, per mangiare a sessanta, digiunano a vent’anni.

Io voglio mangiare quando ho i denti forti per strappare e triturare grossi pezzi di carne e frutti succulenti, e voglio farlo quando i succhi del mio stomaco digeriscono senza alcun problema; voglio soddisfare la mia sete con liquidi rinfrescanti o tonici.

Voglio amare le donne, o la donna secondo come converrà ai nostri comuni interessi, e non voglio rassegnarmi alla famiglia, alla legge, al Codice, nessuno ha diritti sul nostro corpo. Tu vuoi, io voglio. Burliamoci della famiglia, della legge, antica forma della rassegnazione.

Ma non è tutto: io voglio, poiché ho gli occhi e le orecchie, oltre che mangiare, bere e fare l’amore, godere sotto altre forme. Voglio vedere le belle sculture, le belle pitture, ammirare Rodin o Manet. Voglio ascoltare le migliori opere di Beethoven o di Wagner. Voglio conoscere i classici della Commedia, conoscere il bagaglio letterario e artistico che è servito per unire gli uomini passati ai presenti o meglio conoscere l’opera sempre in evoluzione dell’umanità.

Voglio gioia per me, per la compagna scelta, per i bambini, per gli amici. Voglio una casa dove poter riposare gradevolmente i miei occhi alla fine del lavoro.

Poiché io voglio anche la gioia del lavoro, questa gioia sana, questa gioia forte. Voglio che le mie braccia adoperino la pialla, il martello, la vanga o la falce.

Voglio essere utile, voglio che noi tutti siamo utili. Voglio essere utile al mio vicino e voglio che il mio vicino mi sia utile. Desidero che noi operiamo molto perché la mia necessità di godere è insaziabile. Ed è perché io voglio godere che non sono rassegnato.

Sì, sì, io voglio produrre, ma voglio godere; voglio impastare la farina, ma mangiare il miglior pane; fare la vendemmia, ma bere il miglior vino; costruire la casa, ma abitare nei migliori appartamenti; fare i mobili, ma possedere anche l’utile, vedere il bello; voglio fare dei teatri, tanto vasti, per condurvi i miei compagni e me stesso.

Voglio prendere parte alla produzione, ma voglio prendere parte al consumo.

Che gli uni sognino di produrre per altri a cui lasceranno, oh ironia, la parte migliore dei loro sforzi; per me, io voglio, unito liberamente con altri, produrre ma consumare.

Guardate rassegnati, io sputo sui vostri idoli; sputo su Dio, sputo sulla Patria, sputo sul Cristo, sputo sulle Bandiere, sputo sul Capitale e sul Vello d’oro, sputo sulle Leggi e sui Codici, sui Simboli e le Religioni: tutte fesserie, io me ne burlo, me ne rido...

Essi non sono niente né per me né per voi, abbandonateli e si ridurranno in briciole.

Voi siete dunque una forza, o rassegnati, di quelle forze che si ignorano ma che sono delle forze ed io non posso sputare su voi, posso solo odiarvi... o amarvi.

Il più grande dei miei desideri è quello di vedervi scuotere dalla vostra rassegnazione, in un terribile risveglio di Vita.

Non esiste paradiso futuro, non esiste avvenire, non vi è che il presente.

Viviamo!

Viviamo! La Rassegnazione è la morte.

La rivolta è la Vita.


13 aprile 1905

Il gregge patriottico

In Caserma! In Caserma!

Va’, giovane ventenne, meccanico o professore, muratore o disegnatore, stenditi sul letto ...

... Sul letto di Procuste.

Sei troppo piccolo... sarai allungato.

Sei troppo grande... sarai raccorciato.

Qui, è la caserma... non vi si deve fare il furbo, non vi si fanno smargiassate... tutti uguali, tutti fratelli...

– Ah! ah! il tuo io, la tua testa, la tua forma! chi se ne fotte. I tuoi sentimenti, i tuoi gusti, le tue inclinazioni, vaffanculo.

È per la Patria... ti dicono.

Tu non sei più un uomo, sei una pecora. Tu sei in caserma per servire la patria. Non sai cos’è? Tanto peggio per te. D’altronde non hai bisogno di saperlo. Non devi far altro che obbedire.

A destra. A sinistra. Mani a posto. Riposo. Mangia! Bevi! Dormi!

Ah, tu parli della tua iniziativa, della tua volontà. Qui non interessa niente, non vi è che la disciplina.

Che! Cosa dici? Che ti hanno insegnato a ragionare, a discutere, a formarti un giudizio sugli uomini e le cose? Qui si tace, non si parla. Tu non hai, non devi esprimere altri apprezzamenti, altri giudizi che quelli dei tuoi capi.

Non vuoi, non puoi seguire coloro cui hai riconosciuto la competenza e l’esperienza? Niente scherzi qui, piccolo mio. Hai un mezzo meccanico per sapere a chi devi obbedire... Conta le strisce d’oro che si trovano sulla manica di una divisa.

Cos’hai dunque ancora? Ti hanno insegnato a non avere idoli, a non adorare niente? Non importa, curva la tua schiena, bacia il suolo, rispettosamente, è il simbolo della patria, l’idolo del XX secolo, l’icona democratica. Questa, amico mio, è la forma repubblicana dello stendardo di Giovanna d’Arco.

Andiamo, lascia alla porta il tuo spirito, la tua intelligenza, la tua volontà... Tu sei del gregge... non ti si chiede che la lana...

Entra... e non pensi più.

In Caserma! In Caserma!

L’esercito, dicevo ultimamente, non è schierato contro il nemico esterno; l’esercito non è schierato contro il nemico interno; l’esercito è schierato contro noi stessi; contro la nostra volontà, contro il nostro “io”.

L’esercito è la rivincita della folla contro l’individuo, del numero contro l’unità.

L’esercito non è la scuola del crimine; l’esercito non è la scuola della dissolutezza, o se è tutto questo, non si tratta che dei più piccoli dei suoi difetti; l’esercito è la scuola dell’obbedienza, è la scuola della fiacchezza, è la scuola della castrazione.

Malgrado la famiglia, malgrado la scuola, malgrado la fabbrica, resta in ogni uomo un po’ della sua personalità; periodicamente, movimenti di reazione si producono contro l’ambiente. L’esercito, di cui la caserma è la residenza, compie l’opera di annichilimento dell’individuo.

A vent’anni, l’uomo possiede quella vitalità generosa che gli consente di interessarsi allo sviluppo di un’idea. Non è ancora impacciato dalle abitudini, infiacchito dal focolare, dal peso degli anni. Può spingere la sua logica fino alla rivolta. Vi è in lui la linfa pronta a far spuntare i germogli e a far sbocciare i fiori.

Per fargli sviare la strada, gli si tende il tranello della Patria, la trappola dell’Esercito, la truffa della Caserma.

Allora, tutte le facoltà vengono bloccate. Non bisogna più pensare. Non bisogna più scrivere. In nessun caso bisogna avere della volontà.

Dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi, tutto il vostro corpo appartiene all’esercito. Non sceglierete più il berretto o la scarpa che vi piace. Non porterete più vestiti ampi o stretti alla vita. Non mangerete più il vostro pane poco cotto o bruciato. Non vi coricherete più all’ora del vostro sonno... Vi è una scarpa, un berretto, un vestito di ordinanza. Il pane viene fatto in infornate comuni a tutti e l’ora del vostro riposo è fissata già da molti anni.

È solo un fatto di resistenza!

Ma non è finita... Per la strada, non parlerete a chi vorrete parlare! Non entrerete nel locale che vi piace! Non leggerete il foglio che vi interessa! Le persone da frequentare, gli appuntamenti e le vostre letture sono anch’essi di ordinanza!

E, se per caso venite preso da desideri sessuali, vi è il bordello per i soldati e quello per gli ufficiali, come vi sono luoghi differenti per alcolizzarsi.

Tutto è regolato, tutto è previsto. L’individuo è assassinato. L’iniziativa è morta.

La caserma è la stalla del gregge patriottico. Esce da lì un bestiame che è pronto a formare il gregge elettorale.

L’esercito è lo strumento sviante schierato dai governanti contro gli individui; la Caserma è la canalizzazione delle forze umane di tutti a profitto di alcuni.

Vi si entra uomini, vi si diviene soldati, vi si esce cittadini.


26 ottobre 1905

La scuola dell’abiezione

La cospirazione conservatrice dell’ultimo primo maggio, ordita contro gli operai dal ministero radical-socialista Clemenceau-Briand è, credo, di natura tale da allarmare tutti i lavoratori. La trasformazione di Parigi in campo trincerato per opera della polizia e dell’esercito, il terrore militarista stabilito nello stesso giorno in tutte le città della Francia, credo debba far decidere tutti coloro che vogliono liberarsi dall’influenza dell’Autorità a togliere alla suddetta Autorità i suoi mezzi di difesa. La forza poliziesca e la forza dell’esercito sono i soli seri impedimenti alla liberazione definitiva. Credo dunque di essere nel giusto dicendo che tutti i nostri sforzi devono tendere alla distruzione dell’esercito.

So che si dovrà creare una gendarmeria mobile che rimpiazzerà l’esercito negli scioperi. Ma, a parte il fatto che questi assassini specializzati non saranno in grande numero e che l’autorità dovrà fare necessariamente ricorso all’esercito nei casi di necessità, se noi, con la nostra propaganda, riusciremo a distruggere presso i nostri simili lo spirito militarista, sarà più difficile reclutare questo famoso corpo di gendarmeria mobile e quindi si potranno picchiare con grande gioia i bruti che ne faranno parte.

Ma in qual modo dovremo orientare la nostra propaganda? Dobbiamo fare del sentimentalismo e mostrare solamente il fine “criminale” dell’esercito? No, è necessario svelare tutto ciò che può far scadere il prestigio dell’esercito. Sono soprattutto le madri di famiglia che dobbiamo disabituare, mostrando loro che l’esercito non è solo la scuola del crimine, ma anche la scuola dell’abiezione e che quando non lo si guarda dal suo lato “criminale” non si può che guardarlo sotto il suo aspetto “immorale” e ridicolo.

Qualche tempo fa, su questo stesso giornale, sotto forma di una lettera, un compagno che si firmava “Un soldato dell’Est” diceva che il gran torto degli antimilitaristi era di additare l’esercito all’attenzione della gente come un focolaio di alcoolismo, di infingardaggine, ecc. Questo compagno diceva che, non essendo un riformista, giudicava inutile dire che l’esercito era “immorale”.

Credo che questo compagno non avesse ben riflettuto su che cosa sia o no suscettibile di riforma. Mostrare alle madri di famiglia che, contrariamente all’idea che se ne fanno, l’esercito è la scuola dell’“immoralità” per eccellenza, è prenderle dal loro lato sensibile più importante.

Resta da sapere se questa “immoralità” e questi vizi sono il prodotto della caserma o se la caserma non è che un luogo comune in cui i vizi già esistenti si sviluppano, cosa che, in questo caso, proverebbe che niente nell’esercito controbilancia gli effetti ereditari e che conseguentemente l’esercito non è una scuola di “moralità”. Nell’un caso, come nell’altro, l’istituzione è completamente da distruggere.

Ora, dipende dalla volontà di un ministro o dall’arbitrio di una legge fare della caserma una scuola di pudore e di amore? Il paradosso è, credo, così mostruoso da risparmiarmi la risposta! Molte cose sono state scritte sulla scuola dell’onore, ma credo si sia ancora lontani dal nocciolo. Non ho la pretesa di dipingere la bruttezza militarista con più esattezza di quando non si sia fatto finora, principalmente perché sarebbe necessario un talento che io non ho, perché, nella bellezza trascendente, come nell’estrema bruttezza, vi sono dei tratti e dei dettagli che sfuggono al pennello più abile o alla penna più sottile.

Credo non vi sia ambiente migliore di quello dell’esercito in cui fare degli interessanti studi sulla psicologia bestiale dell’uomo. I primitivi, che gli etnografi ci hanno descritto, vi si troverebbero benissimo. Data la diversità delle provincie che vi sono rappresentate, ci si può ben rendere conto della mentalità generale degli individui e trarne delle conclusioni.

L’individuo che supera il cancello di una caserma, quale che sia la sua posizione sociale nella vita civile, questo individuo diviene un essere anormale, nemico della società da cui proviene.

Chi dubiterebbe che il giovane alla moda borghese, monocolo all’occhio, ben impomatato, bastone alla mano, che vediamo passeggiare dinoccolato sui viali, è così vicino all’operaio verso il quale però affetta un sì sovrano disprezzo!

Ah! se l’uomo è laido, quando è spogliato di tutte le insegne esteriori della civiltà! I gesti più grossolani, le parole più oscene sono fatti e dette all’unisono da borghesi e operai. Ho visto, ed ho dei testimoni, dei soldati tenere uno dei loro camerati steso sul dorso, mentre un altro si masturbava ed eiaculava sul viso del paziente! Ho visto, e vedo ancora, soldati che si lavano i piedi con una tazza d’acqua, nella stessa tazza che serve loro per bere; ho visto poveri cani evirati da soldati. Una grande felicità per un soldato è spegnere una lampada “con fantasia”, cioè a colpi di zoccoli... Tutto ciò che è brutale, tutto ciò che è grossolano si pratica giornalmente in caserma. Quali piedi sporchi, quali luridezze ricopre la livrea di un soldato! E quali conversazioni, dal mattino fino alla sera! Quale contraddizione quella di chiudere le case di tolleranza, mentre vengono lasciate in piedi le caserme!

L’uomo, così come lo si vede in caserma, è l’uomo bestiale con tutti i suoi difetti, tutti i suoi vizi, tutte le sue tare. Quello che si vede per la strada, è l’uomo contraffatto da una falsa civilizzazione: le andature pulite e oneste, i gesti sobri e studiati di questo nascondono l’ignominia di quello. Così non è per niente sbalorditivo che a dispetto delle apparenze e dei segni incancellabili del progresso, si riscontrino tante cose che ci fanno pensare all’antica barbarie, e disperare un migliore avvenire.

Certo, l’Esercito è la Scuola della Fratellanza e dell’Uguaglianza, poiché il vestito livella le classi, ma è uguaglianza nella turpitudine e fraternità nell’abiezione.

Sì, l’Esercito è la Scuola dell’ubriachezza, della stupidità, del vizio e della lascivia! E, non dispiaccia a tutti i riformisti, questi difetti sono inerenti all’ambiente. No, non dipende dai capi impedire tutto questo. A parte il fatto che i capi non sono neanch’essi esenti da questi difetti (ne ho visto uno che teneva delle conferenze contro l’alcool e l’ho visto titubare mentre parlava), non è nelle loro possibilità impedire il vizio. Le pareti delle camerate o delle scale delle caserme sono coperte di manifesti anti-alcolici orribilmente mal disegnati, dove si vedono cervelli sani, cuori normali accanto a cervelli incancreniti e cuori invasi dal grasso accumulato con l’uso dell’alcool. Il codice militare punisce anche molto severamente i delitti commessi in stato di ubriachezza! E poi? Che si tappezzino i pavimenti e le latrine con questi manifesti, che si moltiplichino i regolamenti e gli stessi vizi continueranno ad esistere come per il passato.

Non vi è che da sfogliare La Religieuse di Diderot, per vedere, trasportati nel mondo religioso, gli stessi vizi prodursi a dispetto dei regolamenti proibitivi e delle coercizioni. Fra i religiosi che “ammirano la bianchezza delle loro carni” e si “carezzano” e i soldati che ammirano la lunghezza del loro membro virile e che si abbracciano, vi è un rapporto molto stretto. La disciplina dei religiosi, il loro vade retro Satana e i regolamenti militari si equivalgono e sono allo stesso modo impotenti a domare le deviazioni e le degenerazioni.

Succede la stessa cosa in tutti gli agglomerati di individui a mentalità media, vi sono sempre certi vizi che tendono a svilupparsi.

L’abbrutente esercizio che piega l’uomo e lo riduce ad un automa al semplice gesto di un gallonato; il catechismo dell’assassinio che si chiama teoria, la schermaglia alla baionetta, il tiro, il servizio in campagna, in cui l’uomo si rannicchia dietro il cespuglio come un coniglio nella sua tana per scappare alla morte, il culto dello straccio patriottico, tutto ciò, per quanto io ne sappia, non serve a correggere i difetti di una eredità viziosa, aggravata dalla deformazione cerebrale imposta dalla scuola laica o religiosa. Tutto al contrario, tende ad avvicinare l’adolescente alla brutalità animale.

Aggiungiamo a questo una castità obbligatoria simile a quella dei conventi e l’oziosità del soldato fuori dalle ore d’esercizio... Che mi si dica se un tale ambiente, marcio esso stesso, può dare dei frutti sani. Non dispero di vedere l’acqua, il gas, l’elettricità in tutte le caserme; non dispero nemmeno di veder dare ai soldati tutti i giorni pollo e vino... e poi? L’esercito resterà comunque la scuola della bestialità.

Non dispiaccia al luogotenente Tisserand de Langes, l’esercito non è repubblicano come lui dice, e anche se lo fosse per noi sarebbe la stessa cosa. L’esercito è una forza passiva che, sotto l’impulso degli eventi, può divenire una forza pericolosa. L’Esercito è una fogna che raccoglie tutte le cattive passioni, in cui vengono a riversarsi tutti gli escrementi.

31 maggio 1906
Un soldato

Sono le reclute che passano

La mandria.

– In quest’ottobre brumoso, cosa sono questi scoppi di risate, questi canti e facezie? Dove vanno dunque queste teorie di uomini e di donne che si tengono a braccetto e si succedono senza sosta? Verso quale sagra, quale festa di folli, quale carnevale si dirigono?

– E che! non lo sapete? è la partenza della classe; oggi le reclute entrano nell’esercito.

– Così, i ragazzi ventenni lasciano coloro che amano, l’ambiente in cui vivono; le madri e le innamorate ridono nei sobborghi conducendoli verso il mostro di ferro che li porterà alla caserma.

– Ma molti hanno la fronte piena di tristezza, nuvole di pena passano su molti visi e più d’uno trattiene a stento le lacrime, allorché colui che parte si sforza di non rattristare ancora di più coloro che lascia. Non va verso il suo dovere?

– Ecco la grande parola: va verso il suo dovere! Ed è perciò che i dolori si mascherano con piccoli sorrisi. È perché sono addolorati che i figli hanno frequentato i cabaret e i padri li hanno seguiti. È perché gli innamorati sono dispiaciuti della loro partenza che si imbottiscono di alcool e le amiche li incoraggiano. Tutti questi uomini, tutti questi giovani sono tristi, ma se ne fanno una ragione. E farsi una ragione significa prendere una bandiera, uno straccio qualsiasi, seguirlo vacillanti, abbarbicati al braccio di qualche donna destinata al lavoro ripugnante del matrimonio o di qualche donna impiegata nel lavoro estenuante del basso ventre. Farsene una ragione, è andare ad assistere a qualche cerimonia religiosa, a qualche messa cattolica o massonica in cui si prometterà di affidare il proprio spirito nelle mani dei capi per la più grande gloria della Patria, di Dio o del Triangolo.

Ah! Quanto illuminano le Chiese e i Bordelli, i Cabaret e le Fabbriche! Quanto godono i Deputati e i Preti, gli Osti e i Venditori, i Commercianti e gli Industriali! Sotto la bandiera della Patria si può scoprire il Bordello, il Comitato Elettorale, il Campanile della Chiesa e la Ciminiera della Fabbrica.

In caserma si alleva per voi, industriali, commercianti, del bestiame da tosare! In caserma, si ammorbidiscono per voi, preti e deputati, dei cervelli di elettori e di fedeli! In caserma, sono i ventri da riempire e da vuotare, da avvelenare e da impestare che vi si preparano, oh venditori e osti!

Le madri, i padri, le innamorate asciugano una lacrima perché i figli o gli amati vanno in guerra a rischiare, probabilmente, la vita. E gioiscono anche, perché “fare il soldato fa bene ai ragazzi”.

Non vedete dunque, oh bruti, che quanto vi è di terribile nella partenza dei vostri figli, dei vostri innamorati, è che essi diventeranno simili a voi, simili agli altri, simili a tutti. Non vedete dunque che sulla faccia del più sciocco e del più imbecille che vi lascia vi è ancora una luce di libertà, di individualità, e non sapete che quando ritorneranno, i più forti e i più generosi avranno il marchio di fabbrica della caserma, saranno abbrutiti, rammolliti, immatricolati?

Non è carne da cannone, oh reclute, che vogliono far di voi, ma carne da obbedienza. Non sono soldati che vogliono fabbricare, ma elettori, operai, impiegati, sbirri; ecco ciò che vogliono fare di voi, onesti e obbedienti.

Ridete, cantate, bevete; vacillate e vomitate, oh reclute di oggi, soldati di domani. Accompagnateli e sostenete i loro passi, oh femmine oneste, puttane sentimentali. Bevete il bicchiere della staffa con loro, oh padri di famiglia, oh compagni di fabbrica, spingete la loro volontà al mattatoio della Caserma.

Coloro che sanno e comprendono, si preparano alla partenza per l’esercito in cui li porta l’abbrutimento di coloro che ridono, fortificando la loro volontà, prendendo coscienza dei migliori mezzi antisettici da adoperare contro la contaminazione della camerata e della disciplina, contro i microbi dell’Onore e del Dovere.

Coloro che sanno e comprendono, pur obbedendo alla forza dei bruti, preparano le terribili armi della Ragione e dell’Ironia che disperderanno lontano il giogo brutale della Caserma e dell’Autorità, il rispetto della Bandiera e della Patria.

In quest’ottobre brumoso, vi sono canti, urla, ghigni.

In quest’ottobre brumoso, ecco anche che s’abbozza il sorriso canzonatore di coloro che sanno... il gesto fecondo di coloro che pensano...


27 dicembre 1906

Carne da macello

Chi siete?

In Francia, e in quasi tutti i paesi civilizzati, quando arriva la primavera, si ordisce una vasta cospirazione contro la popolazione.

La terribile Mafia che la organizza è affiliata alle più alte personalità di ogni paese; la sua potenza è considerevole. Le sue sedute si tengono alla luce del sole e la stessa gente che essa minaccia, saluta i suoi membri col più grande rispetto.

Si direbbe una tela di ragno, la cui trama attacca migliaia di uomini.

Come le mosche ronzano e svolazzano disperatamente allorché sentono la presa del filo, così gli uomini che la terribile lega afferra, cantano e si agitano a lungo, follemente.

A quali riti obbedisce questa organizzazione? Si sente parlare di vendicare i morti da più di mezzo secolo. Un’estrazione a sorte o una scelta arbitraria scelgono coloro che devono soddisfare la voce del sangue che grida vendetta. Essi partono, subito dopo essere stati designati e preparati, verso una tribù vicina per uccidere degli uomini che sono completamente innocenti della morte che quelli vogliono vendicare. E tutto ciò ricomincia indefinitamente.

La cospirazione di cui parlo ha lo scopo di sconvolgere un territorio e di cambiarne i dirigenti a disprezzo della vita di coloro che vi abitano. Essa si erge in nome di un principio consacrato che si chiama il principio della Patria. Gli uomini che la fomentano parlano di andare ad uccidere altri uomini che hanno commesso il solo crimine di essere dall’altra parte della montagna e di far parte di una diversa Mafia nemica.

Ho spesso sentito parlare di associazioni segrete che riuniscono gli anarchici. Sappiamo, “Le Petit Journal” e i suoi simili ce ne informano, che vi si è discusso della morte di tale potente politico o economico, poi, in seguito, la sorte sceglierà la mano. Chi eseguirà la tragica decisione? Si perseguono severamente i membri di queste Cene sanguinose... La popolazione si indigna fortemente contro di loro.

E tuttavia, come arriva la primavera, ecco che su tutto il territorio della Francia – e altrove allo stesso modo – si celebra in grande e reiteratamente la cerimonia bizzarra e pericolosa. Nessuno infierisce e gli sguardi compiaciuti dei bottegai accompagnano a sera coloro che sono indicati, scelti per compiere il sacrificio.

Queste vengono chiamate Visite di Leva. L’estrazione a sorte o l’esame dell’organismo sono i preliminari che decidono l’attitudine a maneggiare l’arma omicida e vendicatrice.

Vendicatrice di chi? di che cosa? Nessuno ne sa niente. È incerto in tutti i cervelli. Non importa, si obbedisce, ci si prepara ad uccidere con la massima tranquillità di spirito.

Tu, cui il nome di Ravachol fa avere un sussulto di collera nell’evocare le bombe insidiose che egli gettò contro alcuni giudici istruttori, tu sarai il cannoniere che dirigerà l’ordigno sulla casa del casellante, tu colpirai qualche dolce Gretchen.

E tu, che hai un senso di disgusto pensando a Caserio che affonda freddamente il pugnale nel seno di Sadi Carnot, tu sarai colui che affonderà la baionetta nel petto di qualche languido Werther.

E tu, che ti fai impressionare dalla testa di Angiolillo che spia il passaggio di Canovas, revolver alla mano, tu sarai colui che prenderà per bersaglio il corpo di qualche lavoratore tedesco.

Voi sostenete con indignazione, soldati di Francia, soldati di Germania, mercenari di tutti i paesi, di non essere come quegli anarchici che si erigono tragicamente per colpire qualche privilegiato, qualche tiranno, qualche sfruttatore. Negate anche di essere colui che uccide nella strada per appropriarsi di una borsa, o per svaligiare l’appartamento. Ma voi cosa credete di essere? Voi siete i pericolosi assassini che uccidono per uccidere senza il desiderio di portare avanti il loro ideale o il bisogno di assicurarsi il proprio interesse.

Voi soli, soldati, siete i sacerdoti dell’assassinio. Il vostro dio è sempre Odino. Non si entra nel suo paradiso che attraverso i fori delle ferite delle vittime che si lasciano sulla strada.

Non si tratta di vano sentimentalismo! Si è parlato fino ad ora, si è sempre rimproverato alla caserma di essere la scuola del crimine e dell’assassinio. Poiché le zanne e gli artigli nella civiltà attuale non sono sufficienti per assicurare la tranquillità della sua esistenza, non saprei gridare contro chiunque si eserciti a maneggiare il coltello, il revolver, il fucile o la granata. Ciò che rimprovero ai soldati, è di apprendere ad utilizzare le armi contro il loro prossimo, contro i loro interessi.

Il soldato non lotta per sé. Avanzando, egli marcia, soffre, uccide per ragioni che ignora, per degli interessi che gli sono contrari. Impara ad uccidere della gente contro cui non ha alcun rancore e a difendere degli individui ai quali, se riflettesse un minimo, spaccherebbe la testa.

Non voglio giudicare gli atti di Ravachol, di Vaillant, di Caserio e di altri; non devo dire se li trovo buoni o cattivi... mi sembra solamente che questi uomini avevano uno scopo e impiegavano i mezzi che ritenevano propri ad assicurare questo scopo. Potevano sbagliarsi. Ma si può affermare che essi non uccidevano per uccidere, ma per distruggere un ostacolo.

Fra loro e i soldati, vi è la differenza che c’è tra il cacciatore che uccide per assicurare la sua esistenza e quella della sua famiglia e il cacciatore imbecille del tiro ai piccioni.

Tutto porta a credere che i primi pensassero i loro atti ineluttabili anche se dolorosi. A torto o a ragione, essi vedevano, nella distruzione dell’organizzazione sociale e soprattutto di certi membri che rappresentavano la detta organizzazione, un mezzo per affrettare l’avvento di una migliore società in cui gli uomini potessero conoscere una vera felicità.

Essi ragionavano dei loro atti, non facevano uno scopo dei mezzi che impiegavano, ne parlavano pressoché come di una purga, di una pulizia o di un’amputazione scaturente dallo stato di malattia in cui la società era stata portata dagli eccessi militari.

Ed anche nel caso in cui non avessero in vista che i loro interessi personali, ciò non mancava di qualche significato. Da troppo tempo gli uomini accettano di uccidere per conto di altri. E il pericolo sta proprio là. Quando non ci saranno più schiavi, gli uomini liberi non si uccideranno più fra loro.

La storia delle patrie ci mostra le lotte, le battaglie, le guerre costantemente scatenate per questioni di frontiere, d’onore, di razza. Uomini che uccisero sui campi di battaglia raccontano le loro imprese: come tagliarono in due un cinese con un buon colpo di bastone, o fracassarono la testa di un tedesco con un colpo di fucile. Il culto sanguinoso della Patria non può essere preso come un incidente, come un rimedio, è uno dei modi di essere della forma attuale delle società.

L’assassino della strada, colui che getta le bombe, obbediscono a delle condizioni economiche non volute da loro. Il primo le assimila come può, il secondo fa gli sforzi che crede buoni per cambiarle. Essi non possono fare altrimenti.

Il soldato potrebbe non essere un soldato e far cessare la ridicola contesa delle patrie astenendosi dal prendervi parte. I suoi atti vanno all’opposto dei suoi reali interessi.

L’anarchico, il rivoluzionario, uccidono dunque, obbligati dalle spaventose condizioni in cui sono costretti e di cui si vogliono sbarazzare. Il soldato, il patriota, uccidono per la gloria, per il solo fatto di uccidere e sono essi le cause stesse degli assassini che fanno commettere a coloro che non vogliono sopportare il peso della tirannia.

Io non piagnucolo in nome dell’umanità, del rispetto della vita umana. Guardo abbastanza freddamente il problema sociale per convenire che sarà necessario un taglio cesareo per mettere al mondo un bambino per quanto gracile possa essere. La violenza spingerà le porte da cui entrerà la ragione. Sia. Prima sarà, meglio sarà.

Ma almeno, se bisogna usare dei ferri per questo parto, che siano di buona fattura. Giovani ventenni, non vi rimprovererò dunque di usare i gingilli di morte ma piuttosto di non sapervene servire. Accettate l’arma che vi si tende. Sappiate determinare l’uso che bisognerà farne.

Quest’arma può servire ad aggravare il malinteso fra i popoli, ad aumentare la schiavitù degli uomini, a far progredire la sofferenza e la miseria. Quest’arma può servire a liberare i popoli da tutti i pregiudizi, da tutte le servitù, a stabilire le basi di un’organizzazione sociale ove il minimo sforzo darà il massimo risultato nella buona armonia umana.

Voi tenete in mano la felicità degli uomini. O sarete gli assassini che scavano con gioia nel petto umano per vederne colare il sangue, o sarete i chirurghi che, con ansia, lavorano la carne degli uomini per darle più vigore e più forza.

O sarete soldati, carne da macello... o sarete anarchici...


7 febbraio 1907

L’uomo e la folla

Non lontano da Chatellerault, nel piccolo villaggio di Usseau, l’Uomo ha fissato la sua roccaforte contro la società.

Si chiama François Roy. Ha più di sessant’anni. È entrato in rivolta contro l’ordine, il giorno in cui l’ordine lo ha colpito. Ha risolto da sé i suoi affari.

I suoi genitori coltivavano un pezzo di terra a Saint-Eloy; egli avrebbe continuato lo stesso lavoro. Il reggimento gli fece abbandonare i campi: divenne agente di assicurazioni, si avvicinò alla politica, cominciò a speculare e perse la sua parte di terra che peraltro non lavorava più.

Allora conobbe il dolore di stare sotto altri. Divenne guardacaccia. Si racconta che cambiava posto in continuazione. E ciò non è per niente sbalorditivo, difficilmente un Uomo si piega al ruolo di valletto o di capomastro. Cacciava di frodo sulle terre che guardava. Diavolo, idiota è colui che prepara il raccolto per gli altri mentre lui muore di fame.

Uno, chiamato Grandpied, ex consigliere municipale di Usseau, lo fa condannare a cinquanta franchi d’ammenda per caccia di frodo. Gli viene tolto il titolo di guardacaccia.

A sessantasette o a sessantotto anni, l’Uomo deve dunque conoscere nuovamente la dura ricerca del pane per vivere: non può rassegnarvisi. L’idea della lotta si fa strada in lui, vuole farla pagare a colui che passeggia, onesto e felice, nei viali e nei campi, dopo averlo ridotto alla morte.

Incontra Grandpied con sua figlia. Spara un colpo di fucile alla bocca del padrone. Alcuni pallini deviano sulla figlia. L’altro probabilmente resterà cieco.

L’Uomo rientra. E la cricca poliziesca viene a cercarlo. Vi è il procuratore della Repubblica, il giudice istruttore, il cancelliere e un gran numero di cani poliziotto.

La porta è chiusa. Viene intimato di arrendersi, nessuno risponde. I gendarmi si avvicinano per sfondare la porta. Un colpo di fucile è la risposta all’attacco. Il cancelliere e un gendarme sono feriti.

Il distaccamento di solito impiegato per difendere le frontiere circonda la casetta. Dovrà riportare adesso una di quelle vittorie che distinguono l’esercito francese. Poi arriva la folla, la folla degli onesti, il branco delle oche domestiche sempre contro le oche selvagge. Questa getta manciate di pietre sul tetto del rifugio dell’Uomo. Egli risponde ancora, e colpisce con mano sicura. Un gendarme e un sergente cadono.

La paura afferra i muscoli di questa cricca sociale, il cerchio s’allarga. È un vero e proprio assedio. I soldati del 31° e tutti i gendarmi della regione sono là. La folla spia l’Uomo e l’Uomo spia la folla. L’Uomo non vuole obbedire e la folla si indigna del fatto che su questa terra di funzionari e di elettori esista un Uomo. Da un lato un vecchio di settant’anni e dall’altro una compagnia di linea, una brigata di gendarmeria; più ancora la muta rabbiosa dell’opinione pubblica.

L’Uomo spara per difendersi. Dalla folla, armi alla mano, sparano per difendere il principio consacrato della proprietà e del rispetto delle leggi. Morte al rivoltoso. La sua mano appare, arrivano colpi di fucile da destra e da sinistra. Chi mai lo ucciderà?

Bisogna prenderlo, vivo o morto: lo vuole l’onore della giustizia. Ognuno ha il suo mezzo. L’uno parla di mandare un cane che lo azzannerà, l’altro parla di pompe, il terzo di cannone, un quarto di armature. Grenier, il ciarlatano musulmano, il deputato-clown che non ci si aspetterebbe di ritrovare nella storia, propone il gas asfissiante. Si vada dunque a spaccargli il cervello.

Vi è del tragico e del comico. Armi alla mano, i soldati sono là, pronti a sparare. Dappertutto vi sono dei bivacchi.

Solo, l’Uomo prepara la sua difesa, sbircia dalla feritoia. Non è un pazzo, è un Uomo. Egli non spara a caso. Una donna, malgrado i soldati, passa alla sua portata seguendo dei montoni. Essa va lentamente e l’Uomo sa che non è là il nemico.

La circolazione viene fermata. Non si può andare ai mercati vicini; la strada è sbarrata. Per il passaggio di una corsa automobilistica o di un corteo reale o di una caccia a cavallo, il gregge belante degli ignoranti, degli stupidi, dei rognosi, non mormora nemmeno. Ma pare odiare Roy, come si odia colui che dà un esempio che non ci si sente la forza di seguire.

La folla arriva dappertutto. Mai gli albergatori hanno fatto tanta fortuna. Uno racconta che ha fatto più in questi otto giorni che negli ultimi quattro anni. Si vede tutto lo squilibrio di una società in cui il male dell’uno arricchisce l’altro. Società ipocrita, annegata nella sana morale, in cui si è obbligati a sopravvivere e conseguentemente a desiderare che l’altro crepi per soddisfare la propria fame.

I ministeri dell’Interno, della Guerra e della Giustizia, collaborano a questa cattura. Tutti esitano nell’avanzare. Le autorità che sono là, generale, prefetto, sottoprefetto, procuratore generale, comandante della gendarmeria, dell’artiglieria, comprendono il ridicolo della situazione. La folla solamente grida a morte.

Sono stati approntati dei viaggi Parigi-Chatellerault e Chatellerault-Parigi. L’ordine sociale è turbato. Quale esempio dà un uomo che si rivolta! Quanto è debole la società vicino un Individuo!

Sarà il cannone? sarà la melinite? Gente del Genio è venuta per porre gli ordigni e per attivarli tramite un filo, da lontano.

Sarà per questa sera. Allora, da tutti i posti, arrivano gli spettatori della morte, gli uccelli notturni del crimine legale, i vampiri onesti che succhiano il sangue solo secondo le regole del Codice. Vengono a piedi o in automobile, in carretto o in utilitaria. Tutte le puttane e tutte le gran dame del paese, tutti i magnaccia e tutti i proprietari, i malandrini e i commercianti sono là, fianco a fianco. Il pubblico del Tourbillon della Morte, delle corride, dei velodromi e della ghigliottina, è là. Nessuna diserzione.

Questo pubblico ha la bava alla bocca. Che gli si serva l’Uomo senza pericolo: esso lo mangerà. Queste dame hanno paura, deliziosamente. Un brivido corre lungo la loro schiena. Esse difendono l’ordine sociale. Esse sono per la giustizia contro il criminale. Quando si apprende che non sarà per questa notte, tutto questo mondo di ruffiani e di donne oneste, di nobili e di prostitute, comincia a gridare, come al teatro quando l’attore non è stato ben assassinato.

Alla fine, il giorno o, piuttosto, la notte è arrivata. Tutta la guarnigione di Chatellerault è pronta. Bisogna che lo si faccia adesso. «Se non lo si finisce questa notte, si potranno temere delle manifestazioni, perché la popolazione è esasperata». (“Journal” del 14 maggio 1905).

La melinite è là. I soldati del genio sono là. Il luogotenente Le François è pronto. E Babin, il generale, riporterà una vittoria. Gloria a lui. Onore all’esercito francese.

Duecentotrenta ordigni formati da cento grammi di melinite vengono piazzati. Il procuratore Vasco vorrebbe attendere l’ora legale. Il generale Babin vuole operare nell’ombra. Egli vorrebbe anche fare degli inviti alla resa, il comandante Sempe dichiara che è inutile; l’uomo è in stato di ribellione contro la legge!

A ottocento metri dalla casa, nel piccolo bosco, la folla urla, danza, canta e “stappa lo champagne”.

«Arrivo alla borgata. Nella piazza, duecento automobilisti fanno ressa, circondati da uomini e da donne vestiti di pelle, questi uomini e queste donne ridono e cantano; alcuni lanciano delle freddure oscene. Tutte le ragazze, i ruffiani, i malandrini, gli assassini sfuggiti alle prigioni, bancarottieri e succhiatori di sangue sono là. Quale spettacolo più bello di quello di un uomo che sta per essere ucciso! Questo non sarà ghigliottinato, come tanti altri, sarà dinamitato, non esattamente come il negro di Gaud e di Toqué, ma quasi... Bisogna assolutamente assistervi e tutti coloro che erano stati alla replica generale della notte da venerdì a sabato erano presenti alla prima. Altri che non erano presenti alla replica erano accorsi oggi. Il sabato sera è favorevole agli spettacoli familiari, ci si riposerà la domenica». (F. Hauser, corrispondente del “Journal”, 15 maggio 1905).

Non siamo noi a parlare, è il “Journal”; la sua clientela gli impedisce di dire tutta la verità. Ma ciascuno sa discernerla. Queste duecento automobili, non sono ragazze e ruffiani illegali che li possiedono. Le bestie villose e sadiche che stappavano champagne, non sono solo bancarottieri e gente sfuggita alla galera: per noi, questa è gente onesta, è quella che forma l’élite, sono fannulloni, ruffiani, ragazze, ladri legali, fango, la feccia di tutti i popoli, che vive di coloro che lavorano facendoli crepare.

Come ridono! Stanno facendo saltare in aria l’Uomo, stanno ammazzando l’Uomo. Essi hanno paura! Dove sarebbe l’ordine se un Uomo potesse vendicarsi da se stesso dei crimini della società.

Infine, un suono di tromba, i soldati scappano. Il momento è arrivato.

Un bagliore intenso infiamma l’orizzonte, un rumore lungo come un tuono, una nuvola di fumo ed è la cricca che applaude, che vocifera, che urla.

La cricca selezionata: generale, prefetto, procuratore, sottoprefetto, giudice istruttore, gallonati, è riunita.

Il generale, al rimprovero che non si è aspettata l’ora, una quisquilia d’altronde, dice che non uno dei suoi uomini è ferito. Quanto all’altro, sotto le macerie, si andrà a portargli soccorso... al levar del giorno.

E l’Uomo probabilmente muore fra i fumanti resti della bicocca; i difensori dell’ordine, i rappresentanti dell’umanità, attendono. Armi alla mano, infine i soldati del genio avanzano.

Si scava fra le rovine, si sparano altri colpi.

Si cerca. Non si trova niente. L’Uomo non è là. La paura riprende il branco. Se fosse fuggito da qualche breccia del muro e potesse uccidere a suo agio i cani che invadono la sua tana...

Ma un clamore si estende. Un clamore di sollievo. Un grido di vittoria. Questa folla in delirio balla la danza dello scalpo. L’ordine ha vinto.

Sì, tre bruti l’hanno trovato. Che il loro nome passi ai posteri e che gli uomini che li incontreranno sappiano dove mettere i loro piedi:

René Mounet, Grandin-Mounet e il suo piccolo, Eclairci.

L’Uomo respira appena, il viso coperto di calcinacci. Al momento della terribile detonazione, della distruzione, egli dormiva, è stato sollevato in aria ed è ricaduto ricoperto di muri e di travi. Viene tirato fuori, smarrito, terrificato, vinto dall’enorme dolore.

I quattro sostegni dell’ordine urlano infrangendo ogni loro regola: “Eccolo! Lo abbiamo preso”.

Allora lo spettacolo della gente diviene spaventoso, pietrificante, atroce! Cento, duecento persone si precipitano sul vecchio in brandelli, lo assalgono, lo gettano a terra, lo colpiscono, lo “fanno rotolare come una salsiccia” fino in fondo alla scarpata.

Diecimila persone urlano: “Mostratecelo!”. Una muta si precipita attorno ai gendarmi. Vogliono squartare Roy. I soldati lo circondano. In mezzo alle urla, viene portato al paesello vicino.

«E la folla che non sa come soddisfare il suo desiderio di stritolare qualcosa si precipita allora nella casa di Roy e nel suo giardino saccheggiando le camere e il boschetto». (Stessa citazione).

È finita. La folla comincia a sparpagliarsi, torna a riprendere le proprie funzioni quotidiane: saccheggiare, rubare, violentare, avvelenare, assassinare, tutto legalmente, beninteso.

E noi, noi ritorniamo più forti, più possenti alla nostra idea. Noi amiamo l’Uomo, odiamo la folla.

Ripetiamo il grido da questo foglio:

Contro i pastori, contro le greggi.


18 maggio 1905

Arriva!... Arriva!... L’Alfonso!

Egli arriva dopo un lungo viaggio nei “suoi Stati”, viaggio pieno di tenerezza e di sollecitudine verso questo povero popolo spagnolo la cui sola ricchezza è di avere un re come lui.

Acclamazioni bizzare, atroci, lo accolgono al suo passaggio. Le risa che risuonano al suo orecchio hanno stranamente il ritmo dei singhiozzi.

Sono delle lodi che salmodiano queste voci, o delle preghiere?

Dietro, la pretaglia, la guardia civile, i funzionari, e questo popolo è vestito o è pieno di stracci? Questi ventri sono pieni o vuoti?

Cosa importa, il re ha mangiato.

Quando il re ha bevuto, la Spagna è ubriaca.

E queste braccia, che si torcono dal dolore al passaggio dell’automobile reale, scatteranno – chi può dubitarne? – in applausi frenetici. Queste voci che rombano da lontano, sono – come spiegarle altrimenti? – gli evviva in onore del re.

Il piccolo Alfonso è un re partigiano del progresso. Egli sa dividersi fra la gioia della tortura e quella della fretta. La sua mano di re sa maneggiare con la stessa grazia il volante dell’automobile e i grani del rosario.

Egli è caritatevole! Sa restituire i milioni che prende poiché getta dei soldi ai poveri.

Egli è internazionalista! Non vi sono più Pirenei, e i viaggi formano la gioventù. Il Signor Alfonso, questo Telemaco, di cui la pietà è la qualità dominante, viene dall’essersi complimentato col Signor Emilio e col popolo francese: ha appena ricevuto gli auguri del Signor Paolo e della città di Parigi.

Viene, arriva, vi dico...

Andiamo, valletti, repubblicani, socialisti, anticlericali, rivoluzionari, ecco il re dell’inquisizione... in ginocchio, ventre a terra.

Paul Brousse lacchè della maggioranza, saranno dunque dei cortigiani che rischieranno, secondo la tua predizione, di avere gli intestini rivoltati.

Jaurès, mio caro amico, allo stesso modo in cui lacrimavi per le vittime della Mano Negra, complimèntati con l’efebo reale per la sua sollecitudine nei riguardi del popolo.

Gérault-Richard, offriti per guidare la sua gioventù nei caffè malfamati, nei caffè concerto popolari e nei bordelli che frequenti adesso o che frequentavi, ricordi? il tuo abito di ubriaco...

Se gli arriva qualche accidente... la sesta pagina del tuo “Canard” non è là proprio per designare il rimedio sovrano? Prenderai due piccioni con una fava.

Andate tutti con i vostri imbonimenti, signori politicanti. Tutti! Che nemmeno uno dimentichi!

In nome della Patria e dell’Internazionalismo, del Popolo e del Borghese, della Religione e del Libero Pensiero, conducete il popolo repubblicano ai piedi di questo tiranno.

E tu, folla, tu, popolo, va’ dunque a fare ala per vedere passare un re, la cui faccia non ha nemmeno il valore estetico di nessuno di coloro che lo circondano.

Tu, che crepi nelle tenebre, va’ dunque a specchiarti nelle vasche luminose dell’Avenue de l’Opéra, sgolati ad acclamare colui che ospiti – tu che non hai niente – poichè questo re è l’ospite della Francia repubblicana.

Quest’Alfonso non è, per me, più criminale di un’altra persona; lo ripeto, non è che un simbolo. Ed è questo, d’altronde, che un popolo repubblicano deve aborrire.

Al contrario: è verso il mantello regale che salgono le acclamazioni demagogiche.

Il popolo francese, dopo trent’anni di educazione repubblicana, temperata di socialismo, non è che una massa di rane che gracida di desiderio alla vista di un re.

Re di paccottiglia, re insignificante: ma che importa, è un re, un vero re. Al suo passaggio, migliaia di persone sperano che si fermi, questo bellimbusto, per baciargli le mani, i piedi, il culo, se lo desidera.

E il servitorame socialista drizzerà le orecchie: “Non preoccupatevi, sire, com’è vostro desiderio, noi li abbiamo preparati ad essere pecore peggio delle vostre, pronte a tutte le bassezze, a tutti i servizi”.

Arriva!... arriva! l’Alfonso. In ordine, prendete il vostro posto! Non ve ne sarà per tutti.

Comprimiti, popolo di lavoratori, per veder passare un uomo che non fa niente.

Applaudi, muggisci di gioia, popolo di affamati, alla vista di un uomo che mangia, di un uomo cui venticinque milioni di schiavi preparano la pappa!

... Dopo la sua partenza, piangerete nuovamente al ricordo della Mano Negra, di Montjuich, di Alcala del Valle in compagnia della cricca socialista.

Maledite i boia, imbecilli; i boia che siete, che sono tutti coloro che acclamano gli assassini, gli inquisitori.

Arriva!... arriva!... l’Alfonso!


25 maggio 1905

Numero tredici

Sei in Francia! Sei a Parigi!

Conoscerai le Halles e l’Elysée, il Pavillon de la Marée e il Palais Bourbon.

Ti compiango, o re, più schiavo dello schiavo.

Le tue orecchie si apriranno e tu non sentirai.

I tuoi occhi guarderanno e tu non vedrai.

No, tu non sentirai, tu non vedrai niente di vero, niente di sincero; tu non saprai niente di questa terra di Francia dove per parecchi giorni avrai folleggiato.

Quali complimenti, quali brindisi, quali menzogne udranno le tue orecchie, quali apparati, quali stucchi, quali fasti, quali gioielli vedranno i tuoi occhi!

Tu non hai mai avuto, e probabilmente non avrai mai, la gioia di sapere.

Se un viso ti sorride, non saprai mai se è un segno di gioia amica o un segno di bassa cortigianeria.

Se una voce singhiozza, non saprai se è una vera pena che cerca la tua simpatia o un dolore ingannevole che cerca la tua pietà finanziaria.

In Francia, come in Spagna, tu non avrai intorno a te nient’altro che bricconi, le parole e i gesti dei quali sembreranno una rappresentazione teatrale.

Le dame delle Halles smorfieranno lo stesso sorriso della madre Loubet. E colui che ti apre la portiera, generale o lucida-stivali, avrà la stessa flessione di schiena del signor Delcassé.

Senti, non avrai mai la gioia di conoscere una impressione vera. Attorno a te tutto è truccato.

Nel ventre di tua madre, tu eri già cosa d’apparato. Feto, tu conoscevi gli onori, la tua pipì, allorché eri in fasce, colava in concorrenza a ruscelli di sangue e di lacrime.

Se il lacchè o il re che ti generò avesse fatto il suo gesto in qualche altro ventre tu saresti potuto essere un uomo. Non sei che un re.

E dopo la tua nascita, tutto attorno a te è menzogna. I sorrisi, i pianti, i complimenti, le maledizioni, tutto è truccato.

Tu non sei un uomo, tu sei un simbolo. Il pugno che si alza al tuo passaggio, la maledizione che può risuonare al tuo orecchio, nemmeno questi sono per te. Tu non esisti.

La corona cinge la tua fronte come il collare di ferro chiude la gola dell’ergastolano. Tu non sei un uomo, tu sei un numero: il numero 13.

Poiché io abito in questa terra chiamata Francia, sembra che tu sia un po’ mio ospite. Cosa posso fare per te?

Mangerai, quando avrai fame e berrai, quando avrai sete. Perciò io chiudo a chiave il mio pane raffermo e la mia acqua fresca. Tu conosci gli agi del buon letto: io non dividerò il mio letto con te. Ciceroni e lacchè ti portano in giro per la città, non in rue Muller, a meno che tua madre non ti abbia raccomandato il Sacro Cuore piazzato nelle vicinanze, non mi muoverò quindi dal mio lavoro.

Ti si mentirà, labbra ti insinueranno parole all’orecchio. Io vorrei, voglio urlarti la verità.

Strappa la benda che mettono sui tuoi occhi e guarda, guarda, ti dico, guarda. Guarda laggiù, lontano, fino in Spagna. Il popolo è affamato. Quando tu sei partito, quella “guardia civile” che proteggeva i tuoi passi faceva gridare degli evviva, sono solo maledizioni che salgono in alto, verso te.

Ognuno dei tuoi passi fa scorrere lacrime. Dappertutto dove tu passi vi sono pause tetre. Si strappa il padre ai bambini, il figlio alla madre, l’amico all’amico. Tutti coloro che hanno alzato la testa, tutti coloro che hanno gettato in faccia, in faccia ai tuoi lacchè la maledizione, sono schiacciati dai tuoi emissari.

Non sei niente, sei solo un adolescente, e produci l’effetto della peste i cui precursori sono la morte e il dolore.

Hai la tara di essere re, probabilmente è peggio della tara di schiavo.

Non sei un padrone, non sei un forte, sei un re. Non hai bisogno di essere intelligente, d’essere sottile, lo sei per il caso di una eiaculazione. Nella storia, potrai chiamarti Alfonso il cretino o il pazzo. Sei comunque re. Tu non comandi, sei il manichino regale.

Nessuno conosce Alfonso, non si conosce che il XIII. Puoi essere dolce, affabile, spirituale, amoroso, nessuno lo saprà mai. Tu sei il rappresentante del regime che ha fatto Montjuich, Alcala del Valle e nelle prigioni che sembrano essere sotto i tuoi ordini si torcono le membra, si strappano le unghie.

Tu senti delle acclamazioni, io ti parlo di lacrime. Già, a me che posso sentirli, sono arrivati tanti gemiti, tanta desolazione e tanto odio che saresti terrorizzato se potessi solamente indovinarne la millesima parte...

Per imbottire il tuo ventre, si spreca ciò che potrebbe nutrire il ventre di migliaia di lavoratori.

Perché le tue notti si rischiarino come il giorno al sole dell’elettricità, molte donne devono curvare la fronte sotto il lavoro alla debole luce di una candela.

Fannullone, improduttivo, perché tu abbia dei palazzi, perché il tuo mantello sia disseminato di oro, perché la tua tavola sia apparecchiata con stoviglie eleganti, il tuo popolo crepa di miseria.

Sei l’Alfonso di un popolo, ma non avrai nemmeno i baci voluttuosi di una “parassita”.

Non avrai a tua disposizione che la carne legittimata dal numero che sarà legato al tuo per delle ragioni che ignorerai, o quella della cortigiana che si venderà a te.

Ventenne, tu non conoscerai l’amore.

Tu non sei uomo, sei un re.

Ti scrivo una lettera che non leggerai mai perché i re non sanno leggere.

Ti compiango scrivendoti, Alfonso, come me di carne ed ossa, con aspirazioni e desideri probabilmente generosi... e penso pertanto che, se fosse in mio potere, io ti distruggerei, te e i tuoi simili, con la coscienza di fare un lavoro utile.

Hai capito, numero tredici?


1 giugno 1905

Intorno a una morte

Un uomo è morto.

Tutta la cricca dei cortigiani, tutti i leccapiedi della stampa, tutti i necrofili hanno sbavato per lui, amabilmente.

Henri Rochefort e Lucien Descaves, quelli de “La Petite République” e quelli del “Matin” hanno fatto il panegirico del morto. Non delle sue idee... sempre vive, ma del corpo che entra in disgregazione.

Era l’anarchico modello, come bisogna esserlo, il buono, il puro. E la gente alla Jules Simon che aveva lavorato al suo sequestro, gli onesti dell’Ordine morale che avevano abbandonato la loro preda solo davanti al grido di indignazione, d’altronde virtuosamente interessato, della scienza universale, si lamentano su questa dipartita, di comune accordo. Coccodrilli e leccapiedi, basta con queste lacrime.

Io non conoscevo quest’uomo, non l’ho mai visto, egli non doveva nemmeno sapere che esistevo; ho avuto la fortuna di leggere la sua opera scientifica, di sfogliare la sua opera filosofica. E ho un’opinione da gettare su di lui. Quest’uomo, potente di per sé, era mediocre per le persone che lo circondavano, che lo frequentavano. Sottostava alla sorte comune ai forti; la cerchia dei fannulloni, degli imbecilli, di coloro che vivono solo del riflesso degli altri, impedisce la formazione degli anelli che devono tenere il cervello di coloro che pensano in rapporto costante con il cervello di coloro che possono agire. I cortigiani, i leccapiedi prendono il posto degli operai.

A volte, egli veniva a Parigi; io lo sapevo. Avrei avuto un gran piacere di vederlo. Egli si recava negli ambienti ridicoli dove solo gli snob si possono trovare, ove alcuni compagni erano schiacciati dalla mentalità banale. Le sue visite erano per degli intellettuali avanzati, degli anarchici di lettere.

Laggiù, in Belgio, potevano vederlo coloro che hanno mezzi pecuniari da consacrare ai viaggi di piacere. Quest’uomo non ha mai saputo niente dei veri sforzi fatti per continuare il lavoro che aveva così potentemente cominciato.

I graziosi gesti della sua vita hanno preso nell’immaginazione religiosa degli individui delle forme patriarcali che si parla di imitare, di ammirare senza comprendere. Per quanto armoniosa abbia voluto fare la sua vita, egli non ha potuto formare una vera famiglia anarchica ed io non ho incontrato i suoi figli, né i figli dei suoi figli, nella strada o nel gruppo, fianco a fianco con noi, che ci portassero l’appoggio della scienza e dello spirito che hanno potuto ricavare dalla loro speciale posizione.

Si conosce il particolare impegno di Louise Michel portato avanti fino alla morte. Uomini come Elisée Reclus, morto, come Kropotkin, vivente, non hanno potuto continuare il lavoro che tuttavia essi hanno così ben lanciato. Malgrado i loro desideri, questi uomini, così essenzialmente individui, non possono rompere con il terribile cerchio che le meschinerie borghesi ed operaie hanno tracciato attorno ad essi.

Essi non possono che buttare là dei pensieri, mettere insieme delle idee senza avere mai la gioia di sentire germinare le loro ragioni nel terreno dei cervelli capaci di viverle. I terreni in cui si depone il grano delle loro idee sono dei terreni esauriti, dei cervelli capaci solo di seguire.

Molti non sentiranno tutto il rispetto affettuoso che vi è nelle mie parole. Pretenderanno voler leggere in queste righe delle maldicenze o delle calunnie. Sarà solo della bassa invidia. Questa gente leggerà con i propri occhiali. Io non me ne curo. Reclus è morto, niente di ciò che io possa dire lo interessa più. Solo per i vivi è bene discutere.

Se i seminatori di idee, schiacciati ancora dai leccapiedi e dai cortigiani, leggessero queste righe, si scrollerebbero il loro collare di servitù, ed entrerebbero in rapporto diretto con gli uomini che possono agire, vivere le idee forti; allora le mie poche parole, nella loro stringatezza, sarebbero state più utili delle vili lodi che rassomigliano alla banale chincaglieria di cui sono caricati i carri funebri.


13 luglio 1905

La carne flaccida

A Parigi, siamo stati minacciati da una rivoluzione, senza quasi accorgercene.

Gravi perturbazioni nel servizio dei macelli di La Villette minacciano la nostra vendita.

Si sono lasciati arrivare alle orecchie indiscrete alcune briciole delle ragioni. Si è parlato di febbre aftosa. Ma oltre a questa, devono esserci altre ragioni che noi dobbiamo ignorare.

Dai macelli della città non dovrà uscire che della carne morta, ma dovrà entrarvi solo carne viva.

Andate a vedere. Le bestie entrano, tirate, spinte. Bisogna che esse entrino vive, anche con un soffio, solo un soffio, un niente.

E si smercia questa carogna contaminata per servire i sobborghi di Parigi, da Ménilmontant a Montrouge, da Belleville a La Chapelle.

Andate, operai del Macello, difendete i vostri “diritti”, andate garzoni macellai, difendete i “vostri”, bisogna che continuiate a servire la carne avvelenata.

Andate, conduttori di bestiame, girate e rigirate le vostre carni portatrici di febbre, dalla Beauce a Parigi, da Parigi a tutti gli operai delle regioni del Nord, dell’Ovest e dell’Est... Andate, venite a Parigi, contaminate i vostri animali o venite a portare il veleno preso altrove.

Cosa importano le azioni cattive, le azioni inutili, le azioni avvelenatrici? Bisogna vivere. E per vivere, bisogna lavorare. Ora, lavorare, è avvelenare, saccheggiare, rubare, mentire agli altri uomini. Lavorare, è mescolare fucsina alle bevande, fabbricare cannoni, abbattere e smerciare a quarti carne avvelenata.

Lavorare, è questo per la carne flaccida che ci circonda, questa carne che bisognerà abbattere e spingere nella fogna.


2 agosto 1906

Lo sciopero dei vivi

Da tutti i lati si sente un vago rullio precursore della tempesta. Nell’aria pesante, fluttua un veleno sottile. A destra, a sinistra, sentite che a poco a poco vi possiede. Entra in voi da tutti i pori.

Questo veleno terribile è innominato e innominabile ed è probabilmente da ciò che viene la sua potenza.

È la stanchezza, il disgusto della vita; è il desiderio di essere, infine, al di fuori dalle mille turpitudini, dalle mille sofferenze che essa porta.

Non si sa quale nausea sale al cuore di fronte alla società, si vuole lottare, ma invano e lentamente, lentamente, si discende verso la morte.

Ed è questo uno sciopero, il più terribile di tutti gli scioperi: è lo sciopero dei vivi.

In tutte le ore, e senza parola d’ordine, si lasciano i cantieri: la vita, e si entra nell’eterno riposo.

Le spalle si curvano, le braccia si rilasciano, i cervelli si annullano, le energie si accasciano e si va verso la morte.

Si va, si va così, come a una partita di piacere, come a un viaggio d’amore.

Là, vi sono degli innamorati cui è stato impedito di amarsi e che se ne vanno, le labbra unite, dopo aver saggiamente avvertito i loro parenti della causa e degli effetti.

Qui vi è un padre, una madre che portano con loro tutta la nidiata di piccoli prendendo tutte le precauzioni come si fa per un lungo viaggio.

Non si va più al suicidio sotto un attimo di collera o di passione; vi si va freddamente, riflettendo, pesando i pro e i contro; i mille dolori dell’essere e il tranquillo e avito desiderio del non-essere.

Ci si para, in quest’occasione, con gli abiti della festa; si lascia sul caminetto la nota per il proprietario o per il debito col panettiere. Si va, rispettando come un testamento questo pregiudizio che tuttavia vi fa morire: l’Onestà del Dare e dell’Avere!

Non si tratta più del suicidio banale del disperato che se ne va, tutto solo, per una sofferenza personale; è il suicido collettivo, in coro: è il rimedio cercato a una sofferenza generale.

La madre porta il bambino, l’uomo non dimentica il vecchio, suo padre.

È la fine, è lo sfacelo, è lo sciopero... lo sciopero dei vivi.

Andiamo, signori politicanti, ecco un nuovo trampolino, lanciatevi, cominciate dunque la trama della filosofia dolorosa di questo sciopero.

Chi sarà dunque l’interprete di queste sofferenze, di questi scioperanti di fine secolo, per poco che l’endemia si propaghi? Chi porterà avanti le loro rivendicazioni di fronte alla società, a questi stanchi della vita, a questi funebri amanti della morte?

Nessuno lo potrà, perché è contro di noi tutti che essi si levano: disonesti o poltroni. Perché siamo noi tutti la causa della loro morte: sfruttatori o sfruttati, banditi o vigliacchi. Ma anche per te borghese, ecco arrivare un momento terribile, è lo sciopero delle braccia, lo sciopero degli schiavi, questo sciopero dei vivi.

Ah! questo suicidio che ti faceva sorridente o impassibile ecco che minaccia di divenire un’epidemia terribile. Lo sciopero si annuncia, lo sciopero si dichiara.

Chi ti servirà dunque? Chi ti nutrirà?

Ventre!... Ecco l’ora dello sciopero delle membra che suona alla torre della miseria.

Tu avevi regolato tutto così bene: gli incidenti, le malattie, anche la miseria per trattenerli, l’odio fra i poveri, l’odio fra le nazioni. La pletora dei vivi non aveva nulla a che temere.

Ma ecco che ora ti spaventi: l’uomo non si difende più dalla morte, le va incontro.

È arrivato questo sciopero che produce questo risucchio terribile, questo rullio spaventoso. Sorrido di tutti gli altri di cui si parla e che servono da titoli per i giornali, ma questo, solo questo mi dà da pensare, perché nessuno ne parla e tuttavia arriva, terrificante e impetuoso.

Nessuno può impedire alla morte questa strada, finché la vita sarà lupanare per gli uni, bagno per gli altri, finché vivere significherà soffrire.

Ma questo sciopero dei vivi non potrà apportare un contingente di forze per coloro che restano? Poiché dalla morte rinasce la vita, questi cadaveri semineranno inutilmente?

Quest’avida voluttà di lasciare la vita non comporta un desiderio di vendetta ancora più aspra?

Oh fratelli miei stanchi, fratelli miei sofferenti... lo sciopero dei vivi sarà anche lo sciopero del lasciar fare, lo sciopero delle braccia incrociate?


2 maggio 1907

La brutalità poliziesca

Un signor Cornand, deputato dell’Isère, è stato arrestato e condotto al posto di polizia per essersi rifiutato di circolare. Gli agenti, che conoscevano la sua “qualità” di deputato, l’hanno malmenato, scombussolato, si sono burlati di lui.

Egli ha creduto dover interpellare il governo. La sua interpellanza è stata comica. Clemenceau e la maggioranza, stavo per dire lo sbirro e la folla, hanno ridimensionato questo individuo che turbava l’Ordine pubblico e osava accusare la Polizia.

Clemenceau si è girato verso l’individuo e gli ha detto: “La vostra qualità di deputato non vi autorizza a levarvi contro una legge qualunque essa sia”.

Cornand abbassò umilmente la testa. Fu così pietoso che “L’Humanité” non osa parlarne e “L’Eclair” si rallegra.

Questo deputato – poiché nel caso presente bisogna considerarlo come tale – avrebbe dovuto capire in quale modo, con quale brutalità, altre persone arrestate sarebbero state trattate; riflettere se la brutalità poliziesca fosse stata negligente su un semplice particolare e in una occasione che sfugge interamente alla pubblica inchiesta.

Quest’uomo che si batteva il petto e parlava della sua qualità di deputato per domandare come si erano potuti credere autorizzati ad arrestarlo, quest’uomo avrebbe dovuto stracciare una lettera in cui gli era stato detto che al momento in cui era stato arrestato, lo erano state anche altre persone con la stessa accusa. Portate al posto di polizia, esse furono picchiate così duramente che, malgrado la menzogna dell’accusa provata, si fu obbligati a fabbricare dei verbali contro tutti, perché uno dei quattro non potesse mostrare le tracce dell’attentato poliziesco.

Quest’uomo lo sapeva. Dal tono della lettera, davanti la precisione delle testimonianze, dopo ciò che gli era successo, egli era ben convinto che essa era l’espressione della verità: ma era deputato e non si conosceva che questa qualità. La sorte degli altri uomini non poteva toccarlo. Invece di allargare il dibattito, di mostrare l’agente in tutta la sua rudezza, padrone della strada, mentre terrorizzava la popolazione sotto il peso dei suoi pugni, dei suoi piedi, e la paura dell’arma temibile delle sue testimonianze e dei suoi verbali bugiardi, egli ha tenuto a piazzarsi sul piedistallo della sua mediocrità parlamentare. Ha fatto di un meschino incidente il tema per un’interpellanza, allorché poteva mettere di fronte ai suoi “colleghi” l’orribile tragedia di una popolazione intera presa nelle maglie della rete poliziesca.

Colui che è stato portato al posto di polizia, abbia torto o ragione, non uscirà che se ciò piacerà all’agente. Andrà al Dépôt, alla Santé o a Saint-Lazare, secondo il sesso. Niente prevale sulla testimonianza dell’agente. Che avete fatto? Avete riso – questo diventa ghignare. Avete parlato forte – questo diventa urlare. Non vi siete “spostati” all’ingiunzione che vi è stata fatta – questo diventa scompigliare e spingere i passanti. Il vostro crimine sta nel non aver fatto piacere all’agente. Perché? Egli non ne sa niente. Quello che è certo, è che dormirete al posto di polizia, che andrete al Dépôt, che passerete dall’antropometria.

La tirannia poliziesca è sempre pericolosa e cattiva. Essa è divenuta, dopo l’allettamento e la bassezza di Clemenceau nei suoi riguardi, dopo aver ridotto tutti gli individui a sbirri potenziali, una tirannia terribile e bestiale.

Io non vado più in strada – e così facendo, io non rido, non mi diverto –, io non esco più che dopo aver agito come se partissi per un viaggio, poiché io ho il timore, la paura di non rientrare più.

Sì, ho paura, ho paura di cedere all’impulso di rivolta che mi prende tutto davanti l’arbitrio e la brutalità poliziesca; ho paura di cedere al desiderio che mi viene di saltare alla gola di uno di questi valletti che scombussolano un vecchio, che trascinano una donna o che terrorizzano un uomo. Ho paura che per aver colpito leggermente uno di questi boia della libertà individuale, io possa perdere ancora di più le mie facoltà di pensiero e di azione.

E tuttavia sento, di fronte all’oppressione della marmaglia poliziesca, che bisognerebbe avere l’energia di agire altrimenti.

Vengono arrestati coloro che turbano i governi con i loro scritti e le loro parole; vengono espulsi, su ordine di una polizia qualsiasi, coloro che vengono a chiedere asilo; si torturano degli uomini devastando i loro visi col fuoco per ottenerne le confessioni. Si possono trovare allora delle voci che si levano, della gente che s’indigna contro questo arbitrio.

Ma tutti i giorni, uomini, donne, bambini sono afferrati, brutalizzati, rinchiusi, strappati alla loro vita quotidiana per una parola, uno sguardo, per un capriccio dell’agente che passa. E nessuno dice niente, perché questa è legalità.

La tirannia più riprovevole non è quella che prende l’aspetto dell’arbitrario, è quella che viene coperta dal marchio della legalità. Non è quella che infierisce contro la rivolta, è quella che fa sì che la rivolta non esista più.

Il cervello si sviluppa solo negli uomini liberi. Sotto la sferza del maestro, l’intelligenza del fanciullo si infiacchisce; sotto la maligna tutela della legge, sotto il manganello dello sbirro, le volontà individuali sono schiacciate.

La polizia uccide il pensiero e l’azione. Gli uomini non possono vivere in questa atmosfera di arbitrio legale. Solo gli schiavi possono resistervi. Se non si reagisce contro questo regime che tiranneggia il corpo e il cervello, l’evoluzione umana si arresterà certamente.

L’agente che bastona e che mente non gioca forse col fuoco allorché fa pesare pesantemente la sua qualità di bruto sul cervello di coloro che invece pensano e ragionano?

L’agente che uccide e calunnia non teme il ferro allorché abbranca con le sue mani di sfaticato le braccia di coloro che lavorano e che producono?

Questo simbolo dell’autorità crapulona, troverà sempre davanti ad esso dei rassegnati?


30 maggio 1907

Il colera avanza...

La stampa ha aperto una nuova rubrica. Accanto a quelle degli Incendi, degli Assassinii, dello Sport e dei Teatri, sorge terrificante: Il Colera.

La tragica avanzata dell’epidemia è seguita passo passo e i cadaveri che essa semina sulla sua strada sono ansiosamente contati. La paura ne fa moltiplicare il numero in modo fantasmagorico, allorché la prudenza ne fa nascondere il quantitativo, con un calcolo ridicolo.

Tutti i giorni, vi sono centinaia di morti.

Da Manila a Pietroburgo, attraverso l’Asia intera, la Cina e la Siberia, il flagello entra nel cuore dell’Europa. Traverserà le acque del Pacifico, guadagnando quelle dell’Atlantico, disdegnando di percorrere lo stretto sentiero di Panama per prendere la grande strada delle terre, allo scopo di ammucchiare cadaveri su cadaveri? Nessuno lo sa.

Tutti i giorni vi sono centinaia di morti. Cos’è questo se non l’olocausto pagato al mostro per soddisfare la sua fame di morte, la sua sete di vendetta? Ma questo lavoro di necrofilo non interromperà la sua marcia. Esso va, va...

Il colera avanza.

Allora, coloro che sono felici, coloro che per assicurarsi la loro felicità giocano con la vita degli altri, coloro per cui la sofferenza degli altri, i mali degli altri non contano, costoro sono presi dalla paura.

Davanti ai soliti disastri, l’epidemia ordinaria, il ricco fugge lasciando la città attaccata in preda al flagello. Ma il colera avanza, avanza sempre e, se va lentamente, procede sicuro. Fuggire davanti ad esso, non è che ritardare l’istante in cui vi prenderà allo stomaco, per portarvi alla morte.

E dove scappare, d’altronde? Se esso è dietro di noi, verso Pietroburgo, non è anche davanti a noi, verso Manila? E se non gli costa niente attraversare gli immensi deserti di terra del Gobi e della Siberia, che gli costerà superare gli immensi deserti di mare del Pacifico?

Il colera avanza... bisogna dunque arrestarlo.

Uno strano desiderio di solidarietà nasce da questa paura e da questo bisogno. Gli uomini sentono infine che sono uomini, e che non vi è ricco e povero di fronte a questo nemico del genere umano, di fronte al colera.

L’indifferenza del ricco si fonde, davanti alla prova comune, con la debolezza del povero.

I fortunati si accorgono d’un tratto che vi sono dei disgraziati che vivono dei resti della loro tavola, delle briciole della loro felicità. Si accorgono che accanto ai loro palazzi, alle loro ville, alle loro confortevoli dimore, vi sono dei tuguri, delle capanne, delle caserme, in cui si intasa il resto dell’umanità. Si accorgono che il loro lusso è pagato dalla miseria altrui.

Essi hanno paura... e capiscono, di colpo, che una solidarietà li lega agli altri uomini, che sono qualcosa solo per essi, e che lo stesso male che uccide il povero ucciderà anche loro senza pietà...

E il ricco preoccupato sente il suo cuore aprirsi alla pietà, sanguinare alla vista del dolore del povero.

I giornali ci dicono che a San Pietroburgo “è stata aperta una sottoscrizione nazionale, e i crediti che permetterà di realizzare saranno impiegati per dare ai poveri della città un nutrimento più sano e dell’acqua bollita”.

Amara ironia... Il ricco che non ha saputo consacrare qualche istante della sua vita per preservarsi, si sente minacciato nella sua stessa vita se non partecipa alla difesa contro il male che prende tutti.

La solidarietà lega gli uomini attraverso le frontiere della fortuna, le demarcazioni delle patrie, gli odi delle razze. E quel patriota che ride della fame in Indocina, quel cattolico romano che gioisce delle persecuzioni che si abbattono sulle razze semitiche, quel ricco indifferente al male della fame e del freddo che distrugge il suo vicino, tutti sono obbligati a riconoscersi solidali con coloro il cui dolore non li interessava.

La fame ha portato gli Indiani a gettarsi su innominabili rifiuti e il colera li ha presi; i Semiti, scacciati dalla persecuzione, hanno trasportato il male e i Poveri, al di fuori di tutte le leggi dell’igiene, sono stati, rapidamente, il terreno di coltura che ha permesso al male di espandersi in pieno nelle città civilizzate.

Questa solidarietà mostra tutta la debolezza, tutta la menzogna dell’attuale società; di questa organizzazione in cui si pensa di potersi occupare solamente del benessere di una minoranza, senza pensare che anche al di fuori dei processi rivoluzionari, le leggi di affinità rendono comuni, un giorno o l’altro, i mali che colpiscono la maggioranza.

E tuttavia, trovo che il tributo pagato dall’umanità sia stato abbastanza leggero. Vorrei che vi fossero più morti e che il mostro fosse più insaziabile di vite umane.

Il colera avanza...

E tuttavia, trovo che va molto lentamente, troppo lentamente, e, costi quello che costi, vorrei vederlo passare attraverso quella Germania militarista e questa Francia coccardiera che gioiscono anche adesso dei recenti successi delle differenti manovre.

Sì, vorrei che la lezione fosse più crudele ancora e che, davanti al male terrificante, gli uomini apprendessero infine che devono utilizzare tutte le loro forze, tutte le loro possibilità per lottare in comune associazione contro la natura per il più grande benessere di tutti.

Sì, vorrei che gli uomini comprendessero che non è possibile disinteressarsi del male di alcuno e che un’organizzazione sociale in cui qualcuno è dimenticato porta in sé la fessura che scuoterà tutto l’edificio.

Governanti, economisti e politici, finanzieri e legislatori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: sono le vostre cattive leggi, è la vostra avidità di guadagno, il vostro desiderio di godimento mai sazio che fanno sì che milioni di uomini siano la preda designata dell’epidemia.

Sfruttati economicamente, pecoroni polizieschi, operai ed elettori, voi avete scatenato il colera sull’umanità: è la vostra tacita accettazione, la vostra passività di fronte allo sfruttamento, la vostra rassegnazione davanti alla sofferenza, davanti alla miseria, il vostro consenso all’abiezione e alla sporcizia che fanno di voi tutti il campo in cui scorazzeranno presto i corvi della morte.

Il colera avanza...

E che, è dunque così temibile, questo bacillo, che gli uomini tremano di paura quando lo si evoca?

Sì, è temibile e sarà temibile fintanto che le forze umane si consacreranno a togliersi l’un l’altro il pane necessario, a disputarsi la loro parte di felicità e di vita.

Sarà temibile fintanto che gli uomini saranno divisi da forze contraddittorie che lottano fra esse: fintanto che vi saranno Tedeschi e Francesi, Russi e Giapponesi; fintanto che vi saranno padroni ed operai, ricchi e poveri.

Sarà temibile fintanto che gli uomini useranno la loro vita per costruire fucili, sciabole e cannoni per lottare contro altri uomini; fintanto che le donne sapranno da altre persone delle minaccie di guerra o dei corsi delle borse finanziarie. Allorché questi uomini potranno lottare contro il male aumentando la ricchezza di tutti; allorché queste donne potranno dedicarsi ai fanciulli per farne uomini sani e robusti; gli uni e le altre potranno conoscere ed applicare le leggi dell’igiene che li preserveranno dagli attacchi del male.

Perché questa lezione sia proficua, per dimostrare a chiare lettere a tutti l’atrocità delle leggi sociali ed economiche, l’assurdità criminale della proprietà e del salario, la menzogna del patriottismo e delle religioni, non sono sufficienti le molte migliaia di cadaveri sparsi nei campi di battaglia e durante gli scioperi; non sono sufficienti le tante vittime delle rivoluzioni e del grisù; non sono sufficienti nemmeno le migliaia e migliaia di esseri umani uccisi sotto i continui e atroci attacchi della miseria...

... Tutto questo non basta, oh povero, per vincere la tua passività, la tua rassegnazione; oh ricco, per vincere la tua arroganza, la tua lussuria e i tuoi appetiti...

... Ebbene sia,... che il colera avanzi...

Che avanzi presto attraverso l’Europa corrotta dal lusso e dalla miseria, che si apra varchi attraverso l’umanità; che svuoti i palazzi e le capanne sotto i suoi terribili attacchi ...

... Allora, può essere, gli uomini si ricorderanno che sono uomini e agiranno come uomini; allora solamente, consacrando tutto il loro spirito, tutte le loro forze contro il comune nemico, scacceranno il male e potranno conoscere la felicità.

Il colera avanza...


24 settembre 1908

Chiquenaudes e croquignoles [1]

Distributori automatici

I giurati diventano sempre più dei distributori automatici di e di no.

Risolvono con uno di questi monosillabi le questioni più imbrogliate. Per Philip ve n’erano 26 soltanto ma per l’affare di Amiens, ve ne erano non meno di 676.

Non sarebbe possibile rimpiazzare le loro orecchie con delle feritoie a moneta per distributori dal quadrante colorato che oggi si trovano in tutti i bar, e le parole accusatrici del pubblico ministero con alcuni gettoni sonanti? I responsi non sarebbero più stravaganti.

Ciò avrebbe un vantaggio, sarebbe più facile andare a cercare gli apparecchi presso il fabbricante per stanare i giudici quando la forte paura tiene a letto questi difensori della società borghese, meglio ancora, le macchine non si cacherebbero nelle mutande come alcuni di questi signori fecero durante il processo Jacob.

Sarebbe più pulito e più regolare, poiché quando si affida al caso la testa del proprio prossimo non si opera mai molto bene.


20 aprile 1905

Piccola storia operaia

Un guardiano in servizio, facendo il suo giro nella divisione della Bourse du Travail incontrò nella scala B un individuo che si era addormentato leggendo “La voix du Peuple”. Lo svegliò e gli chiese i documenti. Poiché l’uomo rifiutò di mostrarglieli, lo condusse alla Commissione amministrativa, dove l’uomo li esibì.

Dopo la constatazione del suo stato civile, della sua professione di panettiere, l’uomo è stato rimesso in libertà.


20 aprile 1905

Interessi e capitale...

I compagni anarchici sono dei cattivi pagatori.

Essi imbrogliano anche la signora Giustizia.

“Le Petit Parisien” ne è desolato, esso fa il conto delle somme dovute per spese di giustizia dai terribili propagandisti col fatto. I grandi processi costarono 17.043 franchi e 65 centesimi. Per coprire la spesa la Signora fece vendere all’asta il mobilio di Ravachol. Non era alloggiato come un principe, lo sporco individuo: questa vendita apportò solo 114 fr. e 25. Restavano dunque circa 17.000 franchi, senza contare il processo Caserio.

Consolati, figlia sottomessa, puttana della borghesia, faremo onore ai nostri debiti. Si pagherà, un giorno, interesse e capitale, parola d’animale.


15 giugno 1905

Dalla Mansarda al Palazzo

“Le Figaro” ci parla della mansarda di Léon Gambetta. Gli piace mostrarci da dove è partita questa stimabile crapula nazionale.

A noi importa poco. Egli è crepato. Non ci si parli delle scarpe scalcagnate di Doumer quando veniva a discutere a Montmartre, o dei pantaloni strappati di Gérault-Richard quando vendeva verdura per le strade!

Dalla Mansarda al Palazzo, passando dalla fogna politica o dalla fogna capitalista, è tutta una storia da scrivere.


11 gennaio 1906

Ai buoni capomastri

Chi ricorda Pélissier, guardiano di Derriey, che il compagno Pivoteau un mattino giustiziò per ricordargli che a volte fra gli operai vi sono degli uomini? Nessuno, certamente.

La vedova e il suo bambino reclamavano al signor Derriey un risarcimento pecuniario appoggiandosi sulla legge per gli “incidenti sul lavoro”.

Il tribunale fa vincere la causa al padrone e rigetta la richiesta di ogni reclamo. Andate cani e capomastri, siate zelanti. Ecco cosa vi attende!


11 gennaio 1906

Il segreto del voto

Ah! quale felicità! andiamo a votare tranquillamente.

L’abbiamo, la nostra Cabina.

Ah! Il bel lavoro. I giovani senza domicilio ne hanno trovato uno, ogni quattro anni, per lo spazio di un minuto.

Un sovrano senza domicilio, non era possibile. Ora è stato dato alloggio a Sua Maestà. Il Popolo sovrano ha il suo palazzo.

Vi era il Louvre, il Cremlino, l’Eliseo, l’Escuriale, ora vi è la Cabina.


15 febbraio 1906

I soldati tuttofare

La folla li segue ... e grida abbasso? ... No, essa li acclama, i piccoli soldati tanto amati, che negli scioperi violenti ammazzano il loro padre o che lo rimpiazzano negli scioperi pacifici.

I piccoli soldati tuttofare cui si offre un bicchiere, il bicchiere della staffa, parassiti della società, i piccoli soldati sono gli ascessi che bisogna distruggere.

A tutte le necessità, a tutte le opere, essi prestano il loro braccio, il loro cervello e a volte anche più. Lucidatori di pavimenti, accompagnatori della colonnella, vuota-catini, guardiani di fabbrica e di cessi, eccoli i piccoli soldati di Francia.


19 aprile 1906

Il contratto tre-sei-nove

È un contratto rococò che si accetta solo negli affari commerciali.

Negli affari d’amore e di libera unione, prende un altro nome.

È il contratto due-quattro-sei che Alexander Berkman e Emma Goldman hanno appena inaugurato impegnandosi, in presenza di testimoni, a vivere insieme per due anni.

Se questa storia li divertirà, essi la ri... ricominceranno per un nuovo lasso di tempo.

Il primo piroscafo ha portato alla vecchia Europa la forma appassionante del contratto d’amore anarchico.


5 luglio 1906

Le suffragette

In Francia, è stato constatato che la malattia del voto atteneva solo al sesso maschile. In Inghilterra, il carattere endemico di questa malattia è tale che gli individui del sesso femminile sono seriamente minacciati.

Quello che vi è di comico, è che le donne domandano gridando il diritto di votare, come i marmocchi domandano il diritto di fumare.

Come ci si tiene ad abbrutirsi!


1° novembre 1906

Un rapido “de profundis”

Come se si trattasse di un banale fatto diverso, un articolo di Ernest Judet ci comunica il suicidio di Emile Joindy. L’uomo si è ucciso dopo essersi pentito lungamente del suo rivoluzionarismo.

Egli ingombrava le tribune dreyfusarde con la sua nullità e urlava contro i nazionalisti che poi faceva uccidere.

La filosofia di questi socialisti – così rivoluzionari – è talmente forte che, se questo riesce, divengono ministri e se questo fallisce si uccidono recitando dei mea culpa.

Ancora un rottame di questo famoso P.O.S.R. che va a finire nella fogna. La carogna più puzzolente non è certamente quella che è crepata!


15 novembre 1906

Il culto della carogna

Cosa non potrei piazzare in questa rubrica, tutte le settimane, se non pensassi di divenire fastidioso, se non temessi di ripetermi? E tuttavia non bisogna alzare e abbassare la scure per tanto tempo fin quando l’albero resta dritto?

Quanto vi è di ridicolo in quest’inchiesta che sta portando avanti “L’Humanité”, i socialisti, per ottenere la perpetua concessione del famoso muro dei Federati, l’insieme delle ossa di coloro che sono caduti per il diritto politico o per il diritto comune, l’elevazione di un qualsiasi monumento.

Quale frode sentimentale riunire le opinioni di pagliacci sanguinosi come Claretie o Gallifet o quelle di pagliacci comici come Coppée e Descaves

Coppée-Descaves, imbroglioni-mentitori. Il perdono e la preghiera dell’uno, l’indignazione e la sottomissione dell’altro, stessi gesti studiati.

“Onorevole sepoltura ai morti”, dice Gallifet. Spaziosa abitazione ai vivi, rispondiamo noi.

Si rinchiudono i vivi in prigioni nuovo stile e i morti in sepolture onorevoli. Lasciamo dunque l’idea degli uni e degli altri germinare lontana dal rispetto e dall’inferno.

Non è il culto della carogna che bisogna avere. Che le ossa di Louise Michel e dei federati vengano gettati al vento e non ingombrino con il loro residuo l’ambiente dei vivi, che la bontà dell’una e il coraggio degli altri divengano, se non un esempio sul quale modellarsi interamente, almeno una preziosa indicazione da seguire.

Ancora

Sulla tomba di Vaneau, “ucciso il 29 luglio 1830 mentre difendeva le libertà civili contro gli abusi del diritto divino”. Per dirla col ventesimo secolo, “ammazzato per aver manifestato nella strada contro gli abusi di un qualsiasi Clemenceau...”. Sulla sua tomba, nel cimitero di Montparnasse, si sono riuniti gli allievi del Politecnico.

Ancora una cerimonia grottesca e menzognera, ancora un ricordo falso e fazioso. Nessuno dei ventenni, che venivano ad arringare o a bighellonare su quella tomba, sapeva il perché del gesto. Erano gli stessi che dimenticavano di cantare le loro abituali oscenità e di gridare abbasso Hervé ed acclamavano l’esercito. Erano gli stessi che, domani, obbedendo anonimamente ad un ordine governativo, avrebbero fatto fucilare la folla che reclamava il pane e la libertà.

Il culto della carogna è un’ipocrisia.


1 agosto 1907

Nota storico-biografica

1875-1888.

Nascita di Albert Joseph, detto Libertad, a Bordeaux, il 24 novembre da genitori sconosciuti. Infermo di ambedue le gambe, camminerà tutta la vita con le stampelle. Allievo della Gironda, studia presso il liceo di Bordeaux, successivamente viene messo a lavorare presso un imprenditore per diciannove mesi. Viene poi rimandato all’ospizio dove era stato allevato ma fugge poco tempo dopo. Nel 1881 ha luogo a Parigi il Congresso regionale del Centro che segna la rottura definitiva fra i socialisti e gli anarchici che preconizzavano la “propaganda col fatto”. Tra il 1884 e il 1886 appaiono a Bordeaux cinque numeri de “La Revue anarchiste internationale” e diciassette numeri del “Forçat du travail“, organo comunista anarchico.

1889.

Emile Pouget fa uscire “Le Père Peinard”.

1891.

Dardare e Decamps vengono condannati pesantemente per la loro partecipazione alle manifestazioni del Primo maggio

1892.

Ravachol viene condannato a morte e giustiziato l’11 luglio.

1894.

Libertad diviene contabile. Conosciuto per le sue opinioni anarchiche, è già sorvegliato dalla polizia. Vengono giustiziati Vaillant, Henry e Caserio. Processo dei Trenta, accusati per associazione a delinquere. Inizio dell’affare Dreyfus.

1895.

H. Dupont e Martinet pubblicano “La Renaissance”, quotidiano anarchico individualista. Rientrato in Francia, Pouget riprende le pubblicazioni de “Le Père Peinard”. Congresso internazionale di Londra.

1897.

Libertad viene a Parigi e si presenta alla sede de “Le Libertaire”, fondato due anni prima da Sébastien Faure e al quale collabora nell’anno successivo. Comincia a farsi conoscere negli ambienti individualisti per la sua eloquenza e per la violenza contro i suoi avversari. Il 5 novembre, Libertad viene condannato a due mesi di carcere. Al Congresso di Tolosa, la C.G.T. adotta il rapporto presentato da Delesalle, Cumora e Pouget sul boicottaggio e sul sabotaggio.

1898.

Libertad collabora a “Le Libertaire” e tiene delle conferenze a Parigi e dintorni. Viene condannato a 1 franco di ammenda il 23 aprile. Da marzo a giugno “Le Libertaire” viene spostato a Marsiglia. Il 12 novembre, Libertad, Janvion e Vivier partecipano ad una riunione “pubblica e contraddittoria” su “la rivoluzione violenta” organizzata a Parigi.

1899.

All’inizio dell’anno, Libertad viene arrestato nei pressi del palazzo di giustizia durante il processo a Guérin. Faure e Pouget lanciano un quotidiano “dreyfusardo”, “Le Journal du Peuple”, cui partecipa anche Libertad, insieme a Malato, Pelloutier, Delesalle, Janvion, ecc. Libertad continua a collaborare alla redazione de “Le Libertaire”. Nel novembre viene condannato a otto giorni di prigione. Dreyfus viene condannato per la seconda volta dal consiglio di guerra di Rennes.

1900.

Libertad si reca ad Amiens e partecipa a diverse riunioni. A Nanterre, conosce Paraf-Javal, insieme al quale, due anni più tardi, organizzerà le “Causeries populaires” (Dibattiti popolari).

1901.

Libertad è ammesso al Sindacato dei correttori. Viene condannato a tre mesi di carcere per aver gridato “Abbasso l’esercito”. Insieme a lui viene condannato Léon Jouhaux, allora anarchico.

1902.

Nel mese di ottobre, fonda le “Causeries populaires” e apre una biblioteca in via Deméril. Insieme a Beylie, Janvion, Paraf-Javal e Yvetot, fonda una Lega antimilitarista.

1904.

Congresso antimilitarista di Amsterdam. La lega antimilitarista vi partecipa ma Paraf-Javal e Libertad, partigiani della diserzione, rifiutano di sottomettersi alle decisioni prese dal congresso e lasciano l’organizzazione.

1905.

Incoraggiato dal successo delle “Causeries populaires”, Libertad fonda, insieme alle sue compagne Anna e Armandine Mahé, il settimanale “l’Anarchie”. Attentato contro Alfonso XIII re di Spagna, che si trovava in visita a Parigi. Malato e altri tre anarchici incarcerati perché accusati di avere organizzato l’attentato vengono successivamente liberati. Libertad tiene delle conferenze sui “vivi e i morti” e su “i lavoratori della morte”.

1906.

All’inizio dell’anno, “l’Anarchie”, che è al suo quarantesimo numero, lascia via Muller e si installa in via Chevalier de la Barre. Alla vigilia delle elezioni legislative, “l’Anarchie” pubblica e diffonde degli opuscoli e due manifesti antielettorali: Le Bétail électoral e Le Criminel. Una polemica prende piede tra Libertad e Faure, partigiano quest’ultimo del non-intervento degli anarchici nella campagna elettorale. Libertad è tipografo nel turno di giorno nella tipografia Dangon. Per celebrare la “festa nazionale” (il 14 luglio), “l’Anarchie” stampa 100.000 esemplari di un manifesto: La Bastille de l’autorité. La catastrofe di Courrières nel Passo di Calais fa 1.200 vittime fra i minatori. Libertad pubblica un articolo sul fatto con lo pseudonimo di Candide. Riabilitazione di Dreyfus da parte della Cassazione. È sempre intorno al 1906 che avviene la rottura tra Paraf-Javal e Libertad e che sarà seguita da incidenti violenti in cui si scontreranno gli individualisti delle “Causeries populaires” e de “l’Anarchie” e i partigiani di Paraf-Javal riuniti nel gruppo di studi scientifici. Successivamente (nel 1908), nel corso di uno di questi scontri, Paraf-Javal e un altro membro del suo gruppo saranno feriti. Le ostilità continueranno anche dopo la morte di Libertad. (“Bulletin du C.I.R.A.”, n. 21, autunno 1970, Losanna).

1907.

A partire dal mese di aprile, “l’Anarchie” viene stampata personalmente dai compagni in via Chevalier de la Barre. Il 20 aprile Libertad tiene una conferenza sulla “gioia di vivere” in occasione dell’inaugurazione della macchina da stampa e dell’entrata de “l’Anarchie” nel suo terzo anno di vita. Il 30 giugno, Libertad viene condannato a un mese di prigione. All’uscita da una riunione delle “Causeries populaires” in via Chevalier de la Barre, Libertad e alcuni amici vengono picchiati dai poliziotti. Libertad viene lasciato per morto sulla strada. Per giustificare questo pestaggio, la polizia arresta sei persone. In risposta viene organizzata una riunione il 19 luglio. “L’Anarchie” crea l’associazione “Amis libres” a Châtelaillon. Dal 24 al 31 agosto si tiene ad Amsterdam il Congresso anarchico internazionale. Alla fine di questo congresso, si costituisce l’Internazionale anarchica. Malato, utilizzando il fatto che Libertad ha sollecitato, tramite una lettera di cui ha potuto prendere conoscenza, un impiego di correttore presso uno dei suoi antichi datori di lavoro per far fronte alle spese per la pubblicazione de “l’Anarchie”, fa, in una pubblica riunione, delle insinuazioni malevoli nei confronti di Libertad che accusa di compiacenza nei confronti del padronato. “L’Anarchie” reagisce immediatamente e pubblica la lettera incriminata (“l’Anarchie”, n. 128, 19 settembre 1907). Nell’ottobre, Libertad si reca in Svizzera dove tiene delle conferenze sulla “gioia di vivere” e sul sindacalismo. Nel novembre, viene arrestato e rinchiuso nel carcere de la Santé. Viene liberato il 7 gennaio successivo.

1908.

All’inizio dell’anno si reca nuovamente in Svizzera per conferenze sui “gesti inutili” e sull’amore libero. Arrestato alla stazione di Ginevra, viene condotto nel carcere di Saint-Antoine dove resta otto giorni nelle segrete. Paraf-Javal, che nel frattempo si è separato da “l’Anarchie” e dalle “Causeries” per creare il Gruppo di studi scientifici, pubblica Evolution d’un groupe sous une mauvaise influence. Les Causeries populaires et le journall’Anarchiesous l’influence de L..., opuscolo in cui si lascia andare a delle accuse senza una prova convincente. Il 24 settembre, la partenza della “classe” dà a Lorulot, Libertad e Marceau Raimbault l’occasione per organizzare una “grande conferenza antimilitarista”. Libertad muore all’ospedale Lariboisière, a Parigi, il 12 novembre. Sulle cause della sua morte si sono avute differenti versioni: Libertad sarebbe morto sotto i colpi dei poliziotti – questa è la versione più frequentemente avanzata – in seguito ad uno scontro (cfr. per esempio A. Colomer, Le Roman des bandits tragiques, in “La Revue anarchiste”, n. 12, dicembre 1922. J. Tournebroche, La Réponse de Libertad, in “l’Anarchie”, n. 16, gennaio 1927: «Povero Libertad, i tuoi “rapporti” con la polizia furono suggellati da percosse e il tuo corpo fu ben vigoroso nell’incassare i colpi... fino a quando, trascinato per i capelli dalla soglia delle “Causeries populaires”, 22, Chevalier de la Barre, fino a via Ramey, fosti selvaggiamente preso a calci dagli sbirri in uniforme che, sistematicamente, ti saltarono addosso sul petto e sul ventre. Avevano deciso di ucciderti!». A. Croix, Le terrorisme anarchiste, in “Le Crapouillot”, gennaio 1938. R. Manevy, P. Diolé, Sous les plis du drapeau noir, Parigi 1949. Y. Blondeau, Le Syndicat des correcteurs de Paris et de la région parisienne, prefazione di F. Besnier e J. Maitron, Parigi 1973: « ... deceduto sotto i colpi della polizia il 12 novembre 1908 a Parigi». Un’altra versione vuole Libertad morto di antrace (cfr. J. Maitron, Le mouvement anarchiste en France, vol. I, Paris 1973: «La persona che lo ha curato ci ha detto che Libertad è morto per un antrace e non in seguito ai colpi ricevuti in una lite, come si è spesso preteso». Infine, secondo G. Quesnel, che ha conosciuto Libertad all’epoca de “l’Anarchie” (1907-1908), non vi è alcun dubbio che sia morto per i colpi dei poliziotti che lo trascinarono per le scale Sainte-Marie a Montmartre.

Melina Di Marca

[1] Titolo di una rubrica de “l’Anarchie”


Consultato il 30 novembre 2017 su www.edizionianarchismo.net
Edizioni Anarchismo – Opuscoli provvisori N. 58
Le culte de la Charogne, Editions Galilée, Paris 1976
Traduzione di Melina Di Marca
Prima edizione italiana: febbraio 1981
Seconda edizione: settembre 2009
Terza edizione: novembre 2013