Introduzione

      Scintille

      Se la Val Susa chiama…

      No Tav No Stato

      Corda tesa

      Lucciole e lanterne

      Alta tensione ovunque

      Contro la normalità

      Viaggio al Quirinale

      La Val Susa è dappertutto!

      Provocatori

      La Francia ci dà ragione?

      Arruffapopoli

      Verticalismi

      Neve

      Guardie e ladri

      Dal finestrino

      Vattimix in Val Susa

      Noi preferire voi incazzati

      Quel che non fanno i compagni

      Nessuna legittimazione

      Sabotaggio, bene comune?

      Sputa (sulle) sentenze

      A stormo!

      A caccia di stelle

      I buoni di Natale

      Les gentils de Noël

      La soluzione finale al problema etico

      Sui binari

      La leggenda della valle che non c’è di M. e V.

      Punto e inizio

... ma vorrei farti una domanda:

quando avrai quel tuo posticino in Val di Susa…

immagino che vorrai toglierti

la tua inelegante uniforme da delatore…

è vero?… è quello che pensavo…

ecco, questo non lo sopporto!

… insomma, se facessimo a modo mio

porteresti questa uniforme

per il resto della tua vita da succhia-magistrati…

ma mi rendo conto che non è pratico

e a un certo punto te la toglieresti…

così ti darò una cosetta che non ti potrai togliere!

Introduzione

Bastardi senza popolo e senza gloria quali siamo, abbiamo pensato di fare una raccolta di testi a proposito della lotta No Tav in Val Susa pubblicati nel corso di questi ultimi quattro anni sul sito finimondo.org. Vi abbiamo aggiunto alcuni testi più teorici, apparsi sul medesimo sito, che abbordano la spinosa questione della partecipazione nelle lotte sociali da parte di chi ha aspirazioni non riducibili a un qualsiasi rivendicazionismo. Chiudono il libro tutti i documenti apparsi dopo che i portavoce «di Movimento» di tale lotta hanno pubblicamente indicato alla polizia, dalle pagine dei loro siti (notav.info e infoaut.org), i redattori di Finimondo quali autori di alcuni sabotaggi avvenuti nel presente e di altre azioni illegali avvenute nel passato. Pubblica delazione poi corretta, nascosta, negata, in mezzo all’imbarazzo generale. In effetti non si erano mai visti dei “leader rivoluzionari” mostrarsi palesemente al servizio della polizia. Noncuranti degli insopportabili stridii di specchi su cui si arrampicavano, gli infami capipopolo valsusini hanno cercato di seppellire questa vicenda sotto una montagna non di amianto, bensì d’oblio.

Ma adesso, è anche la carta a cantare.


La lettura dei testi apparsi su Finimondo mostra chiaramente quali siano la prospettiva e la critica formulate. Dato per scontato che le lotte sociali odierne non possono certo porsi obiettivi esplicitamente rivoluzionari, si avanza la possibilità di intervenire nelle stesse per cercare di spingerle oltre i loro limiti immediati. Contrariamente a quanto sostiene un certo «nichilismo», le lotte sociali non aprono inevitabilmente un baratro di compromessi dentro cui si precipita (idea che porta alla scelta logica di evitarle sempre e comunque, chiudendo l’azione anarchica in un solipsismo autoreferenziale). La rinuncia alle proprie aspirazioni più radicali non è affatto ineluttabile, anzi. Tutto sta nei metodi con cui si sceglie di agire. Infatti, contrariamente alla pretesa di un certo pragmatismo cittadinista, un intervento può anche avvenire in maniera critica.

Il nodo della discordia ruota attorno al rapporto da instaurare con gli altri, ovvero con coloro che sono mossi dalle esigenze più elementari e ragionevoli. Va evitato in quanto sirena che porta alla perdizione, oppure va inseguito e blandito in quanto garanzia di vittoria? Né l’una né l’altra cosa. L’incontro con gli altri, per quanto agognato — che un’insurrezione non la possono fare i soli anarchici — non può mai essere forzato. I possibili complici vanno cercati diffondendo le proprie idee, le proprie pratiche, la propria visione del mondo, nella maniera più estesa possibile e che si reputa migliore. Non ha senso prendere a prestito idee, pratiche e visioni del mondo altrui, solo per apparire più presentabili. Perché altrimenti, a furia di voler stare ad ogni costo in mezzo agli altri, a furia di nascondere ciò che si ha nel cuore per essere più accettati, a furia di mimetizzarsi nell’ambiente come camaleonti, si finisce col perdersi strada facendo.

In questo senso l’esplosione della lotta No Tav in Val Susa ha avuto effetti micidiali sull’insieme del movimento anarchico, diffondendovi una mentalità politica che nel giro di pochi anni ha fatto piazza pulita di quella alterità che caratterizzava buona parte del movimento fino all’inizio di questo millennio. Anarchici che volevano arrivare ai ferri corti con l’esistente hanno abbandonato d’un tratto il pugnale per impugnare l’uncinetto con cui tessere rapporti basati non più sull’affinità, bensì sull’amicizia politica. In questa zona grigia ogni collaborazione è diventata possibile, ci si è baloccati fra ambientalisti di Stato e periti scientifici passando attraverso personaggi televisivi e giornalisti. Questo possibilismo ha naturalmente avuto bisogno di una relativizzazione della teoria e di una giustificazione della mutazione avvenuta (apologia del fare scollegato da ogni pensare, revisionismo della progettualità insurrezionale fino a un certo punto espressa, addirittura teorizzazione della non-orizzontalità decisionale in ambito anarchico). Ciò spiega il dilagare di uno spontaneismo movimentista, se così si può chiamare, che esalta la mera presenza a scapito di ogni progettualità, attivismo sfrenato che non dà il tempo di pensare e di guardare dove si sta andando. Come se l’esperienza diretta, feticcio da brandire per dimenticare la propria mancanza di consequenzialità (relazione tra mezzi e fini), possa esistere senza un pensiero proprio da parte di chi la sta vivendo, come se ogni azione non implichi un pensiero ed una teoria. Rinunciare a questo proprio pensiero, a questa propria teoria, pur di aumentare il numero di esperienze da consumare, può solo portare acqua al mulino del pensiero e della teoria altrui. Dall’agire autonomo si passa al fare coatto.

Questo rischio non si scongiura con la mitopoiesi delle lotte, linguaggio incantatore che attraverso mille faconde acrobazie riesce a far immaginare cioccolato ciò che è merda. In questa maniera si soffocheranno i primi dubbi, si troverà una giustificazione momentanea ai passi falsi che si stanno accumulando, ma la questione in sospeso prima o poi tornerà a galla. Non si arriva alla libertà con mezzi autoritari. Non si distrugge la politica attraverso la politica. Un possibile intervento libertario non può consistere nel ripetere teorie autoritarie e nell’usare pratiche di delega. Lascia piuttosto perplessi vedere tanti ammiratori del vecchio volontarismo anarchico accontentarsi di fare presenza, di esserci nelle situazioni, senza porsi troppo la questione del significato della loro agitazione, cadendo nelle braccia di un determinismo secondo cui il seme della rivolta germoglierà nonostante e sotto la gelida neve della politica. Pensare che dal letame del potere possano nascere i fiori della libertà, significa riprendere pari pari la vecchia illusione di un meccanismo esterno, storico e oggettivo, che lavora al nostro posto rendendo così superflua la nostra volontà e la nostra progettualità.

Ciò può avere un senso per gli autoritari, i quali volendo arrivare solo a una diversa configurazione dell’esistente non hanno motivo alcuno di opporsi alla riproduzione sociale. Che il banco vinca sempre non può disturbarli più di tanto, in fondo basta che siano loro a tenerlo. Ma questa banalizzazione del senso dell’agire è inaccettabile per chi non si accontenta di merci senza logo o stati di diritto, di grandi opere utili o governi legittimati, per chi è alla ricerca di tutt’altro. Ecco perché negli articoli qui riproposti viene spesso fatto richiamo alla necessità di una conflittualità permanente, di una ostilità continua nei confronti di qualsiasi forza politica, di uno scarto assoluto dall’immaginario istituzionale e dal suo linguaggio. Non si parla la lingua dello Stato, non si tratta con rappresentanti dello Stato, non si entra in competizione con la ragione di Stato, non si pretende una centralizzazione che rispecchia lo Stato. Il mondo dello Stato va tenuto a distanza e rifiutato, non avvicinato e compenetrato. Va criticato sempre, non rimproverato di tanto in tanto.

Meglio abbandonare l’elemosina di diritti, la delega a funzionari, la fiducia nelle perizie tecniche, la tentazione di controllo. Anziché puntare a sfumare le differenze per giungere ad una comunione della lotta, mirare ad approfondirle per toccare la sua esplosione. Passare dal centro alla periferia, portare la lotta contro il Tav fuori dalla valle e dal suo cantiere per diffonderla sulla rete di binari incrociati in tutto il paese. Dare vita ad un movimento di lotta che non assomigli ad un esercito compatto, disciplinato ed omogeneo, ma ad un insieme di forze eterogenee, diverse fra loro, accomunate da un nemico da fermare e mai da un comando e da una strategia univoca.

La molteplicità di un movimento, la sua ricchezza, non è data dalla diversa origine delle sue componenti, bensì dalla loro differenza di fatto. Non serve a nulla provenire da più parti se poi ci si ritrova tutti in chiesa, in assemblea, a pregare durante la messa recitata dai preti rossi e rossoneri ai loro fedeli. Che in una lotta ci siano sia atei che fedeli non è affatto indice di vivacità e rispetto reciproco, se i primi evitano le bestemmie per non infastidire le preci dei secondi. Ritrovarsi in mezzo a politicanti di vario pelo è una scelta di campo, non un destino inevitabile. Non esiste alcun obbligo a partire e tornare insieme (nonostante la buona fede dei suoi suggeritori libertari, il vecchio patto di sangue criminale non può che diventare un dovere civico appena cade in mano ai professionisti della rappresentazione politica). Ognuno può anche partire e tornare quando vuole, seguendo il percorso che più reputa idoneo, in compagnia di chi preferisce, sostenendo le ragioni che più ritiene giuste. Se poi queste esigenze talvolta si incroceranno, tanto meglio; altrimenti, ognuno per la propria strada. È la lotta contro il Tav a dover essere portata dappertutto, nelle sue mille forme, non l’influenza del ceto politico che la amministra.


Ebbene, seguendo questa prospettiva, nel corso degli anni Finimondo ha criticato duramente la gestione politica del movimento No Tav in Val Susa, senza risparmiare la sua componente libertaria. Ciò non è affatto un’espressione di «disprezzo per il popolo», come pretendono i più imbecilli. La sincerità e la buona fede delle persone che là si stanno battendo in difesa della propria terra non è mai stata messa in dubbio. La loro caparbietà e determinazione in tal senso sono ammirevoli. Non ci si può certo lamentare della parzialità delle loro rivendicazioni, considerato che sono stati gli stessi sovversivi ad averle sostenute pari pari senza mai cercare di eccederle. Ecco qual è il punto. Se gli stessi rivoluzionari, se gli stessi anarchici, si accontentano di ripetere rimbrotti cittadinisti contro lo sperpero di denaro pubblico o amenità simili, perché mai la cosiddetta gente comune là presente dovrebbe aspirare ad altro?

È contro tutti questi sovversivi, anarchici inclusi, che Finimondo ha rivolto le sue critiche. Contro i politicanti che prendevano le distanze dai sabotaggi avvenuti in Val Susa come altrove, e contro i (non)politicanti che hanno preferito rimanere pubblicamente in silenzio davanti a queste dissociazioni, anche non condividendole. Contro i politicanti che si appellavano a parlamentari e magistrati, e contro i (non)politicanti che si limitavano a brontolare davanti a queste alleanze. Contro i politicanti che riducevano in neon di propaganda vecchi lampi criminali, e contro i (non)politicanti che glieli hanno forniti. Contro questo putrido connubio fra autoritari che detengono le chiavi d’ingresso del luna park della contestazione italica ed anti-autoritari ai loro piedi, costretti ad ingoiare tutto pur di accedervi e divertirsi e ricevere la gratificante carezza popolare.

Critiche che non sono state molto gradite, ovviamente, e soprattutto mai dibattute. La prima volta che furono chiamati Signor Movimento No Tav — nel settembre 2013, in occasione del reclutamento del teorico del pensiero molle Gianni Vattimo — i capipopolo valsusini precisarono che non era loro «costume rispondere ad individualità, individui, aspiranti nemici dello stato, complici vari e via discorrendo», avendo occhi e orecchie solo per celebrità da usare e manovalanza da sfruttare. Quanto ai loro «compagni di merende» libertari, al pubblico dibattito preferirono ricorrere tutti alla lamentela contro le «polemiche», molti al pettegolezzo, parecchi al boicottaggio, taluni alla calunnia, qualcuno alle spedizioni punitive… creando così quel bel clima di linciaggio che sarebbe poi sfociato da parte dei loro amichetti politici capipopolo nella pubblica delazione. Contro i «criticoni», nemico interno delle gloriose lotte popolari, tutto è permesso. E se oggi lo stesso movimento anarchico si caratterizza per la negazione di ogni etica — cosa che nel giro di qualche anno ci ha portato ad assistere a una richiesta pubblica di incolumità nei confronti di una infiltrata, alla punteggiatura sulle i della parola dissociazione dall’attacco contro uno dei principali responsabili dell’industria nucleare, all’indifferenza davanti al passaggio di vecchi infami in alcuni spazi di movimento — figurarsi a quale livello è pronto a scendere chi è cresciuto nella scuola del fine che giustifica i mezzi!


Ricordiamo che la lotta No Tav è salita alla ribalta delle cronache alla fine degli anni 90, dopo che alcuni sabotaggi avvenuti all’epoca portarono all’arresto di tre anarchici, due dei quali in seguito “suicidati”. Senza quei sabotaggi, senza il clamore di quelle morti, non si sarebbe sviluppata tanta attenzione. Non è stata la prima timida protesta cittadinista valsusina ad aver dato slancio a questa lotta, ma il sabotaggio di pochi nemici di questo mondo. Cosa questa che viene tutt’oggi negata dal ceto politico infame che cavalca questa lotta, e talvolta sembra sia stata dimenticata anche da molti anarchici. Arma del sabotaggio che è stata accettata collettivamente solo dopo essere stata «sdoganata» da un noto scrittore catto-comunista, il quale ha preso le difese di chi è stato arrestato nel dicembre del 2013 con l’accusa di aver partecipato all’assalto al cantiere di Chiomonte avvenuto nel mese di maggio dello stesso anno. Essendosi trattato di un assalto collettivo, approvato anche da cotanta celebrità, i capibastone del movimento No Tav hanno calcolato che la bilancia pendesse in loro favore ed hanno fatto una eccezione alla loro regola dissociazionista. Hanno difeso i quattro sabotatori No Tav, anche quando hanno apertamente rivendicato la propria responsabilità in tribunale. La loro manovalanza libertaria, invece, non essendo più costretta a tacere per non disturbare il conducente, si è sbizzarrita nel millantare che il sabotaggio è sempre stato il suo mondo. Tutto ciò è durato fino a pochi giorni dopo l’assoluzione dall’accusa di terrorismo formulata contro i quattro sabotatori No Tav, condannati il 17 dicembre 2014 solo per reati specifici.

Nel giro di un paio di giorni, prima a Firenze il 21 e poi a Bologna il 23 dicembre, alcuni sabotaggi avvenuti contro la linea ferroviaria hanno riportato di nuovo al centro della discussione il significato di questa pratica di lotta. Trattandosi di sabotaggi singolari, non difesi da alcun famoso intellettuale, il ceto politico No Tav ha subito condannato e dileggiato tali azioni. Azioni però che, come sempre e senza far ricorso al bilancino della convenienza politica, sono state difese da Finimondo con il testo che dà il titolo a questa antologia. I giornali più reazionari, che non avevano digerito l’assoluzione dei quattro sabotatori No Tav dall’accusa di terrorismo, si sono subito precipitati sull’articolo di Finimondo presentandolo come «rivendicazione» per poter gridare «al lupo!».

Questa pubblica smentita del becero innocentismo No Tav ha fatto infuriare i capibastone del movimento i quali, sul loro sito notav.info, il 28 dicembre 2014 hanno pubblicamente indicato i redattori di finimondo.org quali autori degli attuali sabotaggi, nonché di altri reati avvenuti in passato. Testo ripreso il giorno dopo anche da un altro sito legato all’autonomia torinese, infoaut.org. Mentre con la mano sinistra salutano a pugno chiuso il cadavere del compagno contadino comunista Prospero Gallinari, e con quella destra puliscono il culo al boia togato che lo ha sepolto in galera, questi rivoluzionari verticalisti trovano comunque il modo di additare con entrambe alcuni anarchici alla polizia.

Vero colpo di scena, ripreso quello stesso 29 dicembre anche dal quotidiano La Repubblica.

Resisi conto del loro passo falso — una pubblica delazione — i capibastone piemontesi sono corsi ai ripari correggendo il loro testo. Troppo tardi. Il 30 dicembre Finimondo pubblicava un articolo che accusa i portavoce ufficiali della principale lotta sociale oggi in corso in Italia — se non in Europa — di essere degli infami, mettendo a disposizione di chiunque le avesse richieste le prove di quanto sostenuto. Nessuno ha potuto smentire.

Voltarsi dall’altra parte in questo caso non era molto semplice, in quanto è il ceto politico della più gloriosa lotta sociale odierna ad essersi spinto fino alla delazione. E non quello più riformista, perbenista, legalitario, quello cioè da cui simili passi ce li potremmo pure aspettare. No, è stato quello «antagonista» e «rivoluzionario», e nemmeno nella veste di un singolo esponente bensì di un’intera redazione, quella di notav.info. Redattori non solo infami, ma per di più meschini per aver poi tentato inutilmente di coprire le tracce, taroccando a posteriori il loro testo non appena si sono accorti dello scivolone fatto. Infami e cialtroni, cialtroni e infami. Ma pur sempre leaderini di quella lotta che tanto manda in visibilio il movimento intero. Il che ha messo tutti i loro compagni di lotta più sovversivi, inclusi moltissimi anarchici, nella alquanto imbarazzante posizione di risultare… compagni di infami? A quel punto, cosa poteva accadere?

A parte il fatto che questo testo di Finimondo (“I buoni di Natale”) è stato subito ripreso e diffuso da pochi, pochissimi compagni, nei primi giorni non è successo granché. Gli infami non hanno proferito parola. Ed i loro compagni di lotta, ovvero la stragrande maggioranza del Movimento, sono rimasti muti pure loro. Fatto curioso, poiché in fondo una azione pubblica così infame da parte di “leader di movimento” non è esattamente cosa che capiti tutti i giorni. Infatti, ad un certo punto si è levata una voce stupita. E non dall’Italia, bensì dalla Francia dove il 4 gennaio 2015 «alcuni anarchici di Parigi e dintorni» — sbalorditi, a 1000 chilometri di distanza, di fronte al silenzio di chi si trova davanti ad un fatto di tale gravità — hanno diffuso un testo, tradotto da loro stessi anche in italiano, in cui c’è un esplicito rimprovero rivolto agli anarchici italiani per non essersi espressi su questa vicenda, nonché un invito a farlo. Alcuni giorni dopo, complice quell’epifania che decreta la fine delle festività e della lunga digestione che produce, qualcosa si è smosso. Non solo è stato diffuso pubblicamente il testo degli anarchici di Parigi e dintorni nel nostro belpaese, ma anche alcuni anarchici e anarchiche nostrani hanno iniziato a trovare qualcosa da dire. Lo psicodramma provocato dall’ironica ma rabbiosa reazione di Finimondo si è così palesato alla luce del sole.

I cagnolini da riporto, razza anarlecchino, hanno tentato di conservare i favori dei loro procacciatori di applausi popolari limitandosi a biasimare una non meglio definita delazione. Fra costoro, qualcuno ha ricordato i meriti del sabotaggio precisando tuttavia che le analisi sono relative (come le malattie, ognuno ha le sue). Mentre qualcun altro cercava e trovava i testi infami apparsi in rete, quindi li archiviava, restandosene zitto per giorni e aspettando di vedere come conveniva buttarsi, per riprendere alla fine la non-posizione altrui aggiungendo però prima il suo sermone apparentemente equidistante; quindi, in seconda battuta, ha scoperto le carte perdonando gli infami e bacchettando gli infamati, mentre criticava di passaggio la temporalità di questi sabotaggi. Per non parlare di chi si è accusato scusandosi per il ritardo dovuto alla scarsa dimestichezza col diabolico mezzo telematico — «poco male, vada per la prossima volta», quando potrà dire subito che la delazione è una «pratica» che non gli appartiene.

Miserie umane a parte, c’è pure chi le ha cantate a brutto muso ai redattori di notav.infam e infam.aut. Chi ha precisato che dietro il Signor Movimento No Tav si celano alcuni militanti del centro sociale torinese Askatasuna e del comitato di lotta popolare di Bussoleno, scavando un fossato con chi non può più essere considerato «compagno» e «rivoluzionario»; e chi ha dichiarato che la presenza di infami all’interno delle situazioni di movimento non può più essere accettata. Solo il tempo dirà se si tratta di rigorose scelte di campo o di effimere posture situazionali. Sta di fatto che, dopo diversi giorni, altri ancora hanno deciso di rompere gli indugi e si sono espressi decisamente e senza tanti giri di parole contro la delazione, specificandone gli autori, e a favore dei sabotaggi.

Beccati con le mani nella merda, i capipopolo valsusini si sono inizialmente ammutoliti. Tutta la loro prosopopea di baldi condottieri rotti da ventennali esperienze di lotta, tutta la loro aria da comandante Giap de noantri, si è dileguata come per incanto. Ma il fiorire di comunicati che li inchiodava alla loro infamia deve avere intaccato a tal punto la loro già lesa maestà da spingerli nel giro di cinque giorni (17 e 21 gennaio) a diffondere due nuovi testi. In entrambi si scusano per il piccolo errore linguistico prontamente corretto (definendo le accuse di infamia meramente strumentali), ma se il primo invita tutti a pensare a cose più serie (incrementare il patrimonio di quella lotta di cui si sentono gli amministratori più o meno delegati), il secondo è una vera e propria resa dei conti con i loro ex (?) compagni di merende. Infatti il 13 gennaio si è tenuta in Val Susa un’agitata assemblea che ha visto gli uni accanto gli altri, assemblea in cui gli stracci rivoluzionari No Tav hanno cominciato a svolazzare in lungo e in largo. Alla fine sono stati proprio loro, gli infami capipopolo valsusini, a prendere la pubblica parola per impartire agli anarchici fino a ieri al loro servizio una lezione di etica: «se ci considerate delatori, perché venite a discutere con noi?». Un interrogativo rimasto senza risposta.


Inutile girarci attorno. Sono troppo scivolosi quegli specchi. I leaderini della principale lotta sociale in corso qui in Italia sono, precisamente, dei delatori (per mera idiozia o per calcolo politico, non è questo il punto). Fra i loro sguatteri libertari, non pochi sono dichiaratamente intenzionati a rimanere al loro servizio. Punto e basta. Come è stato scritto, il dado è tratto. I primi, ambiziosi di legittimità e di egemonia, a furia di ammiccare ai magistrati si ritrovano ora con un futuro marchiato per sempre. Chi chiameranno come docente nella loro prossima umile e modesta Università delle Lotte, Giuda Iscariota? Intanto, stanno già allenandosi per rimuovere i loro critici. I secondi, vogliosi di consensi e di tranquillità, a furia di ammiccare agli infami si ritrovano ora con un futuro marchiato per sempre. Dove troveranno ora babbei a cui poter raccontare che la lotta No Tav ha praticato una «rottura con la morale pubblica… articolata sugli assi del pentitismo e della delazione, della dissociazione e dell’abiura»? All’asilo nido? Intanto, stanno già rinnovando il guardaroba.

A partire da quanto (non) avvenuto dopo il 30 dicembre scorso, tutte quelle chiacchiere hanno perso il filo del loro funambolismo. Nove anni dopo la «gloriosa battaglia di Venaus», tre anni dopo l’«indimenticabile Libera Repubblica della Maddalena», dopo innumerevoli giornate e nottate condivise sulle barricate, ecco cosa è scaturito dalla esperienza diretta di chi non esita a sporcarsi le mani: la pubblica delazione e la tolleranza di tanti verso la pubblica delazione.

In tal senso, questa squallida vicenda ha dato un enorme contributo a quella vulgata «nichilista» secondo cui le lotte sociali in quanto tali non possono essere che postriboli. A dimostrazione, d’ora in poi si potrà citare il movimento No Tav italiano.

Ma, ad onta delle apparenze, non siamo d’accordo. Ecco perché abbiamo deciso di pubblicare questa antologia. Da un lato, per ribadire con ostinazione che in una lotta pur allargata si può entrare e rimanere con il coltello in pugno. Dall’altro, per evitare che un oblio interessato faccia dimenticare in fretta chi sono gli infami e chi sono i loro compagni, quelli che per poter continuare a fare affari con loro non hanno esitato a liberarsi di ogni (pastoia) etica.

Scintille

La Libera Repubblica della Maddalena non esiste più. Il sogno di una intera popolazione e di chi era accorso per darle manforte — quello di un territorio dove instaurare la democrazia diretta in contrapposizione a quella rappresentativa — è stato spazzato via nella mattinata di ieri 27 giugno da oltre duemila servitori dello Stato, soffocato in una tempesta di gas lacrimogeni.

A poche settimane dal decimo anniversario del G8 di Genova, ovvero dalla mattanza compiuta nelle strade liguri dalle forze dell’ordine, dalle torture avvenute nella caserma di Bolzaneto, dall’uccisione di Carlo Giuliani, ancora una volta chi governa le nostre esistenze lancia il monito mussoliniano: tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato. A differenza di allora, i nemici da reprimere non erano sovversivi più o meno bellicosi giunti per mettere a ferro e fuoco una città, ma pacifici cittadini che difendevano la loro valle. Il che spiega il trattamento soft, se così si può dire, dell’intera operazione.

Ben si capisce la soddisfazione del ministro Maroni che, in poche ore, ha risolto una questione che minava la sovranità del governo. Ancor meglio si comprendono gli applausi all’operato delle forze dell’ordine arrivati da tutti i grandi partiti, di centrodestra e di centrosinistra. Tutti preoccupati perché l’esempio della Val Susa aveva spronato altri cittadini scontenti della politica istituzionale ad alzare la voce, a pretendere rispetto — oltre ad essere preoccupati per l’ombra funesta dei mancati introiti nelle loro tasche.

Per coloro che non vogliono inceneritori o basi militari, discariche di rifiuti o grandi infrastrutture, licenziamenti di massa o tagli alla spesa pubblica, anche lo sgombero di ieri deve quindi servire da esempio: nessun cittadino può opporsi allo Stato.

E noi siamo d’accordo. Nessun cittadino può opporsi allo Stato perché il cittadino, questa «cosa pubblica», è fatto per essere amministrato. Non gli si chiede di riflettere e di agire, ma di obbedire e funzionare. Lo sa Maroni come lo sa Marchionne. Dieci anni fa ci fu chi salutò la fine delle illusioni consumatasi nei vicoli insanguinati di Genova. Da quel momento in poi, le rivendicazioni democratiche avrebbero dovuto fare posto alle lotte insurrezionali. Non ci è però voluto molto perché queste illusioni rinascessero ancor più forti di prima, per altro grazie soprattutto alle battaglie in Val Susa, a tal punto che tuttora in molti si ostinano a presidiare i palazzi istituzionali. Ed oggi?

Oggi non ha molto senso né cantare l’epica lotta popolare valsusina, né deridere la rapida capitolazione della sedicente nuova Stalingrado. Lasciamo ad altri l’interessata apologia o la rancorosa deprecazione. Ci preme assai più guardare al futuro. Il “leader” mediatico dei NoTav ha dichiarato che quello di ieri è stato solo un round perso, ma che la battaglia continua. Ed ha ragione, lo sgombero della Maddalena non comporta di per sé la devastazione dell’intera valle. Tutto può ancora succedere, fin dalle prossime ore. Ma egli ha anche torto se pensa che l’interesse del governo sia quello di realizzare una grande opera che, nella migliore delle loro previsioni, entrerà in funzione tra vent’anni. Ci saremo ancora tra vent’anni, o le radiazioni nucleari, le contaminazioni alimentari, gli avvelenamenti industriali, ci avranno già sollevato dal problema dell’Alta Velocità? Aprire subito il cantiere per incassare i colossali finanziamenti europei, mostrare i muscoli per dissuadere i sempre più numerosi contestatori, ecco gli scopi immediati del governo. Il resto si vedrà…

Il sorriso stampato oggi sul volto del ministro Maroni è comprensibile, ma potrebbe diventare ben presto una smorfia. Poche settimane dopo le giornate di Genova ci furono gli attentati dell’11 settembre a spostare l’attenzione generale altrove, a indurre la popolazione a stringersi attorno ad un governo fino a quel momento screditato. La situazione sociale odierna è talmente decomposta che nulla potrà salvare quest’ordine sociale. Maroni potrà anche spegnere per un giorno il focolaio valsusino ma le fiamme possono divampare in tutto il paese, alimentate da una disperazione quotidiana che cresce a ritmo vorticoso e a cui manca solo una scintilla per esplodere. Una scintilla che potrebbe arrivare dalla Val Susa come da Napoli, da Lampedusa come da Termini Imerese, come da qualsiasi altra parte d’Italia. Ma che potrebbe venir catapultata anche dall’esterno, portata dal ghibli della rivolta nordafricana o dall’effetto domino della bancarotta greca.

Ieri mattina lo Stato ha fatto capire a tutti i suoi cittadini che la sola cosa che pretende da loro è l’obbedienza. Non la stima, non il consenso, non il riconoscimento: solo l’obbedienza data dalla paura dello sfollagente. Il ministro dell’Interno, con l’intero Parlamento, spera che questa volta la lezione sia stata capita una volta per tutte. Lo speriamo anche noi. Significherebbe la fine delle illusioni, la fine della lebbra del cittadinismo.

P.S. Un’ultima cosa. Nelle stesse ore in cui la polizia bastonava e gassava gli oppositori del Tav in Piemonte, in Toscana il tribunale di Firenze ribaltava la sentenza contro i vertici della Cavet per le devastazioni causate dalla costruzione del Tav in Mugello. Dalle 27 condanne e dal risarcimento di 150 milioni di euro si è passati all’assoluzione o prescrizione per tutti e a pochi spiccioli di multa. Ecco l’applicazione della democrazia.

28/6/11

Se la Val Susa chiama…

… bisogna rispondere, non c’è dubbio. Perché da tempo non si sviluppava uno scontro così generalizzato fra un’intera popolazione e lo Stato. Uno scontro che dura da anni e che nessuno è finora riuscito a dirimere, data l’impossibilità di trovare una soluzione condivisa. Non che siano mancati aspiranti mediatori e conciliatori, brava gente interessata a imbastire un accordo fra istituzioni nazionali e abitanti locali. Solo che, in un certo senso, tutti sono andati a cozzare contro l’incredibile arroganza di questo governo che ha pensato di poter pacificare quella vallata prima coi manganelli e poi con i gas lacrimogeni. Anziché rivedere parzialmente i propri progetti, giocare sulla partecipazione ed offrire carote a tutti — cosa che per un breve periodo di tempo è stato possibile — i governanti hanno preferito brandire il bastone per imporre il proprio arbitrio a quegli zotici montanari. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: lo scorso 3 luglio decine di migliaia di persone hanno dato e sostenuto la battaglia contro le forze dell’ordine.

Ma, se la Val Susa chiama, non è detto che l’unica risposta da dare sia quella di prendere un treno per Chiomonte dopo essersi dotati di scarponi e zainetto. Con buona pace di piccoli e grandi leader di movimento che amano contare chi reputano presente ai loro appelli, non tutti hanno la possibilità, o anche solo la voglia, di unirsi al variegato popolo NoTav in lotta per il Bene Comune (come ossessivamente ripetuto da una vulgata cittadinista tanto più dilagante quanto incontrastata).

Per tutti coloro che sono troppo impossibilitati o troppo disgustati per saltare sopra un treno — e che sono assai più di quel che si potrebbe supporre —, come anche per tutti quelli che pensano che quella lotta debba uscire dai ristretti confini geografici di una vallata piemontese, se vuole davvero deflagrare in tutto il paese, esistono altre possibilità. E non ci riferiamo ovviamente a quella data per scontata di presidiare a destra e a sinistra i luoghi istituzionali, bensì alla possibilità di alimentare l’incendio principale accendendo altrove nuovi focolai. Battere le pur solitarie periferie, non puntare sull’affollato centro. Si tratta di una possibilità indecifrabile, marginale, priva del «calore della comunanza», eppure decisiva. Quella lotta, per trovare ossigeno, deve uscire dal bucolico contesto a cui in troppi vorrebbero inchiodarla.

Se un’amnesia interessata non giocasse ormai brutti scherzi si sarebbe gridato da un pezzo che il Tav è dappertutto, e che non occorre né attendere scadenze istituzionali né raggiungere territori delimitati per poter prendere parte a questa lotta.

Lo hanno dimostrato sia i fuochi divampati nel modenese e a Firenze nei cantieri Tav, sia i blocchi ferroviari effettuati a Napoli, sia le vetrate del PD infrante nel teramano, sia le contestazioni a Bersani avvenute a L’Aquila. Esempi la cui diversità è indice di una ricchezza che andrebbe perduta qualora ci si ostinasse a pretendere di accentrare tutto in un sol luogo.


«Ma chi l’ha detto che ai disoccupati non si può parlare – praticandoli – di sabotaggio, di abolizione del diritto, o del rifiuto di pagare l’affitto? Chi l’ha detto che, durante uno sciopero di piazza, l’economia non può essere criticata altrove? Dire ciò che il nemico non si aspetta ed essere dove non ci attende. Questa è la nuova poesia».

12/7/11

No Tav No Stato

Aveva proprio ragione Simone Weil: quando i professionisti della parola decidono di occuparsi della triste sorte altrui, scelgono di parlare di questioni tecniche. Se sono sindacalisti a difesa del lavoro, parleranno di aumenti salariali, cambio dei turni, misure di sicurezza. Se sono ambientalisti paladini della democrazia, parleranno di camion di detriti, decibel di rumore, misure di sicurezza. È risaputo che chi ascolta accoglie con sollievo la facile chiarezza delle cifre, dati oggettivi che non richiedono alcun pensiero singolare.

Pensiamo alla propaganda che viene fatta attorno all’Alta Velocità. Per riuscire a farsi capire da tutti, condizione indispensabile per ampliare il sostegno a quella lotta, cosa c’è di meglio che illustrare tutti i dettagli tecnici di quell’infame progetto? Sapete quanto sarà lungo quel tunnel? E quanto ci verrà a costare? E che dire della composizione geologica delle rocce che vorrebbero forare? Per non parlare della polvere sollevata, del traffico paralizzato, delle coltivazioni perse, dei ruscelli prosciugati… Una mole impressionante di dati — che per essere presi per buoni necessitano della preziosa conferma di periti possibilmente di fama (quegli specialisti del sapere separato oggi tanto adulati) — viene sciorinata per sollecitare la mobilitazione. Se si vuole fare numero bisogna parlare di numeri. Uomini e donne, se non vi ribellate per la vita miserabile che vi costringono a fare, per i vostri corpi esausti, per i vostri sogni infranti, per i vostri desideri repressi, per le vostre speranze deluse, fatelo almeno perché 2+2 è uguale a 4. Talmente facile da capire che il consenso è assicurato.

Già la matematica non è un’opinione — figurarsi un’idea! Non è qualcosa di singolare, di individuale, che si possiede dopo averla scoperta e fatta maturare. È qualcosa di comune che abbiamo imparato a scuola. 2+2 fa 4 per il reazionario come per il sovversivo, per il credente come per l’ateo. Non divide le sensibilità, unisce i ricordi. Ecco perchè questo genere di propaganda impazza fra i vari politicanti, che non mancano di prescriverla ai militanti che fanno loro corteo. Perché non fa pensare ad altro, non mette in discussione nulla in maniera radicale, rimanda a quanto è già in memoria. Al massimo esigerà una nuova verifica al fine di far quadrare i conti.

Simone Weil faceva giustamente notare che, se l’individuo sentisse di non essere solo vittima ma anche complice dell’orrore quotidiano, la sua resistenza conoscerebbe ben altro slancio. Non sarebbe più lo slogan di una rivendicazione, sarebbe il grido di rivolta di tutto l’essere contro la condizione umana. Un grido che diffiderebbe della chiarezza delle cifre, perché non avrebbe nulla da spartire né col sindacalista che si batte per alleggerire il ricatto del lavoro, né con l’ambientalista che si batte per legittimare la menzogna della democrazia. Invece le cifre, se non accompagnano quel grido da umili ancelle tenute in disparte, ma lo sostituiscono, non fanno che prolungare il ricatto e la menzogna.


Ecco perché No Tav No Stato. Non per iniziare a «fare ideologia», ma per non finire col fare politica. Del resto, è quasi imbarazzante osservare come questa recalcitranza davanti alle idee anarchiche provenga da chi non si fa alcuno scrupolo a spacciare (o ad avallare, nella speranza che dal letame nascano i fior) ben altro genere di «ideologia». Come se gli appelli a difendere la Democrazia del Bene Comune salendo sulle barricate Stalingrado e Saigon fossero la spontanea e naturale espressione dell’essere umano in lotta per la propria dignità, e non il frutto di una precisa interpretazione di parte. Legittima, sì. Della nostra parte, no.

Ecco perché No Tav No Stato. Perché, piuttosto che accomunarci alle vittime di questo ordine sociale, pensiamo sia necessario riconoscere e far riconoscere che ne siamo tutti complici — chiunque di noi, nessuno escluso. Perché non vogliamo unirci alla rivendicazione a favore di un’autorità più equa, vogliamo lanciare il grido contro ogni forma di autorità.

L’Alta Velocità ce ne offre l’occasione. Non è la follia di qualche squilibrato imposta da poche mele marce ad un Parlamento sovrano, ma distratto. È un progetto perfettamente coerente con il mondo che abitiamo, un mondo in cui ogni singolo aspetto dell’esistenza umana è sottomesso alle esigenze del profitto (ed anche il tempo, si sa, è denaro). Non è affatto un caso che sia sostenuto da tutti i partiti, siano essi di destra o di sinistra, in base al momento e all’opportunità. E non è anomalo che lo Stato lo voglia imporre con il manganello e con i lacrimogeni; chi per i propri interessi non esita a bombardare intere popolazioni, perché mai non dovrebbe bucare la Val Susa o il sottosuolo di Firenze, quando altri esperti giurano che si può fare? Si dice che il Tav valsusino, qualora riuscissero a finirlo, servirà solo per trasportare merci; perchè, ognuno di noi non serve solo per produrle e acquistarle? E lo facciamo, giorno dopo giorno, in silenzio.

Con buona pace di tutti i cittadinisti, l’Alta Velocità non è affatto un grossolano errore dell’attuale organizzazione sociale. Ne è la verità scomoda e brutale. Ecco perché, anziché contarne e lamentarne gli effetti, dovremmo riprendere a indicarne e criticarne la causa. Non ha senso tacerla. Altrimenti si rischia di contribuire sì alla lotta contro questo Stato, ma non alla lotta contro lo Stato.

21/7/11

Corda tesa

Mentre in Val Susa infuriava la battaglia tra i volontari accorsi in difesa della Libera Repubblica della Maddalena e i pretoriani inviati ad imporre la Schiava Repubblica d’Italia, a Roma un rogo notturno distruggeva la nuova sala operativa della stazione Tiburtina (snodo Tav) mandando in tilt il traffico ferroviario nazionale. Immediato il sospetto che potesse esistere un legame fra le proteste valligiane e l’incendio metropolitano, immediata anche l’indignazione e la smentita del «Popolo NoTav» per bocca dei suoi pubblici rappresentanti, tardive e poco convincenti le assicurazioni istituzionali sulle probabili cause naturali del fatto: un cortocircuito, ben difficilmente un sabotaggio, magari l’effetto collaterale del solito furto di cavi.


Ma quel sospetto che si è insinuato per ore e non ancora fugato — a metà fra la speranza e il timore — è indicativo. Della paura delle autorità come delle possibilità dell’azione. Ciò che li terrorizza è ciò che ci entusiasma: la possibilità che la lotta contro il Tav esca dalla sperduta valle piemontese per esplodere in tutto il paese. Che si sottragga infine alle insopportabili litanie cittadiniste per impugnare l’arma del sabotaggio. Pensiero terribile e meraviglioso al tempo stesso. Ciò non solo è possibile, è anche facile. Nessun sistema di videosorveglianza, nessun pattugliamento, potranno mai garantire l’efficienza di una rete ferroviaria che si dipana per decine di migliaia di chilometri. Non occorre prendere un treno e salire sulla carrozza della politica per cercare di fermare l’Alta Velocità. Non occorre fare da generosa, umile e silenziosa manovalanza ai piccoli strateghi diversamente repubblicani.


L’incendio di Roma è divampato per quindici ore prima di venir soffocato. Ma dalla cenere rimasta continuano a spuntare indomite braci. Bruciano i cantieri Tav altrove in Italia, ma bruciano anche i camion di una ditta impegnata nei lavori a Chiomonte. Ed ecco arrivare dappertutto i pompieri coi loro idranti, quelli che spruzzano schiuma e quelli che sfornano comunicati stampa. E sono soprattutto questi ultimi — i portavoce, i rappresentanti, i leader — a darsi più da fare per buttare acqua sul fuoco. L’altro ieri hanno deprecato il fuoco di Firenze, ieri sono inorriditi per quello di Roma, oggi condannano quello di Susa. Ma come, nel nobile e generoso «Popolo NoTav» non convivevano tutte le anime, tutti i metodi, tutte le attitudini, nel rispetto reciproco delle differenze? Al suo interno non erano tutti benvenuti, sia chi innalza preghiere al cielo sia chi tira bestemmie sulla terra?


E invece no. Tutta retorica, tutta propaganda. Lo dimostrano gli sputi di condanna sulle fiamme dei sabotaggi, troppo singolari per meritare l’applauso delle masse. Lo dimostrano le contemporanee ovazioni all’indirizzo degli alpini diversamente militari che hanno diversamente presidiato il cantiere di Chiomonte. Benvenuta in Val Susa sembra essere solo l’immonda convivenza — frutto della convenienza — fra chi evidenzia che un’altra politica è possibile, un’altra Repubblica è possibile, un altro Stato è possibile, e chi dovrebbe auspicare la fine di ogni politica, di ogni Repubblica, di ogni Stato. Gioco dialettico portato avanti in un alternarsi di taciti accordi e sospiri di sopportazione, di occhi chiusi e nasi turati, di acrobazie linguistiche ed opportune dimenticanze, in vista dell’ultimo regolamento di conti. Menzogna ed ipocrisia, con nel cuore precocemente inaridito la speranza di essere diventati talmente scaltri da riuscire a fare lucrosi affari coi banchieri.


I sospetti sull’incendio di Roma, come le certezze su quelli del modenese, di Firenze e di Susa, sono lì ad ammonire che questa putrida amicizia politica a garanzia di concordia laddove non può esservi che conflitto potrebbe cessare da un momento all’altro.

27/7/11

Lucciole e lanterne

«Democrazia! Ormai lo abbiamo compreso che significa tutto ciò.

Democrazia è il popolo che governa il popolo a colpi di bastone per amore del popolo»

Oscar Wilde


Dall’aula di Montecitorio a quella del tribunale di Milano, dai marciapiedi della stazione di Torino alle camere di sicurezza della questura di Firenze, dalle metropoli ipervigilate alle valli straziate, per non parlare delle retate poliziesche in tutta Italia, non passa giorno senza che gli animi non rimangano scossi da qualche particolare vicenda politica o di cronaca. E immancabilmente spunta qualcuno che lancia l’allarme sull’«emergenza democratica oggi in corso nel nostro paese», risolvibile, com’è ovvio, con uno scrupoloso rispetto di norme e leggi. Persino quanto è successo ieri mattina in Val di Susa, la caduta non accidentale di un anarchico dal traliccio su cui era salito per protestare contro il TAV e l’esproprio dei terreni, suoi o non suoi poco importa, è stato subito ricondotto all’interno di questo discorso dominante quanto deprimente. E se dalla canea reazionaria si sottolinea l’illegalità del gesto di protesta, anche da buona parte del movimento si fa l’elenco interminabile delle illegalità dei lavori e del loro proseguimento (a dimostrare la legittimità dell’opposizione).

Se la mente non fosse altrove ad ardere di rabbia, ci sarebbe da interrogarsi su come l’orizzonte democratico — nonostante la sua palese aberrazione — abbia potuto colonizzare a tal punto l’immaginario individuale oltre che collettivo. Qual è la democrazia a cui si dovrebbe fare ritorno, quella uscita dalla Resistenza che ha graziato i fascisti e arrestato i partigiani più indomiti? Quella che è stata gestita per lunghi decenni nelle sagrestie e nelle segreterie dalla Democrazia Cristiana? Quella delle stragi di Stato e delle leggi speciali? Quella degli accordi neanche troppo sotto banco con la Mafia? Quella delle tangenti e delle speculazioni? Quella degli «italiani brava gente» che nelle loro missioni militari all’estero stuprano, torturano e massacrano? A questo siamo arrivati dinanzi a nani e ballerine, a rimpiangere grigi burocrati politici o a preferire ingessati funzionari tecnici? Ragionieri, ecco quel che si finisce col diventare, cauti ragionieri che soppesano le conseguenze, pensano alle strategie e alle tattiche più adatte per non scoprirsi inadeguati, per sentirsi sempre sulla cresta dell’onda, per cavalcare i marosi sociali… Perché, quando si cessa di misurare e calcolare, si rischia di piombare giù.

Ma se, a ben pensare, c’è sempre stata una «emergenza democratica», è proprio perché la «normalità democratica» in grado di garantire libertà e benessere per tutti non può esistere. È un mito, una pura menzogna che andrebbe demistificata, ma che purtroppo non corre molti rischi di crollare finché le scintille di sedizione saranno acconciate sotto le più presentabili vesti di laboratori di democrazia.

No, non è un regime politico ad essere rimasto folgorato sul traliccio che dà energia a questo mondo miserabile. Non è la sua vita ad essere oggi in pericolo. Semmai, è la possibilità di intravedere qualcosa di assolutamente altro e di battersi in suo favore — di slancio, senza briciole di calcolo, come fa chi sfida l’alta tensione. Una possibilità che oggi giace anch’essa in coma, e che va rianimata, curata, protetta, difesa, rafforzata, allargata, diffusa. Amata. Una possibilità che non chiede giustizia, ma vuole vendetta. Che non ha solo un treno da fermare, ma un mondo intero da abbattere.

28/2/12

Alta tensione ovunque

Come (purtroppo) spesso accade, sono gli avvenimenti più drammatici quelli in grado di scuotere gli individui e di far perdere loro la pazienza. Si ha un bel ragionare su quanto accade in giro per il mondo, mostrare le cause istituzionali delle nefandezze che infestano la vita di ciascuno di noi, suggerire possibili punti di frattura. Tutto viene assorbito e metabolizzato, e intanto… Ma poi, ecco che un poliziotto greco uccide un ragazzo, un ambulante tunisino si dà fuoco per protesta, un ribelle valsusino precipita da un traliccio. Tutto cambia. L’imprevisto incendia il panorama, ciò che fino a un attimo prima era una ipotesi-fantasma diventa realtà.

Abbiamo sempre pensato e sostenuto che la lotta contro il Tav non fosse una questione specifica di una piccola vallata piemontese. Che i tempi e gli strumenti di questa lotta non fossero solo quelli decretati da assemblee locali in cui i vari racket politici — di qualsiasi colore, foss’anche il nero dell’anarchia — più o meno esplicitamente si contendono la rappresentatività del movimento. Che vada respinto ogni ricatto collettivista che mira ad accomunare ciò che deve essere diversificato. Che il centralismo è una tara, non una opportunità. Riprendendo una intuizione già sviluppata negli anni 80 nel corso delle lotte antinucleari, persistiamo a ritenere che sia necessario decentrare la lotta e polverizzarla nel territorio. Che se il Tav è ovunque, non è affatto necessario correre in Valsusa e mostrarsi adeguati alla situazione che là si è venuta a creare (e poco importa se oggi come oggi solo in quella vallata i nemici di questo mondo possono prendersi le loro belle soddisfazioni). Che il solo modo per dare aria a quella lotta è quello di farla uscire da quella valle, portarla altrove. Non chiamare a raccolta per stringere un nodo, ma sollecitare a disseminarsi per tessere una rete informale.

Ebbene, da 48 ore non sono più i sentieri della Maddalena ad essere invasi dagli oppositori della devastazione di Stato, ma un po’ tutta Italia. E non vi sono obiettivi univoci, né metodi uniformi. Non è più la (brontolante) adesione collettiva alle direttive di un ceto politico, è il ribollire delle coscienze individuali di fronte al corpo martoriato di un compagno su un letto d’ospedale a mettere oggi in movimento. C’è chi presidia prefetture e chi blocca binari, chi occupa facoltà e chi neutralizza pedaggi autostradali, chi sospende il lavoro e chi dà fuoco a un macchinario. Il dispiegarsi di una miriade di sfumature, anche contrapposte, ma senza alcuna sintesi. E sono ancora tante le possibilità di intervento da scoprire, inventare e sperimentare. Da soli o in compagnia, di giorno o di notte, oggi o domani. Per essere all’altezza di se stessi, non di quanto stabilito da altri.

Anche questa è alta tensione.

29/2/12

Contro la normalità

Il Tav, è chiaro da tempo, non è solo un treno ad alta velocità, è anche l’emblema di questo mondo fatto di merci, del sempre più veloce, del profitto ad ogni costo, dello sfruttamento nei confronti degli individui e della natura. Per questo forse la protesta contro di esso è una protesta così sentita. Perché spinge a vedere la totalità delle cose, il filo che lega tutte le questioni. Una linea ferroviaria che si vuole realizzare a scapito di chi vive i luoghi in cui verrà costruita, rovinandogli l’esistenza per decenni, occupando quei posti per renderli un cantiere protetto da filo spinato e check point militari. Una sorta di minimondo riproducibile ovunque, passando sopra le persone, i corpi, i sogni, in due parole la vita di ognuno. Ma se a riprodursi e moltiplicarsi è anche la protesta allora tutto può cambiare. Ed è quello che sta accadendo in tutta Italia, con squarci anche in Europa. C’è la consapevolezza, chiara o intuita, che ciò che è in ballo è molto di più della realizzazione del Tav in Val Susa. Perché mentre si lotta si ha bene in mente che la solidarietà è quasi sconosciuta tra chi vive i suoi rapporti nel mondo attuale. Che la devastazione dell’ambiente sta raggiungendo un punto di non ritorno (o forse lo ha già raggiunto), in tutto il pianeta. Che la militarizzazione dei luoghi in cui viviamo, dalle città alle valli, sta per soffocarci. Che il regime democratico, anche quello dal volto pulito o tecnico è un cane da guardia, feroce e assassino.

Ciò che si ha in mente è questo ordine di cose, iniquo e insopportabile.

Dopo la caduta di un anarchico da un traliccio in Val Susa, solidarietà e complicità sono andate estendendosi. Non importa dove; ciò che ribolle nelle vene è spontaneo e più immediato di qualsiasi riflessione o analisi. Una pressione e un’agitazione diffusa sono linfa per la lotta contro l’alta velocità ma anche per tutto ciò che è in ballo. Gli schemi tuttavia non rappresentano una valida bussola da seguire. Agire da individui in fondo è fare ciò che ci si sente di fare, in Val Susa come altrove, da soli o insieme agli altri.

La discussione può essere sempre d’aiuto anche quando è opportuno essere tempestivi. La polemica, a volte un po’ tarata, al contrario non muove gli animi, li appesantisce.

1/3/2012

Viaggio al Quirinale

Non resta ormai che prenderne atto. La situazione di stallo che si è venuta a creare in Val di Susa è senza vie d’uscita. Chi pensava che un nuovo governo, una volta epurato da papponi e maroni, potesse assumere un atteggiamento diverso nei confronti delle rivendicazioni valsusine si è dovuto arrendere all’evidenza dei fatti. Lo Stato, quale che sia il governo che lo amministra, vuole a tutti i costi la costruzione dell’Alta Velocità in quella vallata piemontese. La popolazione interessata, nella sua stragrande maggioranza, la rifiuta categoricamente. Non c’è margine per nessun dialogo, per nessun confronto. Eppure così non si può andare avanti, questo nodo deve essere sciolto.

Si può fare. Ecco perché assume grande importanza la richiesta che verrà avanzata domani 6 marzo da parte del movimento NoTav di un incontro con il Presidente Napolitano. Richiesta che ci ha colpito per il coraggio e la determinazione. Naturalmente questo incontro si risolverebbe in una buffonata se la delegazione della piccola libera Repubblica si limitasse a chiedere alla massima carica della grande Repubblica schiava di intercedere in proprio favore. Manco i ribelli valsusini fossero nipotini scapestrati che chiedono al nonno buono di mettere una buona parola presso mamma e papà cattivi per far tornare la pace in famiglia. E sarebbe una vera cialtroneria se questa delegazione si appellasse davvero nella neutralità dell’uomo del Quirinale (il cui ruolo nella caduta del governo precedente è andato ben al di là della mera registrazione notarile degli avvenimenti). Insomma, il Quirinale rappresenta lo Stato, quello stesso Stato che promette di devastare la Val di Susa. Ma allora, fuori dalla dabbenaggine, qual è la ragione di un simile incontro?

Una ragione c’è, eccome. Coerenti con la propria fama di persone sensate e ragionevoli, rispettosi delle buone maniere, è giusto che i valsusini si rechino al Quirinale per annunciare l’unica risoluzione possibile di questo ginepraio. In una parola, la secessione. Secondo i dizionari politici, essa è «il distacco di un gruppo da un altro precedentemente esistente». È infatti evidente la presenza in Val di Susa di tutti gli elementi che possono determinare la secessione, la quale trova le sue ragioni quando l’organizzazione statale è rigidamente centralizzata e un gruppo sociale al suo interno vede la politica del governo centrale tesa alla mortificazione e alla distruzione del proprio volere.

Nessun dialogo, nessuna richiesta di comprensione, tolleranza o grazia. Solo la formale espressione della definitiva separazione da questo Stato, infame come solo uno Stato può esserlo. Sarebbe l’occasione giusta per togliere gli amministratori valsusini dall’imbarazzo in cui da anni si dibattono. Deve essere tremendo vivere sulla propria pelle la contraddizione di essere, al tempo stesso, rappresentanti della popolazione valsusina e funzionari dello Stato. Tirati per la giacchetta da entrambe le parti. La secessione porrebbe fine ai loro mal di pancia. Ed i ribelli valsusini non dovrebbero nemmeno attendere le prossime elezioni per mandare a casa chi li ha traditi.

Secessione, ora e subito. Tutte le istituzioni statali devono lasciare la Val Susa. Tutti i loro beni devono essere requisiti e messi a disposizione di tutti. Niente più sovvenzioni da chiedere, ma nemmeno più tasse da pagare. Autodeterminazione. E poiché il movimento NoTav si vanta di essere orizzontale e senza leader, la riorganizzazione del suo territorio non potrà che possedere queste medesime caratteristiche. Da questo punto di vista, c’è l’intero patrimonio del pensiero antiautoritario da saccheggiare (e quello del pensiero autoritario da gettare alle ortiche).

Secessione, ora e subito. Una decisione che, ricambiando i tentativi istituzionali di seminare zizzania evocando l’esasperazione dei molti (?!?) SìTav locali, costituirebbe un irresistibile richiamo della foresta per la base — cafona, ma sanguigna — di quello che si pretende il maggior partito del nord Italia. Impossibile opporsi ad una secessione proclamata a due passi da dove nasce il dio Po! Si può solo sostenere con entusiasmo, contro i vertici di ogni partito. E magari imitare.

Ovviamente, i processi di secessione sono spesso caratterizzati dal ricorso alla violenza, la cui intensità dipende dalla reazione del governo centrale. E le truppe di occupazione stanno già presidiando quei luoghi. Con la secessione, esse diventeranno invasori a tutti gli effetti. Si tratterà quindi di organizzarsi per buttarle fuori una volta per sempre. Come, è spiacevole quanto inutile dirlo. D’altra parte per i valsusini non c’è scelta: meglio smettere di essere pacifici che smettere di essere NoTav.

Secessione, ora e subito. È questa la sola ragione di un viaggio al Quirinale.

5/3/12

La Val Susa è dappertutto!

Questo è lo slogan che si è sentito echeggiare nei giorni scorsi per le vie di alcune città, e non abbiamo potuto che condividerlo. Crediamo che una simile affermazione non sia solo uno slogan retorico, ma una verità lapalissiana. Opporsi alla realizzazione di una linea ferroviaria per un Treno ad Alta Velocità (TAV) in Val Susa equivale, infatti, ad opporsi ad una qualunque delle innumerevoli nocività che il dominio globale, sotto la maschera della democrazia, tende ad imporre in ogni luogo. Sotto questo aspetto moltissime località hanno davvero ben poco da invidiare, stritolate come sono tra distese di campi fotovoltaici ed impianti eolici, centrali energetiche di ogni tipo e discariche, inceneritori e rigassificatori, e tanto altro ancora.

Alla luce di ciò, quella che è in gioco in Val Susa non è solo una guerra dello Stato contro i suoi cittadini di una zona ben determinata – e quando a difendere un cantiere ci sono i militari che tornano dall’Afghanistan, parlare di guerra è assolutamente preciso – ma una vera e propria prova di forza con cui lo Stato, nella forma di qualunque Governo, tende a imporre dall’alto le ragioni dell’economia sulla testa dei propri sudditi che, in quanto sudditi, devono solo accettare di obbedire. Con le buone o con le cattive. Laddove non basti il ricatto occupazionale, interviene il manganello; qualora non siano sufficienti le compensazioni economiche, saranno più chiare le sbarre delle celle.

Questo è il monito che assume carattere generale, questa è la posta in quella valle: la possibilità di interporci in prima persona tra l’imposizione di una nocività – sia essa ambientale, economica, sociale – e la sua realizzazione. Di tutto ciò sono ben consapevoli anche tutti i politici ed i Governi, ed è per questo che non possono accettare di arretrare; sanno benissimo che in gioco non c’è solo la possibilità di praticare una galleria in una montagna, ma l’intera credibilità del sistema della politica. Una vittoria della contestazione potrebbe rinfocolare ovunque l’opposizione a scelte calate dall’alto, e questo aprire scenari che potrebbero essere devastanti per la politica, qualora ci si rendesse conto che essa, e la democrazia che se ne fa portatrice, non è dalla parte della gente, ma esattamente contro. In poche parole, potrebbe aprire squarci di libertà, di quella vera, non quella scritta, morta, che giace nei nomi dei partiti e sulle loro bandiere. E la libertà, una volta assaporata, ha un gusto troppo dolce per tornare a rinunciarvi.

Allargare la lotta contro il TAV ovunque, quindi, al di là degli appuntamenti ufficiali, è interesse primario di tutti coloro che anelino alla libertà, oltre che lotta per sconfiggere le mortifere nocività che, ovunque, il potere vuole imporre contro le nostre vite e nell’interesse esclusivo dei soliti accaparratori e profittatori. Che in Val Susa come altrove, hanno sempre gli stessi volti.

11/03/2012

Provocatori

Una settimana fa, nella notte tra domenica 25 e lunedì 26 marzo, qualcuno ha appiccato il fuoco ad una centralina elettrica sulla linea ferroviaria fra Lambrate e Rogoredo, nei pressi di Milano. Mancavano solo due giorni all’anniversario della morte di Baleno, Edoardo Massari, l’anarchico arrestato con l’accusa di essere uno degli autori dei sabotaggi contro l’alta velocità in Val Susa e suicidato qualche settimana dopo in carcere nel lontano 1998. Qualcuno ha voluto ricordarlo, lui come Sole – ribelli scomparsi che a modo loro hanno contribuito ad accendere gli odierni sommovimenti valsusini.

Ma il piccolo atto di sabotaggio compiuto una settimana fa, accompagnato da alcune scritte contro il Tav, ha causato un certo disagio. A chi? Passi per le Ferrovie dello Stato che hanno lamentato ritardi nella circolazione dei treni. Passi per i viaggiatori che non hanno gradito di veder rallentato il proprio trascinarsi quotidiano. Ma che dire di quegli oppositori dei padroni delle ferriere che possono vantarsi di aver portato la lotta NoTav fuori dalla selva oscura della rivolta per trascinarla nell’illuminata agorà – piazza e mercato al tempo stesso – della politica? Puntualmente si sono affrettati ad evacuare un comunicato di dissociazione* diffuso a nome di un tal Movimento che in circostanze del genere assomiglia decisamente più ad un Partito o ad una Organizzazione.

Infatti un movimento sociale degno di questo nome, che per di più si pretende senza leader e senza Comitati centrali (visibili o invisibili che dir si voglia), dovrebbe comprendere al suo interno tutti coloro che ne condividono il fine liberatorio immediato, senza discriminazione alcuna sui mezzi. Se davvero fosse composto da una molteplicità di sfumature, rispettose le une delle differenze delle altre, a nessuna delle sue parti verrebbe in mente e sarebbe concesso di decidere la tinta unita a cui omologarsi. Contro il Tav – si sente dire – si dovrebbe poter recitare preghiere e tirare bestemmie, sussurrare e urlare, passeggiare e correre, difendersi e attaccare. Ed invece, ecco spuntare imperturbabile il solito ceto politico che si affanna a fare fronte contro i «provocatori» che non rispettano le «metodologie di lotta popolare fatte alla luce del sole» (linguaggio vetero stalinista quanto mai rivelatore). Ma chi lo dice che quelle metodologie sono l’unica e legittima espressione di un intero movimento? Già è irritante la costante preoccupazione di farsi benvolere dall’opinione pubblica quando si tratta di fatti che accadono in valle (come l’incendio dei veicoli della Italcoge di Susa nel luglio scorso), ma ora si è arrivati a tracciare linee di condotta anche per chi vive altrove. Senza che la cosa abbia suscitato un dibattito di qualche rilievo. Silenzio, nell’agorà tutto tace.

C’è chi si dissocia dal disordine dell’attacco singolare per dedicarsi all’organizzazione dell’acchiappo collettivo. E c’è chi mantiene in proposito un riserbo giustificabile solo in nome della Ragione del controStato. Nonostante le chiacchiere interessate ma assai poco interessanti, è bastato il piccolo fuoco divampato fra le rotaie meneghine per mostrare la grande differenza che intercorre fra la percezione che il tav è ovunque e l’intenzione di portare la valle in città. Nel primo caso viene identificato il nemico, se ne mostrano i lineamenti e l’onnipresenza sul territorio al fine di metterlo alla portata delle attitudini di chiunque. Nel secondo invece si pubblicizza un modello giudicato vincente, pretendendo di imporre le «metodologie di lotta popolare fatte alla luce del sole». A scapito di chi, è facile capirlo: di chi intende partire, agire e tornare in ordine sparso, a seconda dei propri gusti. A beneficio di chi, non ci sembra più superfluo aggiungerlo. Di quella politica portata avanti dagli strateghi diversamente repubblicani che, nel loro delirio d’onnipotenza, si son messi in testa di poter dettare a tutti ed in tutta Italia, non solo in una vallata piemontese, le istruzioni pratiche del conflitto — ovvero il chi, cosa, come e quando. Ma le pecorelle, non stavano dall’altra parte della barricata?

1/4/12

notav.info/top/incendi-dolosi-e-scritte-no-tav-comunicato-sta

La Francia ci dà ragione?

Si è fatto un gran parlare, un paio di settimane fa, dell’ipotesi presa in considerazione dal nuovo governo francese di bloccare il progetto dell’Alta Velocità. Tenuto conto delle ristrettezze in cui versano le casse dello Stato, un’opera dai costi così colossali rappresenterebbe una specie di suicidio. La notizia è stata smentita l’indomani — in un balletto di accordi internazionali, impegni presi, oneri da pagare — ma il dubbio resta. A modo suo la Francia, più seria di quest’Itaglia di nani e ballerine, ha dato ragione ai NoTav.

Rischia purtroppo di non essere nemmeno notata un’altra notizia analoga, anch’essa proveniente da oltralpe.

Jean-Christophe Archambault, direttore della linea TGV Sud-Est, in una conferenza stampa tenutasi a Lione il 26 luglio ha dichiarato: «Lavoriamo sui piani di sicurezza delle linee ferroviarie, spendendo milioni di euro, ma di fronte a persone molto determinate è difficile». In effetti, è proprio difficile proteggere 30.000 chilometri di rotaie. A cosa si riferiva? All’azione di sabotaggio avvenuta nella notte fra mercoledì 25 e giovedì 26, a Cuy, vicino a Sens, quando ignoti hanno tranciato un cavo sepolto ad una trentina di centimetri di profondità, che serviva ad alimentare la segnaletica sulla linea Parigi-Lione. Forti ritardi per tutta la mattinata per 60.000 viaggiatori.

È proprio vero. La Francia ci dà ragione.

27/7/12

Arruffapopoli

«Non sono mai riuscito a inchinarmi davanti a un Capo scuola o a un partito, fare numero tra la maggioranza, mentire nei giornali, frustare la lasciva Collera, accarezzare l’Intrigo dalla viscida pelle, rendere omaggio alla Parzialità guercia. Disprezzo questi intirizziti ambiziosi che tendono ambo le mani all’operaio, si pettinano, si vestono come lui e si credono obbligati a parlare il linguaggio scurrile dei mercati. Ci si ricordi, prima di tutto, che il popolo non ama i sorrisi forzati, che non li chiede, mentre al contrario si insiste nell’offrirglieli. Ancora una volta, non vi sono commedianti sinistri e cortigiani più vili, di quelli che lisciano il pelo alle masse».

Ernest Cœurderoy

Uno degli effetti collaterali più desolanti della “svolta” intrapresa da una parte del movimento anarchico negli ultimi anni — l’abbandono dell’alterità assoluta nei confronti dell’esistente in favore di un più pragmatico e realista possibilismo — è stato su altri versanti lo speculare diffondersi di una sorta di allergia per qualsivoglia lotta sociale. In molti casi è sufficiente nominare lo stesso concetto di lotta sociale per indisporre ed irritare non pochi compagni, i quali ormai la identificano con una sorta di cittadinismo d’accatto, con una ricerca di consenso popolare vieppiù disponibile al compromesso. Come se l’intervento in una lotta sociale si potesse concepire solo celando il proprio pensiero ribelle per ostentarne uno compiacente e riformista, come se la ricerca di complici in un simile contesto si concretizzasse necessariamente nella più imbarazzante questua di alleanze.

Questo equivoco non si è venuto purtroppo a creare in maniera casuale, bensì è il risultato diretto del dilagare di una vera e propria ossessione — quella di conquistare le “masse”, masse prive di desideri singolari e sensibili solo a bisogni collettivi. Una volta accantonata la questione di come diffondere le proprie idee e i propri metodi — ritenuti troppo esclusivi ed elitari — preferendo concentrarsi sulla necessità di attrarre il maggior numero di simpatie, la “soluzione” non può che essere una: la rinuncia alla tensione utopica, l’abbandono di ogni idea esagerata di libertà.

Il realismo ha fatto così irruzione nel movimento, sostituendo l’eccesso con la misura. Dalle pugnalate alla politica si è passati alle lusinghe e i falsi critici dell’esistente non vengono più visti come nemici con cui venire ai ferri corti, ma interlocutori con cui confrontarsi e all’occorrenza instaurare una proficua relazione. Tanto per dare un esempio di questa parabola, se anni fa si è iniziato a criticare il Tav perché non è in grado come promesso di far aumentare la circolazione delle merci, oggi si è arrivati ad opporsi al Muos reclamando la revoca delle autorizzazioni e appellandosi al rispetto delle norme del Parlamento europeo…

Qual è l’inevitabile risultato di queste acrobazie strategiche? Che a furia di veder sbandierate le “lotte sociali” per giustificare l’opportunismo politico, a furia di vedere l’anarchismo (nella teoria come nella pratica) messo al bando più dai compagni stessi che dalla magistratura, si è radicata in molti anarchici la convinzione che sia necessario stare alla larga da tali lotte, che sia meglio snobbarle o condannarle senza esitazione. Si tratta di un preconcetto che, a sua volta, ha avuto un proprio ruolo nel favorire lo sviluppo di un nichilismo cupo, identitario, chiuso in se stesso. Da una parte, il rinnegamento di se stessi al fine di poter stare in mezzo a tutti; dall’altra, il rifiuto a priori degli altri pur di non perdere se stessi. O l’allegra politica della comunella o la passione triste dell’autoisolamento? Si tratta di una alternativa secca che rifiutiamo, a cui non intendiamo sottostare e che reputiamo sia urgente spezzare.

No, in sé la lotta sociale non è una Circe in grado di ammaliare i compagni, di trasformarli in animali politici per poi rinchiuderli nelle stalle del cittadinismo. Se ciò è accaduto, non è affatto dovuto alla perversità intrinseca della lotta sociale e delle sue dinamiche, ma piuttosto alle scelte operative di singoli compagni e delle quali essi stessi sono gli unici responsabili. Una lotta sociale non è che un conflitto la cui natura, il cui contenuto, la cui posta in gioco per così dire, riguarda tutti indistintamente. Non è una lotta politica il cui unico sbocco finale si trova all’interno del contesto istituzionale. Non è un conflitto privato le cui ragioni e necessità sono comprensibili solo a pochi. La lotta contro una grande opera, una base militare, un inceneritore… è sociale proprio perché prende di mira un progetto la cui nocività minaccia chiunque. Una lotta sociale è tale perché è suscettibile ad allargarsi, a generalizzarsi. Null’altro. Non vi sono quindi motivi per avversarla o liquidarla. Semmai ve ne sono per interessarsene.

Esistono diverse maniere per prendere parte ad una lotta sociale. È una distorsione ottica e ideologica pensare che la compartecipazione quantitativa sia caratteristica fondamentale e distintiva delle lotte sociali. Non è così. Tante persone che manifestano per l’abolizione dell’ergastolo, ad esempio, per quanto numerose siano, stanno conducendo una campagna prettamente politica. Il loro dato numerico non rende affatto sociale la natura della loro protesta, il cui oggetto riguarda per forza di cose pochissime persone e il cui esito non può che essere di natura legale. Viceversa, quando anche pochi individui attaccano i cantieri dell’Alta Velocità, sempre a titolo di esempio, stanno conducendo a modo loro una lotta sociale. Non ha importanza in quanti siano, stanno sollevando una questione che tocca chiunque e con la loro azione suggeriscono a tutti una possibilità di intervento, oltre ad incidere direttamente sul corso degli eventi. Rimanendo nell’esempio, chi sostiene che le odierne lotte di massa in Val Susa non hanno avuto origine anche dai sabotaggi individuali di una quindicina di anni fa mente sapendo di mentire.

Va da sé che una trasformazione radicale non può essere opera di pochi sovversivi. Nessun colpo di Stato o di contro-Stato potrà mai liquidare l’autorità. Nessuna azione, per quanto calibrata e audace, potrà riuscire da sola a sovvertire l’esistente (per altro, non più di quanto potrebbe riuscirvi una assemblea permanente). La tempesta rivoluzionaria ha bisogno di tutto, delle pratiche come delle idee, degli atti individuali come dei movimenti sociali, e dentro il suo vortice ognuno è libero di seguire le proprie attitudini e inclinazioni. Ciò detto, dovrebbe essere ovvio che qualsiasi fiammifero acceso è in cerca della polveriera.

Il rifiuto degli altri può essere una caratteristica individuale — a nostro avviso comprensibile e rispettabile — ma non può certo venir teorizzato, proposto o assunto come tratto progettuale. L’insurrezione non è e non è mai stata la somma degli attacchi realizzati dai soli compagni. L’insurrezione è un fatto sociale la cui enormità pone senza dubbio la questione della ricerca di possibili complici. Una ricerca che può essere intrapresa però con modalità assai differenti.

Indubbiamente una delle strade è quella che porta a battere le vie del consenso politico. Moderare le proprie aspirazioni, mimetizzarsi nell’ambiente, rinunciare alla dismisura pur di farsi accettare. Adeguarsi per essere all’altezza della situazione. Smettere di vestirsi di nero (che spaventa la gente), smettere di bestemmiare (che offende la gente), smettere di dichiarare obiettivi radicali (che allontana la gente)… Fino a smettere di essere anarchici, che la gente non la capisce e non la vuole l’anarchia. Sostenere un anarchismo occasionale, circostanziale, situazionale, da rivendicare con orgoglio il giovedì (quando si è soltanto coi compagni) per dissimulare con scaltrezza il sabato (quando si è soprattutto con operai, disoccupati e massaie). Tentare in ogni modo di carpire la fiducia della gente, entrando in competizione coi vari racket autoritari per il controllo del “movimento sociale” di turno… finendo per diventare politicanti alla stregua di tanti altri.

È quanto stanno facendo oggi coloro i quali, nel maldestro tentativo di giustificare l’ingiustificabile, riescono addirittura a richiamarsi ad esperienze del passato che nulla hanno a che spartire con il loro presente. Come chi equipara la lotta antimilitarista anarchica intrapresa a Comiso trent’anni fa con l’odierno assistenzialismo cattocomunista. Là, una struttura mortale del dominio da attaccare, cercando di coinvolgere quanti più sfruttati possibile attraverso una metodologia anarchica. Qui, un bisogno elementare da soddisfare per raccattare consenso e autorevolezza, arrivando a teorizzare apertamente l’abbandono della «orizzontalità decisionale» pur di raggiungere questo scopo. Ma tutto questo confusionismo interessato non è affatto l’inevitabile risultato del tentativo di coinvolgere altri nelle proprie cospirazioni. Non c’è motivo di scegliere fra la noia del soliloquio e la banalità della propaganda.

Certamente una lotta specifica avanza rivendicazioni parziali. Se si dovesse attendere che gli sfruttati comincino a richiamarsi all’anarchia prima di degnarli della nostra attenzione, la solitudine sarebbe la nostra condizione perpetua. Ma battersi a partire da una rivendicazione parziale non significa in sé accettare di diventare amplificatori del più insulso riformismo. Si può anche partire da rivendicazioni parziali per mettere in discussione la totalità dell’esistenza. Si può cercare di diffondere l’ostilità nei confronti di questo mondo, anziché accattivarsi simpatie ripetendo assennati rimproveri. È ovvio che a chi vuole solo difendersi da una nocività non interessa sentir parlare di insurrezione e anarchia, ma forse che per questo si deve esortare alla repubblica o alla democrazia?

Ovviamente no. Qualsiasi lotta contro un progetto dello Stato può benissimo fare a meno di riprendere le ragioni e gli slogan di chi pensa che un altro Stato è possibile. Il fatto che queste ragioni e questi slogan siano più comprensibili, più “sentiti”, non significa che siano gli unici che si possano sostenere. Anzi, per quanto ci riguarda vanno evitati con determinazione, se non si vuole dare il proprio contributo alla riproduzione sociale. Si tratta di fare una scelta: meglio privilegiare l’aspetto quantitativo o quello qualitativo? Nel primo caso ci si rivolgerà agli altri dando ampio spazio alle ragioni tecniche che giustificano l’opposizione contro una nocività, accompagnandole magari da tutta quella retorica a metà strada fra il cittadinismo (mancanza di controlli e autorizzazioni, sperpero di denaro pubblico…) ed il sentimentalismo (…il futuro dei nostri figli). Le ragioni altre, quelle più indigeste ai luoghi comuni, vengono accantonate, sfumate, taciute, fino ad essere del tutto dimenticate. Nel secondo caso, avviene tutt’altro. Le ragioni tecniche vanno sì ricordate, ma solo come corollario. Non ha senso battersi contro la società tecnologica usando le sue stesse armi, così facendo si riduce il proprio discorso ad una disputa fra specialisti, ad una competizione tecnica fra esperti. Che un progetto dello Stato o del capitale funzioni o meno, non è certo su questo che possiamo fondare la nostra azione. Molto meglio cercare di dimostrare come quel progetto specifico, in tutta la sua letalità, non sia affatto una contraddizione, un’aberrazione, un errore della società in cui viviamo, ma semplicemente una sua inevitabile conseguenza. Ciò significa, pur con tutti i limiti imposti dalla parzialità della situazione, portare comunque avanti la propria critica. Partire sì da un dettaglio parziale, ma per mettere in discussione la totalità dell’esistente. Non adeguarsi alla situazione per potervi partecipare, ma cercare di eccederla per farla precipitare. Un intervento autonomo quindi non è affatto un intervento che rifiuta a priori il contatto con gli altri, come vorrebbe l’idiota vulgata attivista, è piuttosto un intervento che non fa dell’aspetto quantitativo il proprio punto di riferimento. Un intervento che lascia la porta aperta, talvolta pure spalancata, ma che non per questo apre bottega o è disponibile a stringere la mano a chiunque. Raggiungere gli altri per riverbero più che per contagio, e agire solo con chi non ha mire politiche. Sabotare le manovre degli aspiranti leader, non coadiuvarle col nobile intento di correggerle. Marcare la differenza nei confronti di tutti i politici, altro che rivendicarne la comunanza.

È chiaro che solo la via politica può garantire un certo «riscontro» numerico immediato, ovvero la certezza di non rimanere soli, oltre ad un lusinghiero prestigio personale. L’altra ipotesi — quella che non sa cosa sia il calcolo strategico — costituisce una incognita, dai risultati spesso tristemente prevedibili. Ma è inutile girarci attorno: se ci avviciniamo agli altri è per scoprire complici, non per fare o reclutare manovalanza.

Checché se ne dica, anche questa è lotta sociale.

20/2/13

Verticalismi

L’identificazione del nemico. Questo sarebbe, secondo un recensore, uno dei meriti della lotta contro il TAV in Val Susa e del libro che quella lotta racconta, ovvero “A sarà düra. Storie di vita e di militanza NoTav”, edito da Derive Approdi e curato dal centro sociale Askatasuna di Torino. Ammesso che questo sia realmente un merito del libro, le serate di presentazione che si tengono in giro per l’italico stivale non sono da meno, nel senso che, anche nel corso di queste, qualche nemico è possibile identificarlo. Nemici della libertà individuale, per esempio, da riconoscere in coloro che ci spiegano come la lotta in generale, ed in Val Susa in particolare, per raggiungere i suoi scopi non possa mai essere portata avanti, fino in fondo, in maniera orizzontale. Ci spiegano, i militanti, come ad un certo momento sia assolutamente necessaria una verticalizzazione delle lotte, un momento in cui alcuni prendano per la testa le lotte ed i movimenti che le portano avanti, e le guidino verso la vittoria, verso risultati politici che altrimenti non potrebbero essere raggiunti. Nella pratica ciò è possibile costituendo una sorta di organizzazione leninista.

Come conseguenza di tale modo di guardare alle lotte, ed alla vita, in una serata nel Salento il militante che presentava il libro ha affermato che, naturalmente, quando accadono episodi che si ritengono dannosi per il proseguimento delle proteste – dannosi nella loro stessa essenza oppure perché il contesto sociale non è ancora pronto ad un tale livello di scontro – è giusto che il movimento prenda le distanze; tutto ciò dopo essersi dilungato su quanto sia variegato questo movimento, e sulla bellezza di questa pluralità di componenti, che ne esprimono la ricchezza. A questo punto una giusta domanda è stata rivolta: come fa, il movimento, nella pratica, a decidere di dissociarsi da qualcosa che non condivide, essendo così variegato? Si fa una assemblea fra tutte le componenti? La risposta è stata che non si è ad un tale grado di formalismo, quindi ci si sente tra un po’ di persone che siano riconosciute dal movimento, e si prepara il comunicato. Non è dato sapere, purtroppo, e ragioni contingenti hanno impedito di approfondire, cosa significhi essere riconosciuti dal movimento… Che sia qualcosa che si acquisisce per prossimità territoriale? In base alle iniziative a cui si partecipa o in base alle ore di militanza spese in valle? Magari qualcuno avrà modo di approfondire in una delle prossime presentazioni.

Alla luce di quanto affermato sull’essere pronti ad un certo livello di scontro, è stato curioso ascoltare dal militante in questione come lui stesso abbia dovuto salvare, dopo la caduta di un compagno da un traliccio, un giornalista dalle grinfie di alcuni vecchietti particolarmente ostili: la loro ostilità, non era forse segno della maturazione e del raggiungimento del livello di scontro idoneo a quello che era il loro proposito? Certo, chi parlava non poteva ammettere che quella mossa sia stata frutto di mero calcolo politico, tenuto conto della convinzione di poter sfruttare – seppure con pochi margini, come ammesso – la presenza dei giornalisti in Val Susa, ragion per cui è stata mossa una critica a coloro che, con dogma quasi religioso, sono ostili a queste figure. Senza che fossero nominati chiaramente, qualcuno in sala ha avvertito un certo riferimento agli anarchici.

Riferimento che appariva tutt’altro che velato nella critica a chi non condivide la formula della rappresentanza, mentre si tessevano invece le lodi e la giustezza del condurre la lotta anche su questo fronte. Una lotta, è stato affermato, portatrice di frutti notevoli, quale l’elezione di un NoTav come presidente della Comunità Montana, e la vittoria di liste civiche NoTav contro liste congiunte PD/PDL in alcuni comuni della valle. Forti di ciò, le imminenti elezioni politiche sono un momento a cui, a dire del militante, il movimento NoTav guarda con attenzione…

Un richiamo al passato per capire il presente. Nel corso della serata non si è potuto fare a meno di parlare degli inizi della lotta contro il Tav in Val Susa; grande enfasi è stata data al fatto che si sia riusciti a raggiungere mobilitazioni di massa in una lotta iniziata da appena un paio di studiosi, e poco più, molti anni fa. La presenza in sala di qualche vecchio con la memoria non completamente sbiadita ha fatto notare che, circa 15 anni fa, c’erano anche altri oppositori al Tav, che avevano iniziato un percorso di lotta con una certa lungimiranza, pagando anche duramente. Due di loro, chiamati Sole e Baleno, addirittura con la vita. A tale osservazione, il militante ha risposto che ora, a distanza di anni, quella storia è stata, in un certo senso, assimilata e digerita dal movimento, ma che a suo tempo quei fatti hanno impedito e bloccato, per un paio d’anni, la prosecuzione di un percorso di lotta. E comunque, a lui, quella storia non era ancora chiara… Anche su questa chiarezza non è stato possibile approfondire, ma l’insinuazione lasciava aperta ogni possibilità su chi fossero davvero questi due che sono morti, o sulla possibilità che fossero manovrati da qualcuno, oppure… Mors tua, vita mea: la lotta fino alle estreme conseguenze di alcuni compagni è terreno su cui si edifica la lotta politica dei militanti.

Ma in fondo, oggi, tutto ciò non conta più nulla: il movimento è cresciuto ed ha in sé chi pretende di autocandidarsi alla sua guida. La memoria storica può essere seppellita e giacere insieme a coloro che non ci sono più. Requiescat in Pace.

22/02/2013

Neve

È primavera da qualche giorno, ma non si direbbe. Piove, fa freddo, qua e là cadono persino copiosi fiocchi di neve. Eppure, sabato 23 marzo è stata una giornata di manifestazioni.

A Roma si sono radunati i sostenitori del Padre Ubu italiota, il Popolo della Libertà. Secondo gli organizzatori – si sussurra, colpiti da uveite – erano in trecentomila. Tutti convinti (passiamo pure sopra i numerosi figuranti pagati) che solo questo Stato, nella sua versione liberal-televisiva, è possibile. Nient’altro. Altrimenti è la bancarotta, si fa la fine di Cipro o della Grecia, si finisce in mano ai “comunisti”. Via libera alle grandi opere e alle privatizzazioni, basta con le inchieste giudiziarie troppo invadenti nei confronti di ricchi e potenti.

Sempre a Roma, ma anche a Milano e a Genova, si è dato appuntamento il popolo Viola, ovvero i fustigatori del Padre Ubu italiota. Una petizione che ne dichiara l’ineleggibilità ha raccolto duecentotrentamila firme, incalzano gli organizzatori. Codice civile alla mano, legalità nel cuore, strillavano che solo uno Stato costituzionale è possibile. Nient’altro. Altrimenti è l’arbitrio dell’illegalità, e si finisce in mano a tiranni grandi e piccoli. Più rispetto per le sentenze, più strumenti alle forze dell’ordine, più obbedienza alla legge.

E poi – soprattutto – c’è stata la manifestazione in Val Susa dove ha marciato il popolo NoTav. Settemila per le forze dell’ordine, ottantamila per gli organizzatori. Che importa. Ciò che conta è che sono partiti insieme e sono tornati insieme: uomini e donne, giovani e vecchi, imprenditori e operai, credenti e atei, conservatori e sovversivi. Tutti legati da un pensare positivo che rende il loro movimento tanto vivo (e che, senza spingersi troppo oltre, va da Hugo Chavez a Padre Pio). Composto da attivisti quasi tutti convinti che un altro Stato è possibile. Uno Stato che rispetti il parere dei suoi cittadini e non si imponga autoritariamente; uno Stato che non sperperi il denaro pubblico ma lo spenda in servizi sociali; uno Stato che non instauri stati di eccezione perché rispettoso del diritto: uno Stato bravo, buono e giusto. Nient’altro. Altrimenti la democrazia viene tradita. A vegliare su di essa ora si sono aggiunti anche i neo-parlamentari che hanno dimostrato l’inettitudine del dogmatismo astensionista permettendo agli attivisti di prendere dall’interno le misure del cantiere «illegale» «illegittimo» «inesistente». Meno male che ci sono i senatori.

Gira che ti rigira, la conclusione è sempre la medesima. Voce di popolo vuole che solo lo Stato è possibile. Tutti forti di questa certezza – Padre Ubu pensa di aver piantato il seme dell’impunità sotto la neve del consenso elettorale, i suoi fustigatori violacei pensano di avere piantato il seme della giustizia sotto la neve della legalità, mentre gli attivisti NoTav pensano di aver piantato il seme della libertà sotto la neve del cittadinismo.

Ma piove, fa freddo, qua e là cadono persino copiosi fiocchi di neve. E questa primavera si sta rivelando un incubo, sembra non arrivare mai. Ecco perché ci si rivolge ai numeri, che rassicurano e gratificano. Senz’altro, ma presentano anche un difetto: più crescono, più è facile che non tornino i conti. Più che una minaccia agli amici del popolo, un invito ai suoi nemici.

25/3/13

Guardie e ladri

«Di respirare la stessa aria dei secondini non mi va

perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà»


Durante il corteo NoTav dello scorso 23 marzo in Val Susa, alcuni manifestanti sono entrati in un esercizio commerciale di Bussoleno, hanno prelevato merci per poi uscire senza passare dalla cassa. Le hanno più semplicemente rubate. A render(ce)lo noto è il Movimento No Tav che in un suo comunicato denuncia l’episodio «molto grave», stigmatizzandolo duramente. Gli autori del furto sono paragonati per «brutalità e ignoranza» a chi occupa e devasta quella valle, essendo «arroganti» e «prepotenti» con brave persone che in tempi di crisi cercano di sopravvivere «in modo onesto», e per questo motivo vengono dichiarate – udite! udite! – persone «non gradite in questa terra e nella nostra lotta». Il Movimento No Tav intima quindi a «chi si fosse macchiato di questa infamia» di evitare in futuro di calpestare il suolo valligiano, giacché «questo episodio non rappresenta la lotta no tav, chi ha compiuto questo gesto non può definirsi no tav o portare questa bandiera. Chi ha compiuto questo gesto può solo essere allontanato dal movimento no tav».

Chi sia codesto Movimento No Tav che stila comunicati di condanna per ogni atto che rischi di gettare pubblico discredito sulla lotta No Tav presso le persone dabbene, ormai lo abbiamo appreso. Ce lo ha spiegato un NoTav, nonché militante autonomo torinese, nel corso della presentazione di un libro. Sono alcuni attivisti «riconosciuti dal movimento» che, in circostanze analoghe, si sentono fra di loro e decidono il da dirsi. Poiché il Movimento No Tav si vanta di non appartenere a nessuno e di essere plurale, molteplice, rispettoso delle differenze, a nessuna delle sue singole componenti è concesso di rappresentarlo. Tuttavia la lotta popolare ha le sue esigenze ed urgenze. Come insegna qualche anarchico assai pratico e poco metafisico, non si tratta di passarsi in tutta calma un bucolico bastoncino per decidere di che colore dipingere il fienile. Quando l’acqua bolle, bisogna pur che qualcuno decida per altri e cali la pasta. Ma non chiamatelo leaderino, gli sgualcireste le buone intenzioni e finirebbe per offendersi. Noi, da cafoni quali siamo, chiamiamo questo qualcuno ceto politico. Il ceto politico No Tav è quel qualcuno – democratico, autonomo o anarchico, per noi non fa differenza – che si riunisce in separata sede, stabilisce la strategia, la linea di condotta collettiva, e poi la sottopone a ratifica assembleare. In questo senso abbiamo ancora sotto gli occhi l’assemblea popolare che ha preceduto la manifestazione del 23 ottobre 2011, quella immediatamente successiva ai disordini scoppiati a Roma il 15 ottobre. Un illuminante esempio della cialtroneria della democrazia di base, diretta, popolare: il leader mediatico fa il suo ingresso accolto da un’ovazione, comunica che la sera precedente nel corso dell’incontro dei comitati hanno deciso per una manifestazione pacifica, e minaccia l’esclusione di chi non si adeguerà alla decisione già presa, dopo aver evocato la drammaticità del momento. L’assemblea non certo come luogo di dibattito fra tutti, ma come timbro di vidimazione alle decisioni prese dai pochi.

Siamo davvero colpiti dalla doppia morale di questo fantomatico Movimento No Tav, che applaude i senatori marcianti alle sue manifestazioni, i magistrati partecipanti alle sue iniziative, gli alpini presenti ai suoi presidi, i preti officianti ai suoi appuntamenti… ma che è sempre lesto a condannare sabotatori e ladri. Chi allunga la mano sulla proprietà altrui, compie un gesto «infame». Chi siede sugli scranni e amministra la vita altrui, chi ha riempito le galere, chi è pronto a fare la guerra, chi serra le manette ai polsi… no. Costoro non sono né arroganti né prepotenti, sono persone gradite, a cui è concesso calpestare il sacro suolo valsusino, a patto di aver prestato giuramento alla bandiera No Tav. Con loro si può partire e tornare insieme, con loro si può condividere; con quegli altri, no. Ancora una volta è questa la voce che si leva – forte e potente, tanto più in quanto incontrastata – dalla valle che resiste. La collettività (che sia scaltra menzogna o pia illusione) deve essere seguita, l’individuo è messo al bando.

La Val Susa è proprio diventata un’acquasantiera, basta bagnarvisi per venire mondati da tutti i peccati. Acquasantiera della società civile, in grado di far apprezzare giornalisti e magistrati, politici e militari, padroni e sacerdoti. Ed acquasantiera del movimento, in grado di far apprezzare calunniatori e dissociati. Chi osa entrare in chiesa senza farsi il segno della croce «non ha capito nulla della lotta no tav e della valle di Susa». Il ceto politico ne deduce con molta umiltà che costui «non ha capito nulla della vita e della lotta in ogni caso» – e deve perciò essere allontanato. Amen.

Ci vuole tanta, tanta massa obbediente per vedere soddisfatte le ambizioni dei capipopolo. Ma basta qualche individuo riottoso per vederle andare in rovina. Per sempre.

30/3/13

Dal finestrino

Il fischio del capotreno, l’allarme sonoro delle porte che si chiudono. Stiamo partendo. Il treno avanza lentamente, lasciandosi alle spalle la stazione. C’è una enorme metropoli da attraversare prima di sbucare nella campagna. Non ho voglia di leggere, non ho sonno: guardo fuori dal finestrino. Lo sguardo vaga per un po’, poi la mia attenzione si concentra su quanto si può vedere lungo i binari. Lunghe mura e poderose colonne colorate con disegni, riempite di scritte. Ce n’è per tutti i gusti. Dichiarazioni d’amore, sfoghi, sigle, tifo sportivo. Talvolta compaiono slogan dal suono familiare: “Liberi tutti”, “No Tav”, “Bloccare tutto”…

Ecco, mentre il treno avanza pigro, non riesco a fare a meno di pensare a questi “writer” militanti che nel buio della notte scavalcano recinzioni ed eludono telecamere per arrivare fin lì, a un passo dalle rotaie. Quanto tempo impiegheranno per rifinire quei graffiti, per contornare quelle lettere cubitali? Ore? Non lo so. So solo che accanto a loro, dietro e davanti a loro, sopra e sotto di loro, si estende tutto un groviglio di cavi, fibre ottiche, valvole, centraline… Trovandosi nel posto giusto e nel momento giusto, basterebbero pochi secondi per passare dall’esortazione all’azione. E invece… Forse quelle infrastrutture sono troppo sottili per poterci scrivere sopra la propria rabbia. Nessuno la leggerebbe.

Superata la metropoli, ora il treno prende velocità. Il paesaggio circostante è mutato, non ci sono più condomini deprimenti e strade intasate, bensì pianure, boschi e sentieri. La bellezza della natura è davanti ai miei occhi ma questi oramai sono puntati sui binari, perennemente costeggiati da lastre di cemento che coprono canaline in cui scorrono i cavi e le fibre. Di tanto in tanto una centralina elettrica di collegamento sfreccia davanti ai miei occhi. A volte piccola, a volte grande. A volte in prossimità di abitazioni, a volte sperduta nella campagna. E poi tralicci, antenne, e tanti altri strani oggetti e strutture. E questo lungo tutto il viaggio, per centinaia e centinaia di chilometri.

Sto per arrivare. Il treno rallenta, penetra in un’altra metropoli. Anche qui i graffitari della notte si sono dati da fare. Anche qui, i soliti slogan: “Liberi tutti”, “No Tav”, “Bloccare tutto”…

Ora il treno è fermo. Il viaggio è finito. Prendo i bagagli e attendo di sentire l’allarme sonoro delle porte che si aprono. Scendo e mentre mi dirigo verso l’uscita sorrido al pensiero che talvolta fa proprio bene stare al finestrino.

giugno 2013

Vattimix in Val Susa

Cinto con l’alloro dell’europarlamento, anche il celebre filosofo del pensiero molle Gianni Vattimo è giunto a bagnarsi all’acquasantiera valsusina. Inchinatosi alla Valle-che-resiste, tutti i suoi peccati gli sono stati naturalmente mondati. Perché grande è la grazia del Movimento NoTav. Dopo il rito di accettazione, al filosofo è stato dato un nuovo nome ed ha potuto rendersi immediatamente utile. Così Teresio Vattimix ha distribuito qualche briciola del suo sommo sapere nel corso di cene filosofiche a cui erano invitati perfino gli zotici valligiani.

Ma perché no? Dopo Agnolettix e Chiesax, i delatori di Genova 2001 che facevano capolino nelle conferenze stampa NoTav, dopo Imposimatix e Pepinix, magistrati incaricati di spiegare al popolo che il cantiere è illegale, illegittimo e anticostituzionale, cosa c’è di strano se anche Vattimix si mette al servizio del Movimento?

Qualcuno (settario, ideologico, fanatico, in malafede, poco pratico…) dirà: ma chi, quello che ai tempi della morte di Baleno e Sole si univa al coro di benpensanti contro i giovani scapestrati che vivono in spazi occupati, non lavorano, non vanno all’università e odiano questo mondo miserabile? Ma chi, quello che redarguiva i manifestanti che imbrattavano i muri o spaccavano le vetrate del palazzo di giustizia di Torino? Ma chi, quello che irrideva il «vuoto culturale» di chi «devasta le nostre città», dichiarandosi sicuro che una buona scuola e l’inserimento nel mondo del lavoro avrebbero sottratto tanti giovani alle utopie di una vita totalmente alternativa? Ma chi, l’europarlamentare del partito delle manette?

Ma certo che sì! Non confondiamo etica e politica. Un europarlamentare può sempre fare comodo. Ad esempio, può entrare in carcere a fare visita ai NoTav arrestati col codazzo di occasionali consulenti accreditati. I sabotatori solitari o i ladri nei supermercati lo potrebbero mai fare? No, quelli danno solo cattiva fama al Movimento. Questo Movimento che si dice abbia tante anime. Peccato che abbia anche un’unica voce forte e chiara: quella più becera e sinistra della politica. Le altre, o tacciono o brontolano. Ma non per mancanza di coraggio o di dignità, sia chiaro: per essere come sempre all’altezza della situazione.

Eh, aveva proprio ragione quello scrittore: «brindo ai compagni di un tempo, e alle loro ossa che biancheggiano al sole»…

22/8/13

Noi preferire voi incazzati

In questi giorni il signor Movimento No Tav è sull’orlo di una crisi di nervi. Non stiamo parlando naturalmente di tutti coloro che in Val Susa si battono contro l’Alta Velocità, ma di quei pochi, pochissimi fra loro che pretendono di decretare la linea di condotta di questa lotta. Il signor Movimento No Tav si è stizzito per le critiche che gli sono state fatte a proposito del suo recente reclutamento di un neuroparlamentare distintosi all’epoca della morte di Baleno e Sole nel gettare fango sui compagni. Per mettere “i puntini sulle i” ha diffuso i ragionamenti che gli salivano in mente mentre stava camminando trascinandosi. Innanzitutto che la sua lotta No Tav va difesa, non criticata. Non esiste la perfezione, può essere bella o brutta e va amata comunque perché così è la vita e poi, diciamolo, tutto il resto è noia. Suvvia compagni, se il signor Movimento No Tav accoglie delatori, amatelo e difendetelo. Se invita magistrati, amatelo e difendetelo. Se rincorre politici, amatelo e difendetelo. Non esiste la perfezione, c’è il bello e c’è il brutto, così è la vita, basta solo che non ci sia la noia della critica e dell’azione autonoma.

L’argomentazione delle riflessioni estive del signor Movimento No Tav si concentra in seguito su una frase che attribuisce al mitico Giacu, l’abitante dei boschi valsusini: noi contenti quando voi arrabbiati. Purtroppo la nostra memoria, a differenza di quella di molti altri, non si dilegua pur di instaurare e consolidare proficui rapporti. Così come ricorda delatori, magistrati e politici, ricorda anche che «noi contenti quando voi arrabbiati» è la rimasticatura di una frase tratta da una folgorante rivendicazione del gruppo francese Os Cangaceiros che fra il 1989 e il 1990 attaccò alcune ditte coinvolte nella costruzione di nuove carceri:

«Voi bella centrale di betonaggio – Voi contenti.

Voi costruire prigione Laon – Noi incazzati.

Noi distruggere quadro di comando computerizzato – Voi incazzati.

Noi preferire voi incazzati – Noi contenti».

Giacu è un personaggio molto popolare in Val Susa, gli Os Cangaceiros decisamente no. Loro erano un gruppo clandestino che non aspettava di udire alle spalle il passo di marcia delle masse per entrare in azione. Il signor Movimento No Tav ha la trista mania di trasformare espressioni criminali in slogan politici, di ridurre in acqua santa lo zolfo rimasto nel sacchetto dei ricordi a qualche suo prodigo compagno di merende anarchico. Già si è adoperato con si parte insieme e si torna insieme, che da fiero patto di sangue fra rapinatori è diventato opprimente obbligo collettivista, ed ora ci riprova con le parole rimaneggiate dei vecchi sabotatori francesi, improbabili precursori del cittadinismo valsusino. A suo avviso, noi contenti quando voi arrabbiati significa (sic!) che la lotta No Tav deve coinvolgere parlamentari ed eleggere amministratori locali simpatizzanti. Come a dire che per far arrabbiare il potere bisogna, se non prenderlo, almeno influenzarlo attraverso la dialettica fra conflitto e consenso. Eh, il desiderio padre del pensiero…

Il signor Movimento No Tav aveva appena finito di chiarire questa sua arguta strategia che la magistratura brutta e cattiva al servizio di uno Stato brutto e cattivo si è ancora una volta imbufalita. Prima ha ordinato alcune perquisizioni, in valle e in Liguria. Poi se l’è presa pure con Vattimix — confidenzialmente Gianni per i suoi nuovi compagni di lotta —, convocato in procura assieme ai due attivisti che lo hanno accompagnato nella sua visita al carcere di Torino. Per il neuroparlamentare si ipotizza il reato di falso ideologico (per i due attivisti, quello di circonvenzione di incapace?). Passano solo poche ore da che il signor Movimento No Tav aveva ripreso le sue buone abitudini — diffondere foto di compagni, sbandierare prove di innocenza (passando sopra il cadavere di chi non vuole o non può fare altrettanto), e via intristendo — ed ecco che la polizia ferma una macchina con a bordo due attivisti: dal baule saltano fuori petardi, cesoie, chiodi, maschere antigas. Nulla di strano, ma tanto basta per scatenare la canea mediatica che inizia a parlare di un arsenale diretto ad un gruppo di fuoco, di decine di attivisti incappucciati rimasti a secco di mezzi… Il signor Movimento No Tav spiega, precisa, giustifica, difende ma poi, diomio!, il patatrac. Qualcuno fa quello che facevano gli Os Cangaceiros, ovvero attacca una delle ditte che lavorano nei cantieri. Nella notte fra venerdì e sabato alcuni macchinari della Geomont di Bussoleno sono stati dati alle fiamme.

E qui il signor Movimento No Tav vacilla, barcolla e per non cadere si aggrappa con tutte le sue forze ad una delle più ripugnanti accuse che si possano lanciare. Attribuisce — per indiretto sospetto, ricevuto e pubblicato — il magnifico incendio della Geomont al racket legato alle assicurazioni (i servizi segreti lasciamoli per la prossima volta, meglio non abusarne troppo). Povero signore, in che condizioni ormai è ridotto. Urla, strepita, pesta i piedi. Dovrebbe calmarsi, in fondo sa bene che in una lotta c’è il bello e c’è il brutto, la perfezione non esiste, tutto va amato e difeso, così è la vita, altrimenti si finisce nella noia della politica…

Che il signor Movimento No Tav la smetta una volta per tutte di calunniare l’azione diretta, in valle come altrove. Anche perché, in valle come altrove, persino i bambini sanno chi è stato realmente a dare fuoco alla Geomont.


Voi bella ditta fondazioni speciali – Voi contenti.

Voi costruire TAV – Noi incazzati.

Giacu incendiare vostri macchinari – Voi incazzati.

Noi preferire voi incazzati – Noi contenti.

2/9/2013

Quel che non fanno i compagni

Troppo bello per essere vero, non poteva durare a lungo. Ed infatti è durata solo un mesetto la tregua del signor Movimento No Tav con la propria smania dissociazionista.

Dopo le polemiche scoppiate sulla sua pronità nel diffondere dubbi sulla paternità del sabotaggio ai danni della Geomont avvenuto il 30 agosto, costui pareva finalmente persuaso a starsene zitto davanti agli attacchi contro le ditte coinvolte nella costruzione del Tav. Non che lo avessero colpito le critiche di parte anarchica che gli erano piovute addosso, per carità. L’ombrello della politica ripara da ben altro. Ma insomma, diciamolo, non poteva accettare di essere «scavalcato a sinistra» da un esegeta delle Sacre Scritture (ieri Il Capitale, oggi la Bibbia) come lo scrittore Erri De Luca. Se persino lui aveva capito ed era pronto a sostenere pubblicamente che contro un’opera mostruosa come il Tav era più che giustificato il ricorso al sabotaggio, se financo alcuni suoi colleghi radical-chic del bel mondo della cultura e dello spettacolo avevano espresso solidarietà all’ex militante di Lotta Continua affascinato dal cristianesimo (immediatamente linciato per le sue parole dalla canea reazionaria), poteva il signor Movimento No Tav fare la figura del pompiere più fesso? Ovviamente no. E si era adeguato alla situazione. In occasione delle successive azioni contro la Imprebeton (9 settembre) e ancora contro la Geomont (1 ottobre), il signor Movimento No Tav se n’era rimasto finalmente in silenzio. Grazie Erri De Luca per aver sdoganato il sabotaggio! Se non ci fossi tu…

Ma a tutto c’è un limie, santa pazienza! Passi la violenza contro le cose, ma la violenza contro le persone, questo giammai! Così, quando il 3 ottobre l’infame giornalista de La Stampa Massimo Numa ha ricevuto un pacchetto esplosivo, il signor Movimento No Tav è tornato alle sue vecchie abitudini. Lui che tanto si atteggia a nuovo partigiano, lui che — comandante Giap de noantri — giura di aver portato Saigon alla Maddalena (mentre i suoi compagni di merende anarchici, vittime di una medesima autosuggestione ideologica, preferiscono tuonare di aver portato Atene a Chiomonte) si è precipitato a strepitare contro questo mezzo impopolare: «Il movimento no tav ha chiarito in più occasioni che non ha assolutamente nè la volontà nè l’interesse di creare danni alle persone. Pallottole e bombe non ci appartengono». Come al solito, zum zum, un compagno non può averlo fatto… Finita qui, in una misera precisazione che simili atti fanno il gioco del nemico?

Macché! Perché LaStampa del 5 ottobre ha pubblicato un intervento del Presidente della schiava Repubblica d’Italia in cui invita i bravi ed onesti oppositori No Tav a prendere pubblicamente le distanze dalla vile canaglia. E lui, il signor Movimento No Tav, già autoproclamatosi portavoce della libera Repubblica di Venaus, è scattato sull’attenti ed ha obbedito. La sera stessa ha diffuso un comunicato in cui riprende le sue solite amenità sui vigliacchi che accosterebbero violenza e dissenso (evidentemente la sua santità fulminerà tutti i porci capitalisti), arricchite però da uno sguardo retrospettivo. Non solo quest’ultimo pacco puzza, ma puzza come puzzavano le azioni di sabotaggio avvenute in valle a metà degli anni 90, quelle attribuite ai «Lupi Grigi», quelle per cui furono arrestati gli anarchici Edoardo Massari detto Baleno, Maria Soledad Rosas e Silvano Pelissero: «Noi abbiamo buona memoria, e senza andare a scomodare gli anni di piombo come fanno i vari Caselli, Fassino e fanfara varia, ci ricordiamo molto bene la stagione degli attentati attribuiti ai “lupi grigi”, che non è di cento trent’anni fa ma dell’altro ieri, e potrebbe (oggi come allora) non solo non essere attribuita ai No Tav o ai loro “simpatizzanti spontanei o indotti”, ma addirittura ricondotta direttamente a chi – quegli attentati – li avrebbe dovuti, li dovrebbe e li dovrà impedire».

Insomma prima della sollecitazione quirinalesca il pacco-bomba alla Stampa era solo un atto che favoriva la repressione. Dopo, è bene azzardare che sia opera diretta di servizi più o meno deviati che «dovrebbero» raddrizzarsi e fare il proprio lavoro. E per rafforzare tale ipotesi mettendo a tacere preventivamente voci anarchiche fuori dal coro, il signor Movimento No Tav suggerisce la lettura del libro Le scarpe dei suicidi, opera di un anarchico storico da orticello nonché bibliofilo virtuale, anch’egli assertore in un passato recente della stessa idiozia.

Che dire? Con rispetto parlando, e usando un linguaggio il più forbito possibile, questo signor Movimento No Tav stavolta ha davvero rotto i cosiddetti.

Tranne per gli imbecilli che credono nei placidi tramonti, il dissenso ha sempre avuto bisogno anche della violenza. Non della sua mitologia, non del suo uso fanatico e indiscriminato. Ma è inevitabile che lo Stato si difenda con violenza dai suoi oppositori, ed è inevitabile che chi vuole opporsi allo Stato debba prima o poi fare ricorso anche alla violenza. «Predicare il rispetto per ogni forma di vita», negare la possibile appartenenza di «pallottole e bombe» è una pura ipocrisia (ma allora, i partigiani? Che Guevara?). Chi pensa di salvaguardare le lotte sbandierando la propria innocenza non fa altro che affossarle, preparando al tempo stesso il futuro linciaggio di eventuali “colpevoli”. In realtà, la violenza è giustificata non solo quando viene approvata da un rinomato scrittore e/o solo quando proviene dalle fila di un movimento di massa, ma anche quando è esplicitamente opera di singoli individui. A renderla “legittima” è il suo significato, non la quantità numerica dei suoi esecutori o la fama dei suoi fan. Che gli atti di sabotaggio avvenuti in Val Susa negli anni 90 siano riconducibili ai servizi o a chi per loro è una ipotesi cara solo ai politicanti che infestano il movimento — siano essi autonomi, anarchici o quant’altro — preoccupati che la rabbia dilaghi fuori dal loro controllo e faccia a meno della loro rappresentanza e mediazione.

Un compagno non pu averlo fatto? Cosa, incendiare i cantieri del Tav? Ma certo che sì! Spedire un pacco esplosivo ad un miserabile fascista come Massimo Numa? Ma certo che sì! Un compagno non metterebbe mai bombe sui treni, o nelle stazioni ferroviarie, o nelle piazze; non avvelenerebbe mai l’acqua, non stuprerebbe e torturerebbe prigionieri; non bombarderebbe mai città o massacrerebbe intere popolazioni… cioè non farebbe mai quello che lo Stato, ogni Stato, è uso a fare da sempre. Ma laddove l’uso della violenza è indirizzato contro funzionari e servi di questo mondo infame, sì, un compagno può averlo fatto! Se così fosse, ha commesso un errore? Ognuno è libero di pensarla come crede in proposito — sugli obiettivi, sui metodi, sui tempi — ed il dibattito critico è sempre aperto. Ma le calunnie, quelle, lasciamole stare. C’è una intera Storia di Stato che accusa Marinus Van der Lubbe di essere stato al soldo dei nazisti per avere incendiato il Reichstag (“ma come? un compagno non può averlo fatto!”), quando in realtà egli non era che un rivoluzionario, per altro comunista, determinato a combattere l’ascesa di Hitler.

Ora, nessuno sa chi abbia spedito il pacco regalo alla Stampa. Forse un compagno. Forse lo stesso Massimo Numa. Perché no, sono tutte ipotesi. Ma non è questo il punto. Il punto è che la sollecitudine nel proclamarsi innocenti, vittime di macchinazioni, del tutto estranei ai fatti, l’abitudine alla dietrologia e al complottismo, è di una meschinità e una viltà senza pari. Anche qualora, col senno del poi, il timore si rivelasse per una volta azzeccato. E lo è maggiormente se si affretta ad assecondare il buonismo stimolato dal Signor Presidente, a cui altri militanti No Tav domandano «come si può dire che è il movimento No Tav responsabile di incendi vari con 500 uomini delle forze dell’ordine sparsi fra il cantiere e la Valle?».

Il fatto è che per il signor movimento No Tav chiunque esca dalla dimensione pubblica e collettiva della lotta (ovvero quella che egli gestisce e amministra, ricavandone i profitti politici) è per forza di cose un losco provocatore. Ecco perché questa dimensione ha necessità di liberarsi del suo ceto politico (liberarsene del tutto, non sostituirlo) e fondersi con l’altra, quella privata e individuale. Perché la lotta contro il Tav, così come qualsiasi altra lotta contro la Società, ha bisogno di tutto: di parole come di fatti, di discussioni come di incontri, di manifestazioni come di feste, della forza d’urto dei molti come della determinazione dei pochi, degli assalti collettivi come degli attacchi individuali. E soprattutto ha bisogno di consapevolezza, della consapevolezza di tutti, non di direttive stabilite da pochi che vanno seguite. Quello di cui non ha bisogno insomma è la politica; né di Parlamento né di piazza, né pentastellata né rifondata, né autonoma né anarchica. Punto.

7/10/13

Nessuna legittimazione

«Ma chi mi assicura che la luce è migliore delle tenebre? Al buio io penso meglio. Viene da Apollo la mania della solarità e quell’aggettivo “solare” che ha l’aria di dire tanto e in verità non dice niente… Pensando all’inutilità di certa luce, si ha voglia di scender in cantina»

Alberto Savinio

Lo si poteva stare ad ascoltare per ore. A bocca aperta. Come si suol dire, parlava come un libro stampato. Ma un libro d’altri tempi, quelli la cui ricchezza di immagini si accompagna ad uno stile quasi cavalleresco. La camicia bianca e vaporosa col colletto lungo, impeccabile, il fiocco nero. Le orecchie lunghe, rassicuranti. E gli occhi, quegli occhi fiammeggianti! Parlava di anarchia e chi lo ascoltava rimaneva incantato davanti a quella sintesi di calma e fermezza. Si chiamava Belgrado Pedrini, ed era stato un partigiano. Ma, in quanto anarchico, era immune dagli intrighi di palazzo e di corte; e non attendeva ordini dall’alto. Per cui, di fronte allo spuntar del nemico in camicia nera, assieme ai suoi compagni aveva impugnato le armi molto prima dell’8 settembre 1943. Arrestato nel 1942, un paio di anni dopo venne liberato da una colonna di partigiani libertari a cui si unì riprendendo parte alla lotta armata contro il fascismo.

Finita la guerra, sbaragliato il fascismo, cosa successe? Che lui e i suoi compagni furono nuovamente arrestati e condannati a marcire in prigione. Avevano commesso un errore fondamentale, non avevano tenuto conto del senso del tempo! Le loro azioni di sabotaggio contro il fascismo erano legittime, certo, ma solo quelle compiute dopo l’8 di settembre. Prima, erano atti criminali. Più o meno nello stesso periodo in cui lui e molti altri partigiani anarchici entravano in carcere, le camicie nere ne uscivano grazie all’amnistia voluta dal “compagno antifascista” Togliatti. Dopo trent’anni di galera – fra pestaggi, torture ed umiliazioni – Belgrado Pedrini e altri anarchici tornarono in libertà e ripresero la loro attività laddove s’era interrotta.

In fondo, furono più fortunati di quel partigiano che poco prima di essere fucilato dai fascisti in un cortile di prigione lasciò espresso il suo ultimo desiderio: che il suo sacrificio non venisse un domani commemorato dal sindaco in fascia tricolore nel corso di annuali celebrazioni con la banda musicale, i mazzi di fiori, gli alunni delle elementari. Non è stato esaudito.

Ma perché questi strani ricordi, personali e anche no, si agitano nella mente?

Sabato scorso, 22 febbraio, è stata una grande giornata di mobilitazione nazionale, di lotta popolare. In una quarantina di città, sparse per tutto il paese, si sono tenuti cortei, presidi e iniziative varie a sostegno della lotta NoTav in Val Susa e in solidarietà con i quattro attivisti arrestati ai primi di dicembre con l’accusa di aver partecipato ad un assalto notturno al cantiere. Migliaia e migliaia di persone hanno risposto all’appello e sono scese in piazza per protestare «contro lo spreco delle risorse pubbliche, contro la devastazione del territorio, per il diritto alla casa, per un lavoro dignitoso, sicuro e adeguatamente remunerato… in difesa del diritto naturale e costituzionale di opporsi alle scelte governative che tengono solo conto degli interessi dei potentati, delle lobby, delle banche e delle mafie a danno della popolazione… contro il delirante utilizzo delle leggi da parte della procura e della magistratura torinese e in solidarietà ai compagni di lotta incarcerati, ai compagni di lotta già condannati, a quella innumerevole schiera di resistenti che ancora deve affrontare il giudizio per aver difeso i beni comuni, una giornata di lotta alla quale seguirà nella metà di marzo un appuntamento a Roma per la difesa e la legittimità delle lotte sociali».

Perché la resistenza è un diritto, perché il sabotaggio è legittimo. Un diritto, sì, naturale e costituzionale. Legittimo, sì, perché indirizzato solo contro oggetti inanimati ed approvato in assemblea da un movimento popolare. Perché altrimenti… altrimenti in strada sarebbero scesi solo centinaia di sovversivi, non migliaia di cittadini. E fra di loro non ci sarebbero stati parlamentari, né amministratori locali, né bande musicali, né palloncini colorati. Nessuna legittimazione va riconosciuta a sabotatori intempestivi come… Belgrado Pedrini. E qui non possiamo fare a meno di pensare a Baleno, l’anarchico accusato di aver compiuto dei sabotaggi contro l’Alta Velocità e morto in carcere nel 1998, la cui memoria viene tutt’oggi associata dal Signor Movimento NoTav a trame oscure e ambigue manovre, non essendo illuminata dalla luce del sole che riscalda pubblicamente e collettivamente. Perché, se non bisogna confondere legittimità e legalità, non si deve nemmeno confondere legittimità e illegittimità.

Avremmo voluto da tempo dire qualcosa in merito ma, conoscendo l’estrema suscettibilità di certuni, abbiamo preferito attendere. Mica vogliamo venir accusati di sabotare le scadenze di grandi lotte popolari, noi! Ma adesso…

Quale sia il punto, non è difficile capirlo. Questi ultimi anni hanno visto un moltiplicarsi di conflitti ed è facile prevedere che le aule dei tribunali siano destinate ad affollarsi sempre più di persone incriminate – anche nonostante le loro migliori intenzioni – per aver manifestato contro questa o quella decisione presa dall’alto, per aver infranto in qualche misura questa o quella legge. La repressione che sta colpendo la lotta NoTav in Val Susa – con alcune centinaia di imputati e migliaia di indagati fra i suoi attivisti, per non parlare dell’offensiva mediatica lanciata contro di loro – costituisce un lugubre avvertimento ad uso e consumo di tutti gli insoddisfatti dell’attuale ordine sociale; siano essi lavoratori licenziati o studenti deprezzati, precari sfruttati o occupanti sgomberati, cittadini avvelenati o inquilini sfrattati.

Più aumenta il disagio, più si manifestano turbolenze, più aumenta la repressione. Ciò pone ovviamente la questione di come affrontare la reazione dello Stato, al di là del ricorso ai margini di manovra consentiti dalla legge. Ad eccezione di pochissime teste calde che rifiutano ogni confronto con la controparte, la quasi totalità di coloro che finiscono alla sbarra è intenzionata – per così dire – a discolparsi, a giustificare le proprie azioni, a legittimarle agli occhi dei giudici. Cosa resa tanto più scontata dal fatto che non si tratta affatto di nemici dello Stato, ma di suoi delusi cittadini i quali oggi scendono in strada per protestare contro quelli che considerano passi falsi di una autorità forse non amata, ma di certo mai radicalmente odiata.

Ecco perché oggi è pressoché impossibile affrontare tale questione senza venire assordati dal mantra della differenza che intercorre fra «legittimità» e «legalità», e dai vari riferimenti al «diritto alla resistenza», o alla «legittima difesa», o allo «stato di necessità», o allo «stato di eccezione». In effetti l’utilizzo di simili concetti è da un lato inevitabile, ma il nostro interrogativo è: da quale lato? Se è vero che il linguaggio crea mondi, allora non è difficile comprendere quale mondo sia creato, sostenuto e prospettato dall’ossessivo uso di una simile terminologia: quello dello Stato. Perché la diversità di linguaggio non è una semplice diversità di suono e di segni, ma di modi di guardare il mondo. Ovvero di prospettiva.

È una battaglia persa, lo sappiamo. Cercare di dare un senso alle parole, di farle combaciare con i pensieri, tutto ciò è poco funzionale. Meglio la parola d’ordine perentoria, la performance linguistica, come diceva qualcuno già decenni fa. L’affabulazione faconda trionfa ovunque, laddove ogni riflessione sul significato morde la polvere. Ma come nascondere la perplessità nell’udire argomentazioni più che sensate sulle labbra di avvocati diventare veri e propri luoghi comuni anche fuori dalle aule di tribunale? Oltre a sembrarci un triste riflesso di questo mondo rimasto a tal punto privo di coscienza da andarla a cercare fra le pieghe della giurisprudenza, ci domandiamo come si possa da una parte sottolineare l’estraneità al diritto di ogni movimento sociale (le cui dinamiche e pratiche non possono e non devono inchinarsi davanti alla lettera del codice penale) e dall’altra fare continuo ricorso a termini che di quello stesso diritto sono una tipica espressione. Perché tale è la provenienza di tutti i concetti sopra menzionati, che oggi infestano ogni dibattito.

Ora, tutto ciò è logico per chi pensa che il diritto debba essere sempre… diritto, per chi è persuaso che lo Stato non possa e non debba distorcerlo (pena il diventare cattivo, deviato, totalitario). È il caso del Signor Movimento NoTav con il suo cittadinismo al tempo stesso verde, bianco e rosso. Ma per chi non riconosce alcun diritto, considerandolo solo una menzogna al servizio del privilegio, per chi – come direbbe un filosofo ormai fuori moda – ha fondato la propria causa sul nulla, non ha alcun senso potare i rami secchi e rinvigorire una pianta che in realtà si vorrebbe abbattere da tanto è nociva. Ecco perché faranno pure bene gli avvocati – il cui lavoro è esattamente quello di muoversi nell’ambito del diritto – ad andare alla ricerca dei cavilli più idonei a smontare nelle aule di tribunale l’impianto accusatorio. Ma questo non è il nostro lavoro.

Prendiamo in considerazione questi concetti che oggi rimbalzano un po’ dappertutto. A cominciare dal principale, ovvero da quella «legittimità» che non va associata per forza di cose alla «legalità». In Val di Susa, ad esempio, la magistratura applica la legalità per colpire il movimento NoTav; ma il movimento NoTav non si stanca di ribadire la legittimità delle proprie azioni. Un piccolo esempio: quante volte avete sentito dire che il cantiere di Chiomonte è «illegittimo»? Per cogliere appieno il significato di questa distinzione, per capire cosa si porta dietro, ci asteniamo dal formulare qualsiasi nostra analisi, facilmente liquidabile come frutto di pregiudizio. Preferiamo lasciare la parola ad un noto filosofo, politico e giurista di sinistra: «Mentre legalità significa osservanza formale della lettera della legge che si autogiustifica senza alcun riferimento ai valori, la legittimità evoca una corrispondenza spirituale che sta alla base del rapporto fra chi emette un comando e il consenso sostanziale di chi è chiamato a obbedire. La legittimazione evoca la continuità spirituale fra chi detiene il potere di porre norme e chi è chiamato a osservarle. La legalità, invece, si realizza soltanto sul piano estrinseco formale della coerenza fra la forma di legge e il suo contenuto imperativo. Perciò il giustizialismo è sempre una fuga dal problema della legittimazione e finisce con l’avvalorare anche le svolte autoritarie che si sono realizzate sotto lo schermo della pura continuità formale. La legge scritta e applicata letteralmente può condurre… a una autonegazione della stessa legalità, come è accaduto durante il fascismo e il nazismo. La legittimazione mette in discussione invece la forma della legge ed esprime la condivisione anche affettiva del rapporto fra chi esercita la funzione legislativa e chi ne è destinatario, il quale è chiamato alla collaborazione sostanziale».

Ora, come si vede ci troviamo qui di fronte alla quintessenza del pensiero cittadinista, di quel radicalismo democratico persuaso che debba esistere una «corrispondenza spirituale», una «continuità spirituale», una «condivisione anche affettiva», una «collaborazione sostanziale» fra chi esercita il potere e chi lo subisce, fra governanti e governati. Si tratta di una pretesa che la dice lunga sulle aspirazioni di chi la esprime, sul mondo che vorrebbe realizzare. Da parte nostra, non solo dubitiamo fortemente che sia mai esistita per davvero una simile sincera corrispondenza di amorosi sensi fra sfruttatori e sfruttati, fra oppressori e oppressi, fra ricchi e poveri, fra dominatori e dominati, ma qualora dovesse effettivamente manifestarsi sarebbe la nostra peggiore nemica. Non abbiamo nessuna ragione per incitare alla sua (ri)costituzione, ne abbiamo infinite per eccitare alla sua definitiva rovina.

Ma è chiaro che solo all’interno di una simile prospettiva acquisiscono senso gli appelli ad un «diritto alla resistenza» che da sempre è rivendicato nel nome di un’altra autorità, diversa e superiore. La sua origine risale alle divergenze fra i comandamenti del potere spirituale e le leggi del potere temporale, quando i cristiani pur di rimanere fedeli a Dio arrivavano a scontrarsi con lo Stato. Appena pulpito e trono non si sono più trovati in contrapposizione, ma piuttosto in simbiosi, il «diritto alla resistenza» è diventato sinonimo di fedeltà alla Costituzione contro i suoi possibili travisamenti. Perché, come tutti i diritti, anche questo per esistere ha bisogno di uno Stato che lo conceda. Come è noto, molte Costituzioni includono il diritto di insorgere contro un governo che va contro la volontà popolare. È così per il “Documento dei Diritti” inglese del 1689, per la “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” del 1776, così come per la “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino” francese del 1789, in qualche modo tutte partorite da una rivoluzione. In tempi più recenti, il «diritto alla resistenza» è tornato alla ribalta dopo la Seconda Guerra mondiale e la resistenza al nazifascismo. Esso compare esplicitamente nelle Costituzioni di alcuni Lander della Repubblica Federale Tedesca promulgate dopo la fine del conflitto bellico, così come nella Costituzione francese varata nel 1946. Anche qui in Italia il Progetto di Costituzione prevedeva l’enunciazione di un simile diritto (secondo comma dell’articolo 50) su cui nel 1947 – mentre Belgrado Pedrini ed altri partigiani anarchici (ma anche comunisti) finivano nelle galere democratiche – si dibatté aspramente e a lungo. Alla fine i «padri della Costituzione» decisero di non includerlo di fatto, chi non sapendo bene come formularlo (un onorevole liberale spiccò per sincerità quando ammise che «Bisogna riconoscere che questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto, ma la stessa realtà storica… Sono fatti logicamente anteriori al diritto»), chi non volendo offrire giustificazioni giuridiche alla sovversione. Tuttavia molti autorevoli costituzionalisti ritengono che il «diritto alla resistenza», sebbene inespresso, vi sia comunque pienamente legittimato. Come ebbe a dire uno di loro nella sua dichiarazione di voto su questo articolo del Progetto di Costituzione, «La resistenza trae titolo di legittimazione dal principio della sovranità popolare perché questa, basata com’è sull’adesione attiva dei cittadini ai valori consacrati nella Costituzione, non può non abilitare quanti siano più sensibili a essi ad assumere la funzione di una loro difesa e reintegrazione quando ciò si palesi necessario per l’insufficienza e la carenza degli organi ad essa preposti». Perché in fondo tutto si risolve in questo: la rivoluzione è illegale e illegittima perché tende al rovesciamento dell’ordine in atto al fine di realizzare altro, mentre la resistenza può essere illegale ma è legittima – soprattutto quando è non-violenta, il che spiega l’insistenza con cui i cittadinisti ribadiscono il loro rispetto per ogni vita umana – perché tende alla conservazione di questo ordine, ovvero a re-instaurarlo allorché viene «aggredito» dall’esterno e/o «tradito» dall’interno. In questo senso, il «diritto alla resistenza» può essere considerato come l’estremo e più coraggioso atto di fedeltà nei confronti della Costituzione. Una resistenza che nelle parole di un suo teorico è l’«“extrema ratio” per il ripristino della legalità costituzionale, e che può essere praticata anche nella forma della disobbedienza civile, nonviolenta». Perfetta espressione del cittadinismo radicale, per l’appunto.

Considerazioni non molto dissimili si potrebbero fare anche per concetti quali «legittima difesa» o «stato di necessità», i quali anche se ripresi da pensatori radicali che teorizzano l’abbandono della nonviolenza rimangono pur sempre categorie prettamente giuridiche che esprimono una «causa di giustificazione» per fatti considerati perseguibili dalla legge. In sede di diritto, si domanda la non-punibilità per chi ha commesso il fatto essendovi stato costretto dalla necessità «di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa», o dalla necessità «di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo». Si tratta quindi di chiedere comprensione e clemenza alla Corte perché in fondo è legittimo (e pure legale) infrangere la legge, in maniera proporzionata, ovvero non esagerata, qualora si sia costretti a difendere un diritto o a salvare la sopravvivenza.

Quanto al concetto di «stato di eccezione», ha sempre suscitato in noi un doppio imbarazzo. Il primo è dato dalla disinvoltura con cui espressioni coniate negli anni 30 da filosofi legati al nazismo possano essere rimesse in circolazione così alla leggera non appena risciacquate nell’erudizione di qualche accademico contemporaneo (lungo questa china si trovano anche le esortazioni ad «esserci» o le denunce di innumerevoli «dispositivi»). Davvero non ci sono fonti migliori da cui trarre ispirazione? Ma l’imbarazzo maggiore nasce dall’urgenza di (fingere di) condividere con le anime belle della sinistra lo stupore di fronte alla scoperta dell’acqua calda: lo Stato bara, in determinate circostanze sospende ed infrange le sue stesse leggi (nella caserma di Bolzaneto, nei Cie, nei campi per terremotati di L’Aquila, nelle valli piemontesi, nello stesso Parlamento…). Scandaloso, chi lo avrebbe mai detto? Ora, a cosa mira questa acuta ed originale constatazione? A far perdere per sempre allo Stato ogni legittimità agli occhi dei suoi sudditi, affinché inizino a considerarlo con odio essendosi rivelato mero apparato al servizio di chi detiene il potere? Oppure ad invitarlo a porre infine rimedio alle proprie incoerenze, affinché torni a raccogliere consenso essendo l’ineludibile organizzazione sociale al servizio della collettività? Ci sembra che sottolineare non le infamie istituzionali, ma la loro eccezionalità, vada più nella seconda direzione e serva più che altro a sostenere la normalità e la bontà dello stato di diritto. Ma lo «stato di eccezione» nella politica dello Stato è simile alla «crisi» nell’economia del capitalismo: non si tratta di una eccezione, bensì di una norma. Lo Stato si nutre quotidianamente di soprusi così come il capitalismo si nutre quotidianamente di sfruttamento. Le circostanze possono mutarne forme e caratteristiche, non la sostanza.

Ci si perdoni la cafoneria nel far notare come questa premura di legittimare gli atti di resistenza nasca solo in contesti allargati, di massa. Ci domandiamo quale effetto potrà avere sulla disobbedienza individuale il (tentativo di) legittimare la disobbedienza collettiva. Un eventuale riconoscimento della rivolta dei molti avallerà anche quella dei pochi, o le scaverà la fossa? Considerato che è la cosiddetta sovranità popolare a fondare la legittimazione di un atto di resistenza, la risposta dovrebbe essere scontata. Capiamo bene che le odierne manifestazioni in solidarietà con arrestati per l’accusa di sabotaggio possano fare piacere, ma non intendiamo farci illusioni in merito: quella solidarietà, così diffusa e trasversale, va solo e soltanto a chi è impegnato in lotte popolari, va ad «attivisti» coraggiosi, determinati e percepiti come difensori del Bene Comune. È una solidarietà riservata a legittimi resistenti, ovviamente non accordata alla canaglia rivoluzionaria.

Ed è stupefacente constatare fino a che punto la tentazione legittimista e buonista abbia scavato il cuore persino di certi anarchici, che per difendere i quattro arrestati NoTav non trovano di meglio che protestare contro la loro demonizzazione, contro «il pesante appellativo di terroristi, termine il cui uso mira proprio a separare e allontanare certe pratiche dalla quotidianità di una lotta, come se fossero proprie di alcune grigie persone rinchiuse in scantinati a creare miscele esplosive». Gli scantinati, quei posti grigi dove non entra la luce del sole cittadinista! Eppure, dovrebbe essere banale notare come i soli terroristi che creano miscele esplosive siano i tecnici che lavorano per multinazionali come l’Oto Melara. Per quanto pesante e pressante possa essere la minaccia repressiva – per tutti indistintamente, per altri, per i soli sovversivi –, per quanto sia sempre più evidente che le parole hanno perso ogni significato e sono perciò intercambiabili, rifiutiamo di metterci in bocca la lingua del nemico. Lasciamo che siano gli orfani dello Stato di diritto a dolersi delle vessazioni commesse da un brutale patrigno, lo Stato di Sicurezza. Se attraverso la repressione spesso e volentieri il potere cala la maschera, pensiamo sia un errore farglielo notare e invitarlo a riaggiustarsela; meglio cercare di strappargliela del tutto. Approfittare dell’occasione per mostrare come il diritto sia una pura menzogna, sempre e comunque. Tentare di minare definitivamente ogni fiducia nella Costituzione, ogni speranza nei confronti dello Stato.

Il linguaggio crea mondi? E allora, come abbiamo già avuto modo di dire a proposito della Val Susa, in una situazione così allargata e aperta di conflitto, invece di una fantomatica legittimazione troviamo assai più affascinante evocare la secessione. Il riconoscimento della prima viene chiesto al nemico, la realizzazione della seconda viene imposta al nemico. La prima fa parte della mistificazione giuridica – teniamo a mente che essere legittimo significa pur sempre essere conforme al diritto, alla legge, alle disposizioni dell’ordinamento giuridico – la seconda è nella «stessa realtà storica» delle lotte. La secessione etimologicamente è «allontanarsi, separarsi, andarsene»; esprime il «distacco di una parte o di un gruppo dall’unità sociale, politica, militare di cui faceva parte, in seguito a grave disaccordo con la parte restante e come forma di aperta protesta e ribellione». In Val di Susa sono presenti tutte le caratteristiche perché ciò possa accadere. Un’area geografica circoscritta e periferica, una popolazione locale insorta da anni contro il governo centrale il quale ha reagito con l’occupazione militare del territorio e la repressione del dissenso. Ma, soprattutto, nessuna possibilità di pacifica risoluzione in vista: lo Stato non vuole assolutamente rinunciare al Tav, quella valle non vuole assolutamente accettarlo. Fine delle mediazioni. E quindi, anziché cercare di riallacciare i fili di una «continuità spirituale» spezzata, perché non procedere nella direzione opposta e tentare di rendere insanabile questa frattura? E uno dei modi è anche quello di iniziare a rendere la sua ricomposizione impensabile.

Perché la rivolta è una questione di libertà e di dignità. È questione di coscienza. Qui si trova il suo unico fondamento, la sua radice, in questa dimensione umana irriducibile ad ogni istituzionalizzazione. Non certo in un articolo del codice penale o della Costituzione, scritto o tacito che sia. E questo fondamento alimenta la rivolta individuale come la sollevazione collettiva, ispira le proteste che avvengono alla luce del sole come gli attacchi favoriti dal buio delle tenebre, scatena la violenza sulle cose come quella su esseri umani responsabili di infamie. Senza fare distinguo politici. Non ha bisogno di elemosinare a nessuna autorità il proprio riconoscimento, perché si riconosce da sé.

Lo avevano intuito persino gli antichi romani che nel 450 a.C. codificarono il diritto pubblico e privato nelle “Leggi delle XII Tavole”: contro lo straniero, il nemico, la rivendicazione è eterna. E lo straniero, il nemico, è chi parla un’altra lingua, diversa da quella dominante dello Stato – perché espressione di desideri e valori che sono tutt’altro, perché creatrice di un mondo che è tutt’altro – e che perciò lo pone al di fuori del diritto. Ma cosa accade non appena l’intuizione degli antichi giuristi romani viene rovesciata e colta nella sua reciprocità, ovvero vista con gli occhi di chi è nemico in terra straniera?

Come si diceva nel tempo di allora, la rivoluzione non è il trionfo di una positività alienata e oppressa, ma l’irrompere di un movimento sotterraneo e negativo. È la canaglia che spazza via le persone perbene, non è la disputa delle persone perbene su chi sia più perbene. Non si tratta di creare una nuova omogeneità positiva, talvolta costretta ad essere scapigliata ma comunque edificante, bensì di assumere l’eterogeneo e il negativo in tutta la sua forza. Invece un contenzioso fra positività può concludersi solo con una semplice inversione che attribuisce a chi spetta la parte del vero ordine, agli eredi legittimi della società capitalista.

No, no e no. Non contate su di noi.

26/2/14

Sabotaggio, bene comune?

NoTav, terrorismo e contro-insurrezione

maggio 2014


Il compressore

maggio 2014

Viene considerata sabotaggio una «azione di disturbo o di danneggiamento intesa a ostacolare il normale svolgimento di un lavoro produttivo, il regolare funzionamento dei servizi bellici del nemico, l’efficienza e la sicurezza dei servizi e dei trasporti pubblici». Ridotto alla sua essenza, il sabotaggio è quindi una pratica di lotta, uno strumento che è possibile mettere al servizio di qualsiasi fine. Un’arma potente che, come tutte le armi, può essere usata da chiunque. Lo zoccolo (sabot) lanciato negli ingranaggi spiega una meravigliosa origine del nome, ma purtroppo non riesce anche ad indicare le motivazioni del gesto. Una fabbrica può essere sabotata dagli operai in sciopero o dai tirapiedi assoldati da un industriale rivale, un mezzo militare può essere sabotato da soldati di un esercito nemico o da disertori, un cantiere può essere sabotato da chi contesta l’opera in costruzione o da chi è interessato agli appalti. Se in ambito reazionario il sabotaggio può essere impiegato anche da difensori dell’ordine stabilito, in ambito rivoluzionario può essere praticato tanto dagli amici di un nuovo Stato che dai nemici di qualsiasi Stato.

Che significa tutto ciò? Che ogni considerazione sulla natura di un sabotaggio – lasciando nelle latrine la sua condanna a priori, e negli asili la sua apologia incondizionata – non può evitare di affrontare sia le motivazioni che spingono al ricorso di questo strumento di lotta, sia il contesto in cui esso si manifesta. In altre parole, dimmi come, quando e perché sostieni il sabotaggio e saprò chi sei.

Ecco, a dirci come, quando e perché sostenere il sabotaggio sono sopraggiunte negli ultimi mesi un paio di pubblicazioni, alla vigilia della manifestazione nazionale dello scorso 10 maggio a Torino, in solidarietà con i quattro NoTav arrestati il 9 dicembre 2013 perché accusati di aver partecipato nella notte fra il 13 e il 14 maggio di quell’anno all’assalto contro il cantiere di Chiomonte. Quella notte di primavera il cantiere si trovò illuminato dal bagliore dei petardi, e alcune attrezzature della ditta responsabile dei lavori andarono in fumo. Tanto è bastato alla Procura di Torino per formulare contro quattro NoTav l’accusa di “terrorismo”. Pochi giorni prima che la stessa Cassazione si esprimesse su questa aggravante, facendola poi cadere, alcuni solidali NoTav hanno diffuso il proprio contco per «smontare il discorso sul terrorismo» e per svelare «se a terrorizzare sia lo Stato o chi gli si oppone». Stiamo parlando dei due opuscoli NoTav, terrorismo e contro-insurrezione e Il compressore, le cui campane hanno timbri diversi quel tanto che basta per poterli distinguere con facilità. Più rivolto al diritto il primo, più interessato alla storia il secondo, ma scritti sull’onda della medesima esigenza di giustificare e legittimare quanto accaduto quella notte, entrambi seguono spesso lo stesso ritmo.

Ad ogni modo almeno su un punto dello spartito, quello sul linguaggio, i rintocchi sembrano perfettamente sincronizzati. Al ding del «le parole non si accontentano di descrivere il mondo così com’è. Gli danno forma, lo producono come tale, sono elementi materiali. Il campo linguistico è anche un campo di battaglia», risponde il dong del «non essendo il linguaggio uno strumento “neutro”, ma piuttosto qualcosa con cui si dà forma alla realtà, ogni parola reca in sé premesse e decisioni valoriali, interpretative e prospettiche, tutt’altro che scontate». Ora, poiché le parole di certi trogloditi (sempre pronti col dito puntato a fare le pulci agli altri) non vanno ascoltate a prescindere, abbiamo trovato davvero magnifico che a sostenere con chiarezza la praticità del linguaggio sia finalmente qualche sovversivo dall’adeguato pedigree. Ma è stato un attimo, una soddisfazione effimera, spazzata via dal ricordo dell’aneddoto riportato da uno dei più celebri NoTav valsusini, il telemetereologo più amato da certi anarchici. Lui, NoTav sostenitore della Decrescita, stava discutendo con un sindaco SiTav fautore del Progresso, e si sono ritrovati entrambi d’accordo nell’elogiare un libro di denuncia dell’imminente tracollo cui è destinata la civiltà qualora proseguisse la sua folle corsa senza freni. Il brillante umorismo del telemetereologo nell’esporre il paradosso istituzionale – è proprio perché questo mondo corre verso il precipizio che bisogna costruire treni superveloci! – fece ridere a crepapelle i suoi ascoltatori. A noi no, non è venuto affatto da ridere nel veder contrabbandate su questi due testi false promesse per reali premesse.


NoTav, terrorismo e contro-insurrezione è presentato come il «frutto di riflessioni condivise con tanti compagni in giro per l’Italia e l’Europa che hanno avuto a che fare con questo tipo di accusa». Beh, il risultato di questo brain-storming dell’esperienza sovversiva continentale è a dir poco imbarazzante. Questi critici degli «elementi di linguaggio subdoli» utilizzati dai media iniziano la loro introduzione precisando che quando si evoca il terrorismo «nel contesto italiano, c’è un aspetto in più: “gli anni di piombo”, le stragi, i gruppi di lotta armata, un passato cupo e sinistro…». Mamma, che paura! Più che leggere i libri di Giorgio Agamben, sembra che abbiano visto i programmi di Giovanni Minoli. Il piombo che si è beccato Luigi Calabresi è cupo e sinistro quanto quello che ha colpito Giorgiana Masi? I gruppi di lotta armata erano tutti uguali, essendo NAR e NAP, BR e AR… solo lettere incrociabili sullo Scarabeo?

L’intento degli autori è quello di far crollare «l’edificio linguistico e affettivo» costruito dai mass-media attorno alla questione, ma solo per costruirne un altro diametralmente opposto e del tutto speculare. Chi non ama crogiolarsi nel tremendismo dell’accusa di “terrorismo” fa più che bene a rispedirla al mittente. Ma per far ciò, non basterebbe far notare come l’uso indiscriminato del terrore a fini politici calzi perfettamente con chi inquina l’aria, avvelena l’acqua, devasta la terra, contamina il cibo, irradia uranio, fabbrica armamenti, affama continenti, bombarda popolazioni? Non è certo lo Stato, creatore e garante di questa infame società, a poter accusare chi attacca i suoi cantieri (o i suoi funzionari) di seminare panico e terrore. L’incendio di qualche macchinario non terrorizza proprio nessuno (così come il ferimento di un amministratore delegato dell’industria nucleare può spaventare al massimo i suoi degni colleghi o i suoi committenti).

Non è sufficiente? A quanto pare no, non basta. Secondo questo opuscolo, per opporsi alla «finzione efficacissima, una astrazione che si presenta come assolutamente reale e confermata dai fatti» diffusa dai giornalisti (e non dalla mitopoiesi delle lotte, ovvio), per evitare le «formule ripetute ad nauseam» dalla stampa (e non dagli slogan militanti, ci mancherebbe), per ribaltare l’equazione mediatica «NoTav=terroristi»… cosa c’è di meglio che lanciare l’equazione contro-informativa NoTav=bravi ragazzi? Non per fare dell’innocentismo, per carità, ma solo per difendere «quattro ragazzi che, se dimostrato dall’accusa, avrebbero al massimo sabotato un compressore, una macchina che costerà alcuni migliaia di euro» (e già rivenduta! – puntualizza altrove con zelo il Signor Movimento NoTav).

Si tratta di un’ansia di presentazione buonista che porta gli autori del testo a smentire il «nonsenso storico quasi assoluto» caro alla Procura di Torino, quello che vorrebbe l’incendio di un macchinario un semplice preliminare di assassinio. La loro bizzarra memoria ricorda che «esistono rari esempi di individui o organizzazioni passati dal sabotaggio all’omicidio». Come, come? Sembra uno scherzo, ma non lo è. Per costoro sabotaggio e terrorismo (senza virgolette, siamo in tempo di forte crisi) sono «due opzioni politiche» separate da «una linea etica»: infatti, «il sabotatore identifica con grande lungimiranza nella macchina, nell’apparecchiatura tecnica, nell’infrastruttura materiale, la concretizzazione della logica che lo opprime e agisce di conseguenza. Il militante armato, invece, crede ingenuamente che facendo del male a degli uomini si possa rovesciare l’organizzazione sociale».

Sì, avete letto bene. Gli autori di NoTav, terrorismo e contro-insurrezione hanno impiegato mesi per condividere con compagni di tutta Europa la geniale idea, ad esempio, che molti partigiani siano stati rari militanti armati passati dall’opzione politica del sabotaggio a quella dell’omicidio nell’ingenua convinzione che eliminando uomini abituati ad indossare camicie nere o brune si potesse rovesciare il nazifascismo. E che i NoTav arrestati lo scorso dicembre siano boy-scout, forse un po’ irruenti, che se hanno davvero fatto bua ad un compressore è solo perché vedono lontano e sanno che le macchine sono brutte e cattive e gli esseri umani sono belli e buoni. E che è importante – imitando il loro insopportabile gergo, oseremmo dire affettivamente strategico – distinguere fra allegri sabotatori impegnati in entusiasmanti lotte sociali quotidiane e grigi militanti dalla vita noiosa che di tanto in tanto salgono sul palcoscenico dello Spettacolo a fare il tiro-a-segno (o scendono in cantina a giocare al piccolo chimico, secondo una certa vulgata anarco-cretinizzante).

Di fronte a simili chiassose balordaggini non ci stupiamo che, all’indomani della manifestazione del 10 maggio e dopo chissà quante tirate d’orecchie, questo testo sia stato riveduto e corretto, le sue parti più demenziali cassate («Ci sono alcune correzioni linguistiche di errori scappati dalla stesura urgente per l’uscita il 10 maggio più la modifica di alcune righe di contenuto che potevano essere oggetto di fraintendimenti» – si sono premurati di spiegare) ed il titolo cambiato. Insomma, tutt’altra cosa. Comunque se ai lettori di Terrorizzare e reprimere, edito da Prison Break Project, fosse sfuggita la bozza originale del testo, non è difficile procurarsela.


*


Ma se la prima campana ha un suono talmente farlocco da far apprezzare la sordità, la seconda invece no. Quanta scaltrezza nella mano che la agita, quanta conoscenza di come dosare i rintocchi pur di allontanare ogni sospetto di cattive intenzioni dietro ai sabotaggi NoTav!

Lo ammettiamo: l’impatto con Il compressore è stato per noi dirompente. Già ritrovarsi in mano un sedicente opuscolo formato rivista è stato spiazzante, curiosa anticipazione del dire una cosa e farne un’altra, ma l’immagine in prima pagina… oddio, oddio, quella immagine! Folgorante, emozionante, da brivido. Non potevamo toglierle gli occhi di dosso. Per chi non l’avesse vista, si tratta di un disegno sedizioso dai tratti antichi ma dai colori moderni, che riporta come didascalia la data «10 maggio 2014» – il giorno della manifestazione di Torino. Raffigura perciò quello che gli autori de Il compressore auspicavano che accadesse. Al centro dell’immagine c’è il capopopolo, a cavalcioni sulle spalle dei suoi compagni. Fascia rossa in vita, braccio destro teso in avanti con una spada in mano e braccio sinistro sollevato a innalzare il cappello, la sua testa è rivolta indietro verso la folla da trascinare, raffigurata armata e furiosa nella parte destra dell’immagine. E a sinistra, ovvero davanti a tutti, cosa c’è? Il nemico? Macché, il nemico non c’è, non si vede proprio. In compenso spicca il portabandiera degli insorti, sventolante un vessillo rosso vivo.

Ecco qual era l’auspicio degli autori in vista del 10 maggio: il leaderino-nano salito sulle spalle dell’insurrezione-gigante a indicare la retta via (i nani, quando approfittano dell’altezza altrui, millantano sempre una personale lungimiranza), che fomenta i rivoltosi urlando: «avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossaaa, bandiera rossaaa…». E in effetti seguire la bandiera rossa è un buon riferimento per leggere Il compressore.

Niente equivoci. Dubitiamo assai che i suoi autori siano comunisti tutti falce e martello. Lo precisano loro stessi che quelle odierne sono «Lotte in cui la componente ideologica, intesa come una visione del mondo comune a chi vi partecipa, non ha praticamente peso alcuno». Per cui fanno a meno di utilizzare categorie ormai vetuste – anarchici, comunisti, socialisti – che lasciano indifferente o sospettosa l’ambita manovalanza proletar-popolare, preferendo svolazzare su e giù, sotto e sopra, a destra e a sinistra, e a sinistra, e a sinistra… Eh, che ci volete fare, l’occhio è puntato irrimediabilmente a sinistra, a quella sinistra a cui si vorrebbe iniettare un po’ di vitamine e che si esorta a riscoprire il proprio passato. Perché la strategia può anche consigliare di evitare l’uso di vecchie etichette ideologiche, ma i propri desideri, la propria «visione del mondo», sono lì pronti a saltare fuori. Magari in uno di quei riferimenti storici di cui è infarcito questo testo. Solo un imbecille può credere davvero che l’odio per qualsiasi autorità sia frutto dell’adesione ideologica all’anarchismo, o che la giustificazione di una autorità sia frutto dell’adesione ideologica al comunismo, alla democrazia o al fascismo.

Dunque, Il Compressore si può dividere in due parti. Una, riconoscibile dai caratteri più piccoli, affronta la questione attuale degli arresti, dell’accusa di “terrorismo”, della lotta NoTav in Val Susa, nella modesta pretesa di svelare alcuni dilemmi fra cui spicca «se sia lecito insultare politici, magistrati e giornalisti, e se questo serva». L’altra è una carrellata fra le apparizioni del sabotaggio nella Storia, in cui con altrettanta umiltà si intende «fornire alcuni granuli di storia, sempre utili ai giovinetti e alle giovinette…, oltreché a chiunque conservi dentro di sé il gusto della chiarezza».

Considerato non solo quel che hanno scelto di dire e ricordare ma anche e soprattutto quel che hanno scelto di tacere e dimenticare, non è facile stabilire se gli autori de Il compressore abbiano mantenuto le loro promesse. Di sicuro, ci hanno provato a modo loro. Ovvero spargendo a piene mani sulla lodevole critica al concetto di “terrorismo” ed al suo uso repressivo quella retorica messianica che vorrebbe toccare e coinvolgere i lettori in una medesima allucinazione. Dio è un povero sfigato, essendo in fondo solo uno e trino. Il movimento NoTav, invece, è ultradivino poiché è «al contempo uno e plurimo». A forza di condividere preghiere alla Madonna del Rocciamelone, ai loro occhi ebbri di consenso «è apparso, di lontano, il Regno dei Cieli» proprio sopra Venaus. Il che sarà anche uno sballo – «meglio di una striscia di coca», concordavano anni fa due infervorati anarchici NoTav – ma rimane una allucinazione, il contrario della chiarezza annunciata.

Una volta ripulita della melassa mitopoietica, in questo sedicente opuscolo, nella sua parte più teorica, rimane l’idea secondo cui tre siano i fatti imperdonabili della lotta NoTav, quelli che i suoi nemici davvero non riescono a digerire. Il primo è «di riattribuire alle parole il significato che un tempo avevano e di agire di conseguenza», di non «mimare la lotta a uso e consumo dello Spettacolo e del correlato racket politico», di rifiutare la «tartufesca abitudine alla concertazione al ribasso». Il secondo è la «rottura con la morale pubblica... morale basata su un’economia discorsiva, e punitiva, articolata sugli assi del pentitismo e della delazione, della dissociazione e dell’abiura». Il terzo: «Se c’è qualcosa di imperdonabile nella lotta No Tav, oltre al “No” secco e non negoziabile che la caratterizza da sempre, è proprio il fatto di non avere riprodotto la morale della dissociazione».

Se non si tratta di tre semplici menzogne, allora siamo davanti alla riproposizione di una vecchia e sinistra cantilena: il movimento NoTav non è un partito, e forse proprio per questo ha sempre ragione, anche quando ha torto. Ma è inutile garantire sulla virtù della Signora Lotta NoTav per nascondere i vizietti del Signor Movimento NoTav. Il giochetto linguistico delle tre carte è imbarazzante, il trucco ormai palese: quella lotta, quel movimento, sono composti da singoli individui. Se la Lotta fa e dice, se il Movimento fa e dice, è perché singoli individui fanno e dicono – e gli altri loro compagni approvano o tacciono per calcolo o ignavia. Qui bisogna decidersi. O la Signora Lotta e il Signor Movimento rispecchiano esclusivamente ciò che tutti i NoTav condividono, nel qual caso dovrebbero cercare di limitare le loro dichiarazioni pubbliche essendo difficile una continua consultazione allargata; oppure – vista la «fisionomia composita e variegata del movimento», il quale è «coeso benché attraversato da anime per certi versi molto diverse» – essi comprendono tutto indistintamente senza porsi troppi problemi. In questo caso, a far parte della Signora Lotta e del Signor Movimento NoTav non sono solo i sabotaggi ma anche le dissociazioni, non solo le preghiere ma anche le bestemmie, e così via.

Ma allora la lotta NoTav non può attribuire un significato preciso alle parole, visto che oscilla da anni fra politica e antipolitica. Non è affatto conseguente, dato che prima minaccia astensione e poi vota in massa (per non parlare dei suoi stessi candidati, locali ed europei). E non disdegna di mimare la lotta ad uso dello Spettacolo, mentre si filma nell’andare all’assalto del cantiere con simpatici attrezzi di gommapiuma. E non è per niente immune alla concertazione al ribasso, né in Valle (dove nel corso degli anni ha perso alcuni esponenti, risucchiati su altre sponde) né altrove (basti pensare a Firenze, dove i NoTav sono in realtà “NoTunnel: NoTav-fatto-male-SiTav-fatto-bene”). E non si rompe affatto con la morale pubblica, quando si votano parlamentari, si applaudono magistrati, si scomunicano ladri.

Quanto al non aver riprodotto la morale della dissociazione, beh, qui è davvero uno scontro fra campanari a chi la spara più titanica. E se i buchi di memoria dei primi campanari fanno sorridere per la loro ignoranza, quelli dei secondi sono davvero disgustosi per il loro opportunismo. Tutti sanno perfettamente che il signor Movimento NoTav si è dissociato dal sabotaggio avvenuto nel luglio 2011 a Susa, così come da quelli avvenuti altrove, a Chambery o a Milano nel marzo del 2012. Sanno bene che i loro compagni di merende hanno preso le distanze anche dall’incendio divampato a Bussoleno il 30 agosto 2013, ovvero quello avvenuto dopo l’assalto al cantiere di Chiomonte di fine maggio. Così come sanno che la dissociazione NoTav non è esclusiva valsusina, essendosi espressa nel passato a Firenze e nel presente a Trento.

E i sabotaggi avvenuti alla fine degli anni 90? Quelli su cui non saranno gli autori de Il compressore a cercare di sapere «come il cuore della Valle vedesse allora questi attacchi», preferendo citare pro domo loro un articolo dell’epoca? No, è decisamente meglio non approfondire la questione. Meglio offrire un «granulo di storia» accuratamente selezionato. Meglio scordare che quegli attacchi vennero attribuiti ai servizi segreti perfino da alcuni anarchici che oggi sgomitano per abbeverarsi alla lotta NoTav, acquasantiera del movimento. Meglio scordare che tuttora il signor Movimento NoTav li copre di dubbi e ambiguità.

E quando il comitato politico che amministra questa lotta, questo movimento, diffondeva pubblicamente i suoi comunicati di dissociazione, cosa faceva chi oggi saluta trionfante «Il riapparire del sabotaggio, autentico “ritorno del rimosso”… Questa riapparizione dischiude un’altra immagine del mondo, la nostra»? Brontolava privatamente e stava zitto pubblicamente (tranne forse in una circostanza, nel settembre 2013, ma solo dopo che altri avevano esposto le proprie critiche), per timore di perdere la propria sedia in prima fila in assemblea? Se le idee, e figurarsi quelle di rivolta senza compromessi, «hanno evidentemente bisogno di trovare le forme adeguate per la propria enunciazione», ciò significa che quando queste forme non sono disponibili è più conveniente tacere?

Noi pensiamo che se il sabotaggio è stato così a lungo rimosso è anche grazie al signor Movimento NoTav ed ai suoi compagni di merende. Il primo per le sue puntuali dissociazioni, i secondi per il loro silenzio pubblico che le ha permesse. Qui, di conseguente c’è stata solo la collaborazione dei silenti con gli sbraitanti contro le azioni dirette. Oggi che il sabotaggio è stato pubblicamente “sdoganato”, a partire dalle esternazioni di uno scrittore passato da Marx a Cristo, il signor Movimento NoTav può frenare la sua ansia legittimista e chi gli fa da sponda può vanagloriare «l’immagine del mondo» dischiuso dal sabotaggio. E di quale mondo poi, lo vedremo fra breve. Prima, però…

Prima dobbiamo tornare sulla premessa e promessa disvelatoria «se sia lecito insultare politici, magistrati e giornalisti, e se questo serva». Alla fine della lettura, tutto è effettivamente chiaro. Ma certo che è lecito e serve insultare politici, magistrati e giornalisti; basta non insultare i politici, i magistrati e i giornalisti. Non è una acrobazia dialettica, è esperienza pratica, diretta, non ideologica, quella che si acquisisce solo ritrovandosi «in quella dimensione sperimentale in cui ciò che appare improbabile se non addirittura impensabile oggi, diviene pratica diffusa l’indomani». Ieri, quando non si sperimentava, le massaie valsusine facevano la spesa ed i sovversivi insultavano i potenti ed i loro scagnozzi. Oggi, con il senno prrrratico del poi, le prime costruiscono barricate (e ciò è ammirevole) ed i secondi selezionano strategicamente l’obiettivo dei propri insulti (e ciò è patetico).

Anni e anni di comunella insorgente fra sedicenti verticalisti e sedicenti non-orizzontalisti hanno sviluppato e diffuso un ben altro genere di «clima generale, un vero e proprio “spirito del tempo” favorevole a una complessiva “rifondazione morale”», ma in questo caso del rapporto fra movimento e Stato. Oggi quindi è lecito insultare il politico cattivo Stefano Esposito, ma non serve insultare il politico buono Marco Scibonix. Il duo di magistrati cattivi Andrea Padalino e Antonio Rinaudo vanno insultati, il duo di magistrati buoni Ferdinando Imposimatix e Livio Pepinix no (quelli sono compagni di polente condivise ed autogestite, non scherziamo!). Il giornalista cattivo Massimo Numa va insultato, invece i giornalisti buoni che intervistano i NoTav no. Fra questi ce ne viene in mente uno in particolare, quello che nel corso di una manifestazione in solidarietà con i quattro NoTav arrestati ha raccolto le dichiarazioni rilasciate da chi ha innalzato da anni bandiera bianca al posto di quella nera. Per difendere dall’accusa di terrorismo gli arrestati, la persona intervistata – una a dirlo, nessuno a contraddirla – ha pensato bene di precisare che in fondo quei «ragazzi» non hanno fatto male a nessuno, mica hanno ucciso, mica hanno gambizzato (capito Gaetano Bresci? e soprattutto, capito Alfredo Cospito?).

Se il linguaggio non è neutro e le parole portano con sé prospettive, allora si capisce il motivo per cui si insultino solo alcuni politici, alcuni magistrati, alcuni giornalisti. Si tratta dello stesso motivo per cui, quando si apre bocca davanti a pensionati e massaie, consiglieri comunali e docenti universitari, si denuncia l’Alta Velocità come una falsa promessa, si pretende che le basi militari rispettino le norme del Parlamento Europeo, si invoca un migliore utilizzo della spesa pubblica nelle grandi opere. Perché la propria prospettiva è quella di arrivare ad uno Stato diverso, migliore, più giusto. Il che è esattamente quello che vogliono e sostengono i non-chiamateci-comunisti-che-non-vogliamo-sembrare-ideologici, con l’ausilio dei loro attivi e sgargianti Anarlecchini servizievoli con mille aspiranti padroni.

Ed ora tutti in coro, bandiera rossaaa, bandiera rossaaa…


Appurato fino a che punto il sabotaggio sia stato rimosso dalla Storia, gli autori de Il compressore hanno voluto rievocarne le apparizioni. Ovviamente la selezione a loro disposizione era piuttosto vasta, e loro hanno scelto. Il criterio usato è facile da immaginare ed ineccepibile. È lo stesso che useremmo anche noi. Ovvero in base al proprio mondo, quello che si ha nel cuore. Come il linguaggio, anche la Storia non è neutra e porta con sé delle prospettive.

Ordunque, una interessante citazione storica sul sabotaggio compare già nelle analisi più teoriche, laddove si fa notare come il “terrorista” possa venire apprezzato per la sua natura anche se il fatto da lui compiuto è particolarmente grave. L’attentatore di Napoleone III, Felice Orsini, è considerato un patriota e non uno stragista. Giusta considerazione. Ma Orsini stava in Francia, l’esempio forse è troppo distante nello spazio e nel tempo, e poco chiaro. Non c’è nulla qui in Italia da ricordare? Massì che c’è! «Circa la valutazione del termine, d’altra parte, sono esemplari le considerazioni di un Luigi Longo (segretario del PCI dal 1964 al 1972) in merito ai GAP…». Una valutazione non è una bazzecola, è una cosa seria. Deve essere lasciata a persone serie. Non può essere un PincoPallo qualsiasi a dare valutazioni. Esemplare è invece un Luigi Longo, uno dei capibastone stalinisti nella Spagna del 1936. Anche un «Paolo Spriano, celebre storico del PCI» è una fonte autorevole per legittimare la violenza contro lo Stato. Bandiera rossaaa, bandiera rossaaa…

Vedete, il cruccio degli autori è questo: il sabotaggio avvenuto in Val Susa è parte di un vasto movimento di lotta. La rievocazione storica del sabotaggio deve quindi seguire questa traccia, deve possibilmente ripresentare lo stesso contesto. Si possono anche ricordare per strumentale forza maggiore gli Os Cangaceiros e Marco Camenish, mentre è d’obbligo citare Emile Pouget. Ma ciò che deve venire alla luce è la dimensione più politica, pubblica e collettiva dell’uso del sabotaggio, perché è questa la prospettiva che si vuole affermare, mentre ogni altra prospettiva è meglio se rimane… rimossa.

Il luddismo va anche bene, un forte movimento sociale così lontano nel tempo da poter essere rivisitato senza tema di smentita da chiunque, persino da chi giura da sempre sulla necessità del Partito e della riappropriazione dei mezzi di produzione. Per il resto, meglio puntare sui sindacalisti rivoluzionari più battaglieri, ricordandone la collera e tacendone il programma (tanto per essere più conseguenti con le parole). Gli IWW, ad esempio. A loro sono dedicate ben sei pagine che, da sole, meriterebbero una recensione intera. I wobbly erano i sostenitori del «One Big Union», musica per gli attuali sostenitori del One Big Movement. Nelle lotte che guidavano erano disponibili a ricorrere al sabotaggio, e anche qui ci siamo. Per cui vale proprio la pena ricordarne le gesta eroiche. Stando però attenti a non ricordare che essi furono il prototipo del racket politico che altrove su questo sedicente opuscolo viene deprecato. Non viene detto che chiunque non si iscriveva nelle loro fila era considerato un crumiro, non viene detto che non appoggiarono le azioni dirette avvenute nel corso di lotte fuori dal loro controllo, non viene detto che si scontrarono molte volte con gli anarchici favorevoli alle lotte autonome da attuare in many small groups. Il loro dirigente più noto, Bill Big Haywood, viene ricordato per le sue parole infuocate ma non per essere stato accolto e decorato nella Russia stalinista. Viene salutato il loro internazionalismo, la loro mancanza di discriminazione razziale, guardandosi bene dall’associarli alla loro ambizione di rappresentare tutti i lavoratori, nessuno escluso. Dettaglio indicativo, ad un certo punto gli autori si dolgono della «infelice polemica di Debbs contro il sabotaggio». Ora, Eugene Debbs era sì stato fra i fondatori del IWW ma era soprattutto il leader del Partito Socialista e all’epoca della polemica (1913) si era già candidato per ben quattro volte alla Casa Bianca. Definire infelice la sua ostilità al sabotaggio è un po’ come considerare spiacevole il mancato riconoscimento della Volante Rossa da parte di Togliatti. Un rammarico perché è mancata un’immaginetta nell’album di famiglia della sinistra, il loro mondo.

Prodigiose sono poi le due pagine dedicate ai sabotaggi in Val Susa. Liquidati in poche righe quelli avvenuti alla fine degli anni 90, meglio riempire lo spazio con stralci dalla Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza edita da Pietro Secchia, il cui passato di partigiano s’intuisce mentre si tace quello di dirigente storico del Partito Comunista. Oltre ad una prima pagina dell’Unità del 1928 in grande risalto (bei tempi quelli, quando ci-lasciavamo-chiamare-comunisti!), il resto del testo è tutto da assaporare. Veniamo istruiti che la sera del 15 maggio 2013 a Bussoleno, nel corso di una assemblea, si è parlato di sabotaggio con l’avallo di nomi prestigiosi: Gandhi, Capitini e Mandela. Poi viene ripetuto che la sera del 15 maggio 2013, a Bussoleno, sono risuonati i nomi prestigiosi di Gandhi, Mandela e Capitini. Ma lo abbiamo capito, lo abbiamo capito! Nessuno sa chi fosse Pouget, e quindi si sono fatti i nomi adeguati, strategicamente affettivi. Ma il religioso-laico Capitini, che tollera il sabotaggio solo come ultima risorsa, «Aldo» per gli autori, non è sconosciuto quanto Felice Orsini? Mmmh, meglio presentarlo. E questa volta, per avvalorare la definizione «una eccezionale figura di studioso», chi si riesuma dalla tomba? Nientepopodimenoche Pietro Nenni! Sì, Nenni, Pietro Nenni, il pompiere della Settimana Rossa, il socialista che ha diretto per molti anni l’Avanti!, poco dopo Benito Mussolini ma molto prima di Benito Craxi. Roba forte, fortissima, bandiera rossaaa, bandiera rossaaa…

Ma non pensate che sia finita qui. No, perché veniamo edotti anche del fatto che «L’assunzione etico-politica del sabotaggio, oltre a illustri teorici della non-violenza, ha tra i suoi sostenitori addirittura uno dei padri costituenti della Repubblica italiana, Ferruccio Parri, primo presidente del Consiglio italiano del dopoguerra…». Addirittura?

Quindi, cari giovinetti e giovinette, cari compagni e compagne, dopo aver gustato la chiarezza di questi granuli di storia avrete senz’altro capito bene che esistono politici illustri che non è lecito insultare, ma che invece serve tanto leggere, ascoltare, apprezzare.

Prima che la nausea ci arrivi alla gola e ci soffochi, a furia di sfogliare riferimenti talmente sinistri da riciclare anche (coautori di) noti dissociati come Caminiti, un ultimo sforzo, forse il peggiore. «Se c’è una lotta in cui il sabotaggio ha fatto numerose e significative comparse, è senz’altro quella contro il nucleare», scrivono gli autori, «anche in Italia, per almeno un decennio, l’attacco alla piovra nuclearista è stato costante». Bene, e quindi? Quindi «tra le tante storie – o asciutte cronologie — disponibili, abbiamo scelto un racconto sulla lotta contro la centrale nucleare di Golfech, inFrancia, in qualche modo emblematica di problemi e dinamiche ben attuali».

Sì, evitare gli esempi italiani è emblematico di problemi e dinamiche… e di chi? Di chi deve gestire una lotta sociale allargata facendosela con politici, magistrati e giornalisti assai utili politicamente da una parte, ma fingendo al tempo stesso di disprezzarli dall’altra. Come risolvere il problema di fare marchette cittadiniste vantando una reputazione radicale? Come tenere dinamicamente il piede in due staffe? Hanno fatto bene, molto bene gli autori de Il compressore ad accennare soltanto ai sabotaggi avvenuti alcuni decenni fa in Italia contro i tralicci dell’alta tensione. Altrimenti avrebbero dovuto ricordare che quella pratica accompagnò una teoria che incitava a passare dal centro alla periferia, che venne sostenuta proprio contro i carrozzoni politici già esistenti allora, ovvero contro l’ambizione politica che oggi sta a «manimentecuore» sia al Signor Movimento NoTav che alla Signora Lotta NoTav. Quella era una progettualità di intervento fondata sulla affinità di idee e passioni, non sulla comunella di opinioni e sentimenti. Una progettualità che è stata rimossa, sempre più rimossa, non solo dalla paralisi pratica e dall’annebbiamento teorico imposti dal dominio, ma anche grazie a chi si è dedicato a creare e diffondere uno «spirito del tempo» in cui una visione del mondo priva di potere «non ha praticamente peso alcuno», non essendo sufficientemente popolare.

Eppure, non avendo bisogno di nessuna legittimità, non accettando alcuna tirannia del numero, quella progettualità rimane sempre possibile da percorrere. Rimossa nel passato, essa è sempre presente, alla portata di tutte le impazienze e di tutti gli eccessi. Essa è nell’aria e si potrebbe afferrare come una corda tesa, facendo crollare ogni funambolismo politico.


Dev’essere per «innalzare la temperatura morale dell’epoca» che Il compressore verrà presentato in uno dei Festival dell’Amicizia Politica organizzati ogni estate in Val Susa dai militanti di Condivisione e Liberazione, il prossimo 23 luglio, sotto il Regno dei Cieli di Venaus. La presentazione sarà subito dopo cena. Subito dopo pranzo non era possibile, essendo già previsto «l’incontro con l’amministrazione cittadina», uno dei tanti appuntamenti filoistituzionali in calendario. «E siccome le parole, quando scaturiscono da un’esperienza reale, fatta da individui viventi e non già da sembianti, hanno un senso», come dicono gli autori del sedicente opuscolo, non abbiamo proprio dubbi sul senso da dare agli affannosi tentativi di conciliare critica radicale e rimprovero cittadinista, conflitto sociale ed istituzioni statali, zoccoli del sabotaggio e zoccole della politica.

21/7/14

Sputa (sulle) sentenze

Lo scorso 17 dicembre il Tribunale di Torino ha condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione i quattro sabotatori NoTav rei di aver partecipato, nella notte fra il 13 e il 14 maggio 2013, ad un assalto al cantiere di Chiomonte conclusosi con l’incendio di alcuni macchinari. Se il verdetto di condanna era scontato, dato che nel corso delle udienze i quattro compagni avevano apertamente rivendicato la loro responsabilità nei fatti, lo era assai di meno la sua entità. Il tribunale si sarebbe “limitato” a condannare il «danneggiamento aggravato, la violenza a pubblico ufficiale ed il porto d’arma da guerra» o avrebbe accolto anche l’aggravante di «terrorismo»? Ebbene, per questi giudici di Torino sabotare l’Alta Velocità – per lo meno in questo contesto – è sì un atto illegale da punire, ma non un atto di terrorismo.

Notizia che non può che renderci felici in quanto ciò comporta meno anni di galera inflitti. Ma nulla di più. Non era, non è, e non sarà mai un tribunale a stabilire cosa sia (più o meno) giusto e cosa sia (più o meno) sbagliato. Non era, non è, e non sarà mai un tribunale a stabilire cosa non è terrorismo e cosa lo è. La Legge uguale per tutti che pretende di ordinare l’etica, la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno, non ha alcun valore ai nostri occhi. Questa (sua) ambizione al conformismo non corrisponde in nulla alla (nostra) ambizione all’autonomia. Lasciamo agli avvocati cantare vittoria per una sentenza “favorevole”, lasciamo i pubblici ministeri piangere la sconfitta di una sentenza “sfavorevole”. Ciò che pensiamo di quell’atto rimarrebbe immutato, quale che fosse stata la sentenza pronunciata il 17 dicembre. È innegabile che, se la matematica non è una opinione, meglio trascorrere 3 anni e mezzo in galera invece di 9. Ma se la lotta contro questo mondo infame non è una scienza matematica, allora…

Allora l’azione diretta contro le strutture e gli uomini e le donne dello Stato non ha bisogno di nessun verdetto, né di condanna né di assoluzione. La prima non è sinonimo di colpevolezza né di coraggio né di ingenuità, la seconda non è sinonimo di innocenza né di viltà né di astuzia. Né santità, né malvagità, anche invertendo i termini. La legge sarà senz’altro un affare fra funzionari di partito, ma non sarà mai un patto di sangue fra complici. La rivolta contro questo mondo trova in sé la propria giustificazione, non elemosina «legittimità» né ad un tribunale di Stato, né ad una assemblea popolare. È un NO che non ha bisogno di alcun coro di approvazione, di nessun applauso di consenso. Può nascere da urgenze collettive, da bisogni insoddisfatti, certamente, ma si alimenta e cresce nella dignità calpestata, nei desideri irrealizzati, nella coscienza offesa, nei sogni infranti, ovvero nella singolarità di ogni essere umano. Ed è questa negazione quotidiana di ciò che ognuno di noi vorrebbe e potrebbe essere nella sua irripetibile diversità, è questa costrizione a rimanere nei comuni limiti di ciò che più banalmente ci è concesso essere – cittadini, cosa pubblica da amministrare – a spingerci a fare la guerra alla società. E a farla singolarmente, con le parole e con i fatti, con gli attacchi solitari e con gli assalti collettivi, nel buio delle tenebre e alla luce del sole. Le sentenze di tribunale non ci interessano, sono buone per riempire le galere di Stato (per il sabotaggio di Chiomonte nel 2013, o per l’agguato a Genova nel 2012, o per gli scontri di Genova nel 2001) ma non le nostre menti né i nostri cuori.

19/12/14

A stormo!

Il Tav è ovunque, purtroppo. La Valsusa no, per fortuna. Chi vuole opporsi al Tav lo può fare dappertutto; non occorre che vada in Piemonte. Non è necessario che parta e torni insieme a sindaci, non è necessario che condivida polenta con parlamentari, non è necessario che applauda magistrati. Non è necessario che diventi politiglotta per comunicare con animali politici vari all’interno dello zoo assembleare. Lo può fare da solo, o con chi vuole. Con chi ama e stima, non con chi tollera e sopporta. Dove e quando vuole, non nei luoghi e nelle scadenze segnate sull’agenda militante. Basta un po’ di immaginazione e di determinazione.

Il Tav è ovunque, e lo è da molti anni ormai. E da molti anni e dappertutto è anche la possibilità di colpirlo. Come infatti è avvenuto, negli anni, un po’ in tutta Italia. E come sta accadendo ancora oggi. Oggi più di ieri? Chi può dirlo? Di sicuro oggi i media stanno dando grande risalto a queste notizie, a differenza di ieri. Il che può aumentare le probabilità di generalizzazione. Meglio così. Ma avendo chiaro che la significatività di un atto non è data dal suo share televisivo, né dalla sua condivisione (toshare, appunto) cittadina. Altrimenti dovremmo essere grati ad un Erri De Luca per aver pubblicamente sostenuto la necessità del sabotaggio, ed agli stessi giudici del Tribunale di Torino per non averlo condannato lo scorso 17 dicembre come atto di terrorismo. Come se fosse merito loro il ritorno del sabotaggio, quel sabotaggio che nel corso degli ultimi anni era stato scomunicato e rimosso da tanti, troppi sovversivi a corrente alternata.

Il Tav è ovunque e sabotarlo è facile e alla portata di tutti gli ardiri e gli ardori. Ciò che sta accadendo in questi ultimi giorni ne è l’ennesima riprova. Come già accaduto più volte in passato, basta un rintocco per provocare un riverbero che potrebbe a sua volta tramutarsi in stormo. Riverbero a distanza, non contagio diretto. Ispirazione individuale, non complotto collettivo. Fantasia singolare, non strategia comune. È quanto potrebbe accadere nel prossimo periodo, facendo finalmente uscire la lotta contro il Tav dai ristretti confini di una civile vallata per estenderla ad un paese caotico. E se non è la rivendicazione specifica di una lotta che deve diffondersi ma la sua modalità, ebbene, che questo sia: che sia il sabotaggio a diffondersi ovunque, non la legittimità della politica. Che sia tutta questa società a venire bloccata, non solo un treno troppo costoso e nocivo.

E quando questa corrente cesserà di essere continua per ritornare ad essere alternata, quando i media ripristineranno il mussoliniano silenzio sui fatti accaduti, quando il calcolo della politica riprenderà il sopravvento sull’eccesso della rabbia, anche allora, come sempre, basterà un po’ di immaginazione e di determinazione.

Ed un altro, nuovo rintocco.

23/12/14

A caccia di stelle

Sono passati diversi anni da quando andavano a caccia di rivoluzionari nelle metropoli del paese, insieme. Uno scorrazzava a Torino, l’altro a Roma. Servitori dello Stato, portavano al loro padrone le teste mozzate di chi osava attaccarlo e morderlo. Era il loro lavoro e il loro dovere, ma un po’ anche la loro passione: inseguire le tracce, braccare, stanare, impallinare. Quanti trionfi nello sterminare quel branco di lupi feroci che avevano la pretesa di vivere nella libertà della foresta anziché nello zoo della città!

Poi, estinta o quasi quella fauna così pericolosa, le loro strade si sono divise. Hanno continuato a frequentarsi, naturalmente, ad addestrare assieme altri cacciatori, più giovani ed inesperti, ma nsomma… sapete com’è, gli anni passano per tutti.

Uno di loro, quello di Torino, è rimasto tutta la vita al servizio dello Stato per proteggerne il regno. Ma la sua fine carriera è risultata assai ingloriosa. La sua ultima preda non era un sopravvissuto branco di temibili lupi, trattandosi questa volta di animali ben più docili, anch’essi usi a muoversi in massa. Irritati per il progetto statale di devastare quel po’ di verde che circonda la loro cuccia, abbaiano e ringhiano di continuo ma non sono di certo intenzionati a sbranare padroni e loro guardia-caccia. Nella loro veemente insistenza di legittime rivendicazioni, questi animali potranno infliggere qualche ferita ma, insomma, che sarà mai? Però nella sua ultima battuta contro di loro prima della pensione, il cacciatore di Torino si è fatto prendere un po’ la mano, ci ha messo tutta la foga della sua gioventù. Ma ha un tantino esagerato, infatti il suo stesso padrone Stato ha da poco sconfessato il suo operato. Non scodinzolare non va bene e saltare addosso è reato, va da sé. Ma non confondiamo unghie che graffiano con zanne che squartano. Per far rientrare le prime basta uno schiaffone, per tranciare le seconde ci vuole la mannaia. Giudizio questo poco apprezzato, non solo dal cacciatore, ma anche da tutti quei servitori secondo cui una piccola disobbedienza è pur sempre premessa di una grande rivolta.

L’altro, quello di Roma, ha da tempo lasciato il servizio operativo sul campo per darsi a gioie ben più frivole, fra cui quelle televisive. E a lui, l’ultima preda del collega piemontese non è affatto antipatica, anzi, tutt’altro! Gli è così simpatica da prenderne pubblicamente le difese, da andarla a trovare, da rassicurarla. Bravi animali da branco, così si fa, mostrate un po’ di dignità, che tanto lo so che in fondo siete buoni e non vi ribellereste mai per davvero al nostro comune padrone, lo Stato. Quel padrone che, lo confesso, si circonda talvolta di servitori inetti, stupidi e cattivi. Colpa loro se le cose vanno male, se la catena è stretta, la ciotola è vuota e l’aiuola attorno alla vostra cuccia è in pericolo. Abbaiate e ringhiate, bravi, così ne attirate l’attenzione e lui porrà rimedio. L’animale in questione, che non è scemo, sa bene che le carezze di Imposimatix da Roma sono un ottimo rimedio contro le sberle di Casellik da Torino. Per cui davanti a questo celebre amico cacciatore, assassino in passato di parecchi altri animali, scodinzola felice.

Qualche giorno fa alcuni sabotaggi avvenuti nel regno dello Stato hanno fatto saltare i nervi un po’ a tutti. «Al lupo, al lupo!» si sono messi a strillare i servitori più beceri. Casellik, intervistato, non ha potuto fare a meno di esprimere tutta la sua preoccupazione: «Si possono, si devono discutere i diversi aspetti del cantiere No Tav, dai costi fino alla opportunità e all’impatto ambientale sul territorio. Ma un’altra cosa sono le azioni illegali o violente rispetto a un’opera che è stata regolarmente decisa e deliberata in ogni possibile sede competente italiana e europea. Un conto è discutere, fare dibattiti e convegni, manifestare in strada, un altro è assaltare con la forza un cantiere da tutti autorizzato dove si trovano onesti operai impegnati a guadagnarsi la pagnotta e forze dell’ordine asserragliate a difenderli. Tutto questo è estraneo alla democrazia». Perché in democrazia si è liberi di dire perché si è solo liberi di obbedire. Se lo Stato umilia, bastona e sfrutta, siamo liberi di esprimere il nostro disaccordo solo a patto di obbedire comunque, ovvero di lasciarci umiliare, bastonare e sfruttare. La libertà inizia e finisce nelle chiacchiere, dopo di che spuntano i fucili dei cacciatori. Ma quanto è bella la democrazia…

Casellik ce l’ha a morte col vecchio collega Imposimatix, pur scegliendo di non nominarlo. Non si capacita come un grande cacciatore, uno che si eccitava al solo odore del sangue, uno con cui ha condiviso innumerevoli abbattimenti, possa prendere le difese di una preda: «Ci saranno sicuramente molte cose che vanno male in Italia, ma non per questo si devono sottovalutare l’illegalità e la violenza come arma di lotta politica che si colloca fuori da qualsiasi forma di democrazia. Non capisco chi non lo capisce, preferendo un atteggiamento gravemente superficiale».

Da parte sua, Imposimatix è corso per l’ennesima vola in soccorso del suo animale di compagnia preferito, il quale ha subito ripreso e diffuso la sua autorevole difesa: «Cari amici, da ex magistrato che si è occupato di terrorismo di ogni genere, voglio informare gli italiani che gli attentati contro la linea ferroviaria Firenze Bologna, sono atti gravi ma non sono opera dei No Tav, ma atti della stretegia della tensione per criminalizzare i movimenti No Tav e reagire alle inchieste della magistratura di Firenze e di Torino che sta indagando su gravi delitti attribuiti nelle ordinanze di custodia cautelare a funzionari ministeriali, funzionari delle stazioni appaltanti, esponenti del crimine organizzato e appaltatori».

Per Casellik e tutti i servitori dello Stato assetati di sangue selvaggio, dietro i sabotaggi ci stanno dei lupi cattivi. Non ci sono dubbi, perché l’alternativa è secca: illegalità o legalità. Questi lupi saranno pochi ma sono pericolosi, quanto meno in potenza, bisogna scovarli ed abbatterli.

Per Imposimatix e tutti gli sguatteri di Movimento affamati di legittimità civica, dietro i sabotaggi ci stanno dei cacciatori cattivi. Non ci sono dubbi, perché l’alternativa è secca: condivisione o Stato. Questi cacciatori saranno pochi ma sono pericolosi, bisogna denunciarli e allontanarli.

Per noi la sola certezza è che odiamo qualsiasi cacciatore e disprezziamo qualsiasi servitore o sguattero. Chi sia stato a compiere quei sabotaggi non ci interessa minimamente, non dovendo fare quadrare alcun bilancio politico. Sappiamo solo che la loro realizzazione è alla portata di chiunque voglia fare una passeggiata sotto le stelle. Che sia un esempio intenzionale o un boomerang involontario, non è questo il punto.

Il punto è che si sa bene dove possono andare ad ululare i lupacchiotti, solitari o meno che siano, nelle notti di luna piena. Lungo binari incustoditi si potrà unire l’utile al dilettevole.

28/12/14

I buoni di Natale

Dicembre è un mese birichino. Comincia come tutti gli altri ma poi, inutile nasconderlo, assume un’aria frizzantina tutta particolare. È il mese delle festività, dei doni, il mese di Natale e dell’ultimo dell’anno. Il mese in cui tutti sono un po’ più buoni. Dai, siamo a Natale. È nato Gesù il caritatevole, ricordate? Massì, nella stalla proletaria, il figlio di Dio-padrone riscaldato dal bue-popolo e dall’asino-ignoranza… Non sentite anche voi l’irresistibile bisogno d’essere più buoni? Chissà che non sia anche per questo che lo scorso 17 dicembre il Tribunale di Torino ha respinto l’aggravante di «terrorismo» nel condannare i quattro compagni sabotatori No Tav. Perché siamo a Natale, e bisogna essere più buoni.

Ecco perché quando alcuni giorni dopo si sono verificati alcuni sabotaggi contro il Tav, a Firenze e a Bologna, perfino il premier Babbeo Renzi ha parlato di sabotaggio. Non ha parlato di terrorismo, esasperando gli animi, no no, lo ha detto chiaro e tondo: è sabotaggio. Ma perché lui è stato anche lupetto, e siamo a Natale, e bisogna essere più buoni. Del resto, fosse stato davvero terrorismo, i treni sarebbero saltati in aria come accadde in quel brutto Natale di trent’anni fa. Che poi, qualcuno la butta lì, questi sabotaggi saranno autocostruiti e autoprodotti dal basso oppure costruiti e prodotti dall’alto? Boh, chissà se ce lo dirà la Befana.

Intanto è Natale, e bisogna essere più buoni. I mass media infatti per un giorno hanno dato risalto persino ad un nostro articolo, «A stormo!». Devono averlo fatto perché sono buoni, sì, buoni a nulla in cerca di scoop. Per fare un regalo al loro direttore e ai questurini? Per obbedire ad una certa Ragione di Stato, mettere al bando il No Stato cattivo e mettere in riga il No Tav buono? Chissà. Ma è Natale, bisogna capirli. Auguri, auguri!

E questo è niente. Perché – non ci crederete mai, davvero – sapete chi si è ricordato di noi per farci un bel regalo? Ma sì, sì, lui, proprio lui, il Capo-Popolo, la Bocca della Protesta, lo Stratega della Lotta, il Comitato Centrale della Rivoluzione… che emozione… il Signor Movimento No Tav!!!

Non potevamo crederci, lui si è proprio precipitato a mettersi in riga e nel suo post domenicale ci ha omaggiato pubblicando pari pari quello stesso nostro articolo! Se i mass media ne avevano riportato solo stralci senza citare la fonte, lui – che è meglio e più dei mass media – ci fa il servizio completo. Che umiltà, che bontà, il compiaciuto leader di un movimento di massa che si abbassa a fare gli auguri a minuscoli individui come noi. E dire che ne abbiamo dette tante sul suo conto… meriteremmo il carbone, meriteremmo… Ma lui è un proprio un Signore, sapete. Non serba rancore verso nessuno, mica a caso accoglie benevolmente un Vittorio Agnoletto o un Giulietto Chiesa, delatori di black bloc a Genova 2001; mica a caso scodinzola davanti a un Ferdinando Imposimato, boia di rivoluzionari negli anni 70 e seguenti.

Infatti fa precedere il nostro testo da una presentazione lusinghiera che ci ha fatto arrossire come scolarette. Sfoderando tutta la sua fine dialettica e la sua possente argomentazione, egli ci dipinge così: Spaventapasseri! Nemici del mondo tutto! (adulatore) Professori dell’estetica dei gesti! Millantatori delle miccette che fanno “puff”! (grazie, grazie, che gentile) Frustrati delle mancate rivolte individuali! Cattedratici giudica tutti! Alfieri dell’anarco-nichilismo! (ma no, davvero, è troppo) Sputasentenze! Disprezzatori dei movimenti popolari! Sfigati! (oddio, così ci metti in imbarazzo, sciocchino) Deliranti quaquaraquà! Fan di due cavi bruciati! Interessati solo alla fiammella sempre più “tenua” [fiammella-a, tenua-a, ovvio] del prossimo gesto individuale! (ma n’zomma, quanti complimenti, con quegli occhietti malandrini che ci scrutano).

Quale onore, quale onore! E tutto perché i giornalisti lo hanno per un giorno tradito, preferendo sfruttare bestemmie anziché preghiere. E tutto perché qualche consigliere del Re gli ha stuzzicato i sensi, anzi, il senso di (altro) Stato, evocandogli la nostra esistenza. Basta così poco per diventare desiderabili? Ma chi se ne frega: Lui ci conosce, ci diffonde, ci ama. Che uomo questo Signor Movimento No Tav! Ha un cuore così grande e generoso – è Natale, è Natale – che non si è accontentato di fare un regalo solo a noi. No, macché, lui ha pensato anche agli amici inquirenti. Poverini, chiusi in Procura a lavorare sotto le feste, che tristezza. E allora, cosa ha fatto per rallegrarli il Signor Movimento No Tav? In quella stessa presentazione ha dato sfoggio delle sue capacità deduttive nei nostri confronti: «fino a qualche annetto fa usavano i loro petardoni postali che qualche rintocco facevano, ora usano qualche straccetto imbevuto di benzina inneggiando alla rabbia generale… chissà che Finimondo!».

È Natale, dio maiale, e questo è proprio un bel regalo. Anche alcuni giornalisti sono rimasti così deliziati da un simile colpo di scena da pubblicizzarlo, e per questo inaspettato dono il Signor Movimento ha subito ripreso posto nei loro cuori. Considerato che all’epoca della morte di Sole e Baleno alcuni di noi furono inquisiti per i primi pacchi bomba inviati, gli inquirenti gliene saranno doppiamente grati. In archelingua il termine «delatore» sarebbe stato fuori luogo in questo caso solo perché la delazione è la denuncia segreta di un reato commesso, al di là della sua veridicità. Abituato ad una neolingua in cui tutto ciò è al massimo libera opinione o banale constatazione il Signor Movimento No Tav ci mette la faccia, ci mette, e la sua denuncia contro di noi l’ha fatta pubblicamente!

No, anzi no. La faccia la mette e poi la toglie. Qualcuno deve averlo avvisato che l’archelingua non per tutti è ormai desueta, e che un proprietario di una trionfale lotta popolare non può apparire al tempo stesso un confidente di polizia. Così ha pensato bene di modificare la rivelazione contenuta nel suo testo, che adesso suona così: «fino a qualche annetto fa andavano in estasi per i petardoni postali che qualche rintocco facevano, ora per qualche straccetto imbevuto di benzina inneggiando alla rabbia generale…». Da vecchia volpe con la coda di paglia, ha provveduto a lasciare immutate l’ora e la data di pubblicazione. Nessuna correzione, nessun sospetto! Il Signor Movimento No Tav non è un indicatore di polizia, giammai – tant’è che per lui il sabotaggio è una cosa seria – sono i giornalisti che hanno pubblicato la precedente versione a farlo passare per tale!

È Natale, e dobbiamo essere tutti più buoni. Noi infatti non ci preoccupiamo di cosa possano pensare gli inquirenti al riguardo. La magistratura per toglierci di mezzo non ha certo bisogno di usare come prova a carico i post domenicali non ancora taroccati degli ammiratori del Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. È noto che isteria e verità non sempre coincidono, anche se certe indicazioni corroborano e fortificano. E queste indicazioni, il Signor Movimento No Tav le ha già date. Il suo taroccamento non serve per proteggere noi dalla magistratura, serve solo a proteggere la suareputazione. Così nessuno potrà sostenere pubblicamente che a partire dalle 18.29 del 28 dicembre 2014 la definizione infame calza al Signor Movimento No Tav come un guanto. E questo al di là delle conclusioni che potrebbero trarre i lettori ermellinati del blog notav.info (occasionalmente notav.infam).

È Natale, e dobbiamo essere tutti più buoni. Ma, disgraziatamente per il Signor Movimento No Tav, noi la schermata originale l’abbiamo conservata (chi volesse vederla con i propri occhi non ha che da chiedercela). Il suo revisionismo di staliniana memoria che cerca di far sparire cose imbarazzanti dalle immagini di famiglia è stato inutile, già.

A noi le attenzioni degli sbirri, e sia.

Ma al Signor Movimento No Tav, tutto il disprezzo che si meritano gli infami, fossero anche occasionali!

30/12/14

Les gentils de Noël

In mezzo al silenzio davanti ad una pubblica delazione, ad un certo punto si è levata una voce attonita. E non dall’Italia, bensì dalla Francia dove a quanto pare esistono anarchici che per ammazzare la noia del dolce far niente si connettono in rete e leggono quanto avviene altrove, fuori da ogni parrocchia. E si pongono perfino delle domande. Chiedono subito lumi, aspettano e poi reagiscono. Il 4 gennaio, ancor prima di qualsiasi altra imbarazzata voce nostrana, sul sito francese NonFides è stato pubblicato un nostro articolo, «I buoni di Natale» (Les gentils de Noël) preceduto dal testo introduttivo che qui riproduciamo. Non volendo farla apparire una sollecitazione fatta per interposta persona, abbiamo deciso di non diffonderlo subito in italiano. Ma ogni promessa è debito.


«Certo, le prese di distanza nei confronti di alcuni sabotaggi o i discorsi dietrologici (che parlano di servizi segreti, della mafia, di provocatori o di macchinari bruciati per intascare i premi delle assicurazioni…) non sono una novità per il sito notav.info, né per altre parti del movimento No TAV. E lasciamo da parte il disprezzo che i redattori di notav.info provano verso i sabotaggi (“qualche straccetto imbevuto di benzina”) e la mancanza di memoria storica che fa dimenticare loro cos’era l’opposizione al TAV verso la metà degli anni 90 (quando alcuni individui risoluti sabotavano delle infrastrutture nella valle, mentre le loro tanto amate masse erano davanti ai loro televisori…).

Però questa volta è stato superato un limite. In un articolo pubblicato sul sito notav.info per criticare le tesi di finimondo.org, gli autori (che si presentano come la redazione) arrivano alla delazione. Scrivono che in passato i compagni avrebbero spedito dei pacchi bomba e che sarebbero loro gli autori dei sabotaggi di dicembre.

Cosa significa tutto ciò? Che chi non si dissocia immediatamente da ogni attacco, come fanno regolarmente su notav.info, potrà essere accusato un giorno di esserne l’autore? Che chi dà visibilità a degli attacchi, al contrario di chi invece li sminuisce, li nasconde o li ignora, ne sta facendo la rivendicazione? Che chi tiene un discorso coerente di sovversione dell’esistente con ogni mezzo necessario sarà condannato come terrorista?

Che sbirri e giudici ragionino così è logico: è il loro lavoro. Che a fare lo stesso siano i redattori di un sito che è una delle voci del movimento No TAV la dice lunga su di loro. Ma la dice lunga anche sulle prospettive di un movimento all’interno del quale si producono tali comportamenti senza che vi sia alcuna critica (quantomeno nessuna critica pubblica, che è quello che conta), cioè col consenso generale, almeno implicito. Ma una parte non piccola dei “No TAV” sono anarchici.

Per l’appunto, quello che ci stupisce ancor di più è il silenzio dei compagni e delle compagne anarchici. Restare in silenzio significa lasciare che le cose seguano il loro corso (e prendere la posizione più facile). In un caso come questo, ciò vuol dire avallare il comportamento di qualcuno che indica alcuni compagni come autori di reati precisi. Se vogliamo farla breve, i redattori di Finimondo vengono indicati agli sbirri, pubblicamente e nell’indifferenza generale. Per essere più precisi, vengono lasciati soli da altre parti del movimento anarchico nel momento in cui qualcuno li accusa di aver detto e fatto quello che ogni anarchico dovrebbe dire e fare.

Un tale silenzio è estremamente grave. Non ha nulla a che vedere col fatto che ci piacciano o meno degli individui ben precisi e non dovrebbe nemmeno avere nulla a che vedere con le critiche aspre ed insistenti che i redattori di Finimondo (fra gli altri) hanno portato al movimento No TAV. Non si tratta qui di prendere posizione nelle eterne guerre di parrocchia, ma piuttosto di dire chiaramente due cose molto precise. Innanzitutto, che la delazione non è accettabile e non deve essere accettata in silenzio. E che ciò dovrebbe significare anche, per gli anarchici che prendono parte alla lotta contro il TAV, difendere pubblicamente, anche contro altri “No TAV”, un’idea ben precisa: la necessità dell’attacco senza mediazioni contro questo mondo. Un’idea che è uno dei fondamenti dell’anarchismo.

Forse questa necessità non viene accettata da tutte le componenti della lotta No TAV? In effetti. Ma allora, che i compagni e le compagne scelgano il loro campo.

Alcuni anarchici di Parigi e dintorni»

14/1/15

La soluzione finale al problema etico

Cominciamo con quello che si potrebbe definire il problema conclusivo alla costruzione di una situazione, l’amara vittoria della teoria situazionista tramutata in pensiero situazionale. Mezzo secolo fa una situazione era definita come un «momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti». Lo scopo di questo momento esistenziale era quello di spezzare la grigia obbedienza imposta dall’esistente, ovvero farla finita con tutte le separazioni per raggiungere la totalità dell’essere. Non era l’apologia del frammento licenzioso concesso dal tempo presente, ma l’esatto contrario: l’apologia della pienezza liberatoria strappata nel tempo storico.

Quella teoria della situazione era infatti anche una critica della separazione compiuta, laddove «la realtà considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte». È questo lo spettacolo – «strumento di unificazione», «il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza», «una visione del mondo che si è oggettivata». L’alienazione prodotta dallo spettacolo «cancella i limiti dell’io e del mondo con l’annientamento dell’io che si trova assediato dalla presenza-assenza del mondo, cancella parimenti i limiti del vero e del falso con la rimozione di ogni verità vissuta sotto la presenza reale della falsità che si trova confermata dall’organizzazione dell’apparenza».

Riprendendo le tesi di Joseph Gabel sulla falsa coscienza, i situazionisti sostenevano il parallelismo fra ideologia e schizofrenia. Da parte sua, Gabel sosteneva che la falsa coscienza non era presente solo nell’ideologia, come denunciato da Marx, ma conosceva anche una forma individuale che egli chiamava «alterazione schizofrenica». Falsa coscienza che però aveva a suo dire anche forme legittime. Infatti era costretto a riconoscere che Marx criticava in teoria ciò che però giustificava nella prassi, giacché «la falsa coscienza è un corollario dell’azione politica concreta… quando vuole essere efficace, l’azione politica è condannata a utilizzare tecniche di persuasione collettiva che reificano e dedialettizzano il pensiero» (forse è per questo che i situazionisti per un periodo incitarono alla «lotta per il controllo delle nuove tecniche di condizionamento» delle masse, in competizione con la manipolazione poliziesca).

Ma se la vecchia teoria situazionista sosteneva una «unità di comportamento nel tempo», il supergiovane pensiero situazionale fa l’esatto opposto: pretende una separazione di comportamento nel tempo. Poiché la falsa coscienza diventa legittima non appena si mette al servizio dell’azione politica, tanto vale allora che si presenti come una coscienza felice. L’io non deve più essere considerato cancellato, la verità vissuta non deve più essere considerata rimossa, non devono più essere giacché in fondo non sono mai esistiti. Per usare la stessa metafora di Gabel, sì, il malato è guarito dalla febbre rompendo il termometro.

Se la teoria situazionista tuonava «niente indulgenze inutili», dicendo «chiaramente che tutti i situazionisti conserveranno l’eredità delle inimicizie dei loro gruppi costituiti, e che non c’è ritorno possibile per quelli che una volta siamo stati costretti a disprezzare», era perché il momento della vita che essi volevano organizzare doveva fornire finalmente l’occasione di realizzare i loro desideri, di esprimere ciò che erano, nei loro amori quanto nei loro odi. Era un momento autonomo, pensato e organizzato come altro rispetto a quello scandito dall’orologio del potere. Il pensiero situazionale invece invoca che tutte le indulgenze sono utili, dicendo chiaramente che bisogna rifiutare ogni eredità delle inimicizie, che il ritorno per chi una volta si è stati costretti a disprezzare è sempre possibile, quasi necessario. Questo perché l’organizzazione dei suoi momenti collettivi non sarebbe altrimenti attuabile, non essendo affatto autonoma. Per il pensiero situazionale l’autonomia è sinonimo di povertà e di isolamento. La vita sociale è già piena di situazioni, non occorre affaticarsi a crearne di proprie, basta immergersi in quelle esistenti, condividerle per influenzarle. In un certo senso il pensiero situazionale assomiglia all’intelligenza artificiale: ci si connette in rete, si salta un po’ qui e un po’ là, e quando c’è qualcosa che non va, clic, si resetta tutto e si ricomincia daccapo. La condivisione della situazione No Dal Molin, ad esempio, ha richiesto il resettaggio di Genova 2001, avvenuto il quale gli avvoltoi su cui sputare o gli infiltrati da denunciare sono tornati ad essere compagni con cui lottare. Per non parlare della condivisione della situazione No Tav in Valsusa, la quale alla lunga ha richiesto un resettaggio continuo di… praticamente tutto?

Se per la teoria situazionista l’essere umano è degradato prima dall’essere all’avere, e poi dall’avere all’apparire, ora si assiste ad un ulteriore slittamento che per il pensiero situazionale costituisce un vero e proprio trionfo: si è passati dall’apparire all’esserci. Non si è, non si ha e non si appare nemmeno: basta esserci (questa «ambigua scappatoia», come la chiamava un Anders sospettoso dei concetti forgiati da filosofi nazisti), basta la mera presenza nelle situazioni. Chi c’è è in – non importa chi sia, cosa dica o cosa faccia, né come né perché – chi non c’è è out. Presenzialismo che può fare a meno sia del passato che del futuro, essendo certificato dalla sola immediatezza del presente. Dall’ardua ricerca dell’oro del tempo si passa al facile respiro dell’aria del tempo.

Ora, il resettaggio del passato, la cancellazione della memoria, non è operazione facile in ambito sovversivo. La falsa coscienza necessaria all’azione politica si scontra infatti con il problema etico, ad esempio con l’idea secondo cui non si può sovvertire e servire allo stesso tempo; o anche con la diffusa convinzione che la memoria sia rivoluzionaria. Come fare a liquidare definitivamente questo problema? Le smentite non bastano, i sofismi nemmeno, e ad arrampicarsi sugli specchi tutti i giorni ci si stanca. Non si può andare avanti così, a chiamare errore episodico il metodo continuato, a fingere stupore e indignazione davanti all’evidenza più palese, ad evitare ogni critica pubblica e circostanziata sommergendola con pettegolezzi privati e «richieste di fiducia». Le situazioni incalzano, esigono una flessibilità (altro che conflittualità!) permanente, per cui bisogna farla finita una volta per tutte: niente intransigenze sconvenienti. Occorre decidersi a prendere di petto la questione, risolvendola alla radice.

La maniera c’è ed è davvero definitiva. La memoria non va più cancellata o «rivista e corretta» nei punti più imbarazzanti, secondo la bisogna. Ne va decretata la nocività in sé, la sua pesante costrizione. Basta con la tirannia dei ricordi, largo alla libertà dell’oblio. Non sono gli smemorati interessati a dover stare sulla difensiva, giustificandosi. Sono loro i rivoluzionari pronti a salire su qualsiasi barricata e su qualsiasi carro, mentre chi possiede ancora un briciolo di memoria è da considerare un reazionario.

La transizione da un pensiero critico ad una razionalità operativa è oggi in corso ad una velocità vorticosa, producendo ogni tanto effetti imbarazzanti. Qualche apprendista stregone rimane talvolta colto di sorpresa ed impotente di fronte a quanto egli stesso ha contribuito a provocare. Davanti a casi estremi si ritrova fra i piedi la questione etica, la consequenzialità, la memoria storica, ovvero tutto ciò che ha da tempo dimenticato e insegnato a dimenticare (soprattutto davanti a certi figuri che sono stati fatti rientrare dalla finestra dopo essere stati buttati fuori a calci dalla porta). Nell’Arca di Noé l’attivista, è stato chiamato all’appello tutto lo zoo: cani, porci, colombe, pesci, sciacalli, bradipi, struzzi, pecore, pavoni, volpi, asini, avvoltoi, oche, squali, pappagalli… va bene ogni specie d’animale, perché in fondo ci vuole unità e umiltà… no, attenzione, attenzione, ratti e serpenti no, quelli no!

Troppo tardi. Dopo aver fatto spallucce davanti alla calunnia o alla dissociazione, che da atteggiamenti miserabili sono diventati al massimo scelte opinabili. Dopo aver giustificato ogni opportunismo, che da vizio politico è diventato virtù strategica. Dopo aver accettato la vicinanza di parlamentari, preti, giornalisti… che da nemici sono diventati possibili interlocutori, se non utili alleati. Dopo aver puntualmente suggerito a tutti di evitare discussioni e di evitare rotture, liquidando ogni problema ed ogni asperità che si presentavano come se si trattasse di questioni personali, vecchie ruggini private nocive alla lotta, passioni tristi come il risentimento che nulla hanno a che spartire con interessi allegri come l’adescamento. Dopo tutte queste lezioni, martellate con costanza nell’ultimo decennio, perché mai chi è cresciuto al ritornello del «a compagno trovato non si guarda in bocca», del «tutto fa brodo», del «scurdammoci ‘o passato», addirittura del «gli infiltrati non vanno toccati», dovrebbe ora porsi eccessivi scrupoli davanti a qualsiasi cosa o persona? Farà come ha sempre fatto, come gli è stato suggerito e insegnato in tante altre occasioni: alzerà le spalle, si metterà a ridere, sbufferà e via facendo. Non è forse su questo che si fonda quel che resta del movimento, sulla reciproca amnesia organizzata? Quando si cerca la convenienza al punto da accettare ogni convivenza, poi è inevitabile finire nella connivenza. La preoccupazione etica non può sorgere solo nei giorni pari, meglio se in anni bisestili, durante le pause pranzo, fra un rutto e un altro, quando il vento tira da ovest, se il cielo è coperto, ammesso che la temperatura lo permetta, ben visibile con gli occhiali buoni se non si dimenticano a casa.

Se ad essere rivoluzionaria è l’elastica capacità di adeguarsi, di mostrarsi all’altezza della situazione, certi apprendisti stregoni hanno ben poco da preoccuparsi o lamentarsi per le reazioni di chi ha imparato che, se non si riesce a scalfire la Ragione di Stato, tanto vale consolarsi annientando ogni Idea di Movimento. L’introiezione della necessità pratica dell’oblio di scambio è risultata essere una premessa invero appropriata per abbozzare la soluzione finale al problema etico. L’oblio di scambio: io dimentico chi sei e cosa hai fatto se tu dimentichi chi sono e cosa ho fatto io, così potremo fare affari assieme. Qui, in questa reciproca rimozione utilitarista, è stato costruito il vero Luogo Comune disponibile ad accogliere tutti. Oblio che ormai esige d’essere applicato quotidianamente.

La consequenzialità è una noia, sinonimo di banalità. La memoria è contro-rivoluzionaria, sinonimo di immobilismo. Non rompete con vecchi ricordi impolverati. Chi se ne frega? Per essere in movimento bisogna rimanere leggeri e cavalcare l’onda dell’attimo presente, non farsi rallentare scendendo in profondità nella storia del passato. L’amnesia di Movimento è come l’amnistia di Stato, colpo di spugna che pareggia i conti rimettendo in circolazione tutti quanti sgravati dalle proprie responsabilità. E deve valere per chiunque. Se è meglio ignorare gli atti di chi è dedito al collaborazionismo politico, allora è meglio ignorare anche le carte di chi è dedito al collaborazionismo giudiziario. Se per stimare qualcuno bisogna dimenticare il suo contribuito alla desistenza di molti, allora per frequentare qualcun altro si può anche dimenticare il suo contribuito alla repressione di pochi. Se non bisogna accanirsi contro tutti i magistrati, allora non bisogna accanirsi nemmeno contro tutti i loro strumenti. Se i buchi di memoria sono perfetti per rinsaldare i rapporti politici, allora perché vanno male per quelli umani? Se l’affinità di idee va sostituita con l’affettività di sentimenti, allora cosa c’è di male nel rimanere sempre tutti in famiglia?

Ragionamenti che non fanno una grinza e che sono l’ennesimo effetto di quella soppressione forzata delle differenze, di quella rimozione del passato e di quella negazione dell’etica che caratterizzano bene quest’epoca e che, dopo essere tracimate dal Palazzo, hanno invaso anche il così ottusamente simmetrico Movimento. Eccolo qui il punto d’incontro nella «alterazione schizofrenica» fra dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, carnefici e vittime, calunniatori e calunniati, denunciatori e denunciati, non più separati da un’opposizione storica in quanto nemici irriducibili ma accomunati dalla condivisione della situazione in quanto esseri indifferenziati. Come abbiamo già detto da tempo, facendo infuriare qualche apprendista stregone ambizioso di potenza, la stura è stata data. Ogni profondità e prospettiva stanno venendo cancellate a favore dell’eterno presente del calcolo politico, in grado di annullare qualsiasi responsabilità e distinzione fra vero e falso giustificando così ogni bassezza. Progetto elaborato direttamente nei laboratori del potere, frutto di quella razionalità tecnologica che trasforma la vita stessa in un insieme di dati a portata di un clic, ma accettato senza la minima resistenza anche da chi vorrebbe sovvertirlo.

5/1/15

Sui binari

Pubblichiamo qui sotto uno scritto redatto da alcuni dei compagni perquisiti in seguito agli incendi scoppiati alla fine di dicembre, prima a Firenze e poi a Bologna, a danno dei cavi del sistema di controllo della linea ad Alta Velocità. Lo pubblichiamo volentieri perché contribuisce a riportare sui binari una discussione che — complici certamente i tromboni della grande stampa, ma pure pesanti e diffusissime fisime di movimento — era deragliata ancor prima di nascere. E le discussioni, quando deragliano, ottengono il contrario di quello che dovrebbero ottenere: avvenimenti altrimenti limpidi si ritrovano sommersi da una àura di sospetto e di mistero posticcia; ipotesi, proposte e chiavi di lettura dei fatti, anziché essere esposte e difese, o criticate, si ingarbugliano sino a risultare incomprensibili ai più; idee complesse e sfaccettate si irrigidiscono, perdendo di ricchezza fino a diventare mantra parrocchiali buoni per ogni occasione; la foga polemica si trasforma in affermazioni delatorie, con dolo o colpa che sia comunque vergognose e inaccettabili.

E pure, da quegli incendi di Natale di riflessioni interessanti se ne posson ben cavare: una occasione da non perdere se la discussione, tornata sui binari, proseguirà. A chiudere, vi abbiamo raccolto sommariamente i link a quanto abbiam trovato scritto in queste due settimane sull’argomento, condivisibile o meno, interessante o meno, doveroso o sostanzialmente inutile, in ordine cronologico inverso. Con una accortezza, però: di ogni contributo ne abbiam fatto un Pdf. La gradevolezza alla vista ne risente, e di molto, ma nessuno potrà cambiare le carte in tavola.

Macerie

Riportiamo il discorso sui binari

I fatti avvenuti il 21 dicembre a Firenze e il 23 a Bologna hanno avuto un grande risalto mediatico a livello nazionale e in tanti hanno sentito l’esigenza di prendere parola, lanciandosi in più o meno fantasiosi voli pindarici, per cercare di analizzare e spiegare gli eventi. Dal momento che da più parti – sbirri, media e non solo – siamo stati chiamati in causa (vedi perquisizioni, dichiarazioni, allusioni…) ci sentiamo di dire la nostra per provare, con un po’ di lucidità, a ri-centrare il discorso e a riportarlo sui binari.

Partiamo dai fatti: tutti abbiamo letto di cavi del sistema di gestione e controllo del traffico ferroviario incendiati nei pozzetti accanto ai binari e, nel caso di Bologna, di scritte no tav in vernice verde (diverse dalle tag “tau” ) su un muro lungo i binari.

La conseguenza: treni AV con enormi ritardi o soppressi e anche treni di altre categorie (anche perché le Ferrovie, pur di ridurre i ritardi delle frecce, posticipavano la partenza dei regionali sfruttandone le linee).

Tempistiche: qualcuno può vedere la vicinanza dei fatti con il giorno di Natale, e dispiacersene per i passeggeri che hanno subito disagi; questo, del resto, avviene anche per gli sfortunati automobilisti che incappano nei blocchi autostradali, altra pratica spesso usata in valle e a fianco della valle (ci ricordiamo quanto avvenuto in tutta Italia dopo l’indotta caduta di Luca Abbà dal traliccio da parte degli sbirri?). Qualcun altro, invece, può rintracciare la vicinanza dei fatti con la sentenza di primo grado che ha portato alla condanna di 3 anni e 6 mesi Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, seppur contestualmente alla loro assoluzione dal reato di terrorismo. Lo stesso reato, pochi giorni prima, era stato contestato anche a Francesco, Graziano e Lucio in carcere per gli stessi fatti, con conseguente inasprimento delle misure detentive.

Al di là dei commenti di politicanti vari che hanno subito soffiato sul fuoco per alimentare letture farcite di terrore, e delle tesi complottiste che si sono fatte lentamente strada anche tra i nemici del tav, ci piacerebbe riprendere quanto oggettivamente accaduto per tornare a ragionare sulla pratica del sabotaggio. Ai tempi delle prime azioni di sabotaggio in Val Susa alla fine degli anni ‘90, diverse voci erano distanti dal sentire questa pratica come “compagna di lotta”. Nel tempo, forse e soprattutto in seguito all’attacco al cantiere del 13 maggio 2013 e ai conseguenti arresti, molti hanno iniziato a considerarla come tale.

Nella lotta contro il treno veloce si intrecciano pratiche diverse e in questo sta la sua grande forza. Dai picchetti davanti alle aziende ai blocchi stradali, dalle marce popolari alle passeggiate notturne, dalle assemblee popolari alle discussioni serali ai campeggi, dall’apertura dei caselli autostradali all’imbrattamento delle sedi dei partiti del tav, dalle azioni di attacco al cantiere agli attacchi incendiari e non diffusi in tutta la penisola contro le aziende del tav, dal blocco dei treni AV nelle stazioni di mezza Italia – e non solo – al blocco delle linee ferroviarie attraverso azioni di sabotaggio di vario genere. Esatto, anche il sabotaggio fra queste pratiche, fra i metodi che un movimento coeso ma plurimo ha fatto proprie. Allora perché volersi girare dall’altra parte e chiamare le cose con un altro nome ora? Terrorismo? Servizi segreti? Vandalismo? Neofascisti? Furti di rame?

Il sabotaggio è stata una pratica di base nella storia dei movimenti di lotta e rivoluzionari. Di volta in volta è servito ad inceppare dei meccanismi, fossero essi di sfruttamento, di produzione, di reclusione, nocività ecc. Qui ed ora ne stiamo parlando nei termini di una pratica che mira a danneggiare ciò che fa parte del sistema di funzionamento di una macchina economica e politica che in questo caso è rinchiusa nelle vesti di un treno che si vuol far passare per quella montagna. Un treno che prima di arrivare in Val Susa ha attraversato mezza penisola, distrutto interi territori (pensiamo agli effetti ambientali oltreché economici che i cantieri del TAV hanno avuto – e si apprestano ad avere – al Terzo Valico, nel bresciano, in Trentino, nel Mugello, oltreché dove sono state realizzate le grandi nuove stazioni) e fruttato fior di quattrini ai soliti noti.

Tanti e tante provenienti da ogni dove in questi anni hanno partecipato a giornate di lotta contro il tav in valle (ricordiamo ad esempio il 27 giugno e il 3 luglio), così come ne hanno organizzate a casa propria in seguito ad appelli arrivati dalla Valle, ma anche per propria spontanea volontà. Tanti e diversi sono stati i contributi che, in ogni dove, si sono fatti sentire a fianco dei valsusini in lotta e di chi, per quella lotta, stava e sta pagando con la privazione della propria libertà. Dal famoso “portiamo la Valle in città”, lo slancio partito con la pratica dei blocchi ha contagiato i solidali di ogni dove che hanno dato così un senso concreto a quelle parole, uscendo dagli slogan ed entrando in autostrada. Dopo gli arresti per il sabotaggio al cantiere di Chiomonte nel maggio 2013 il ragionamento si è ampliato, e come qualcuno ricordava in un bell’opuscolo appositamente redatto, “siccome le parole, quando scaturiscono da un’esperienza reale, fatta da individui reali e non già da sembianti, hanno un senso, tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno dello stesso anno ci fu una serie significativa di sabotaggi ai danni delle strutture e delle aziende collegate con l’impresa del Tav”.

<strong>Crediamo che ciò che è accaduto parli in modo chiaro e trovi una sua precisa collocazione nel tempo, nello spazio e nelle pratiche di un movimento che lotta contro il tav e che ha sostenuto per oltre un anno i compagni accusati di terrorismo per un atto di sabotaggio contro il cantiere.

A ciascuno le proprie analisi, senza ammettere delazioni e infamie.

E chiamiamo le cose con il proprio nome.</strong>

anarchici e anarchiche bolognesi

Slalom NO TAV, tra opportunisti, prestigiatori e sicofanti

Tempo di vacanze. In genere, tutti i governi di ogni Stato approfittano di questi periodi per far passare in sordina le peggio leggi, i peggio decreti, le peggio nefandezze.

In questo mondo all’incontrario è una pratica utilizzata non solo dagli stati, ma anche da coloro che aspirano ad una simile organizzazione sociale. Lo Stato, appunto, con i suoi Ministeri, da quello della Paura a quello della Messainriga passando per quello della Formazione delle Coscienze.

Facciamo un balzo indietro, al finire dello scorso anno. L’antefatto:

Dei cavi che scorrono lungo la linea dell’Alta Velocità, nei pressi di Bologna, vengono dati alle fiamme. “Sabotaggio No Tav” si mormora per le strade, nei bar, lungo i sentieri. “Terrorismo No Tav” sbraita qualche politico, i mass-media riportano ora un termine ora l’altro, a seconda dell’indicazione del proprio padrone. Qualcuno però non ci sta e afferma che NO, un No Tav non può averlo fatto, e se non lui, chi? Ma i servizi segreti, è ovvio. Ma perché afferma ciò?

Perché lo ha dichiarato il magistrato Ferdinando Imposimato [1], ex-gendarme e cerbero di molti rivoluzionari negli anni ’70 e ’80 (come Gian Carlo Caselli del resto), ed ora “sostenitore delle politiche No Tav”;

perché la protesta è genuina se è “spontanea e non violenta”;

perché “nessuno di noi è a conoscenza di azioni come quella di questi giorni”;

perché non è il momento di sabotare visto che l’accusa di terrorismo è caduta per tutti/e i sette No Tav agli arresti;

perché sono cose che accadono lontano dalla valle.

[fonte: www.ilsecoloxix.itl]

Queste misere considerazioni sarebbero sufficienti per affermare che un atto di sabotaggio è “strategia della tensione”!

Che diamine, solo un paio d’anni fa, forse tre, si coniava l’espressione, poi divenuta per alcuni/e pratica attiva, di “PORTARE LA VALLE IN CITTÀ” e viceversa.

Solo un paio d’anni fa, forse tre, gli stessi che oggi fanno dietrologia, affermavano da un palco che non è importante venire in Val Susa per lottare contro il Tav, perché il Tav è ovunque.

“IL TAV È OVUNQUE” è un’espressione che non è stata inventata sul finire del 2014, ma alcuni anni fa e, soprattutto, praticata.

Ferdi (al contrario del Carlin) dice che è “strategia della tensione”, e voi scordate la sofferenza di centinaia di ragazzi e ragazze, torturati/e dai suoi sgherri (e da quelli del Carlin e dell’Armand) nelle questure e nelle carceri e gli date credibilità e legittimità?

Sono stati i servizi perché la protesta genuina è non violenta, cioè non deve far male a nessun essere umano. A parte che mi piacerebbe sapere il motivo per cui io posso perdere un occhio grazie ad un razzo al cs sparato ad altezza d’uomo, o sputare sangue per giorni, dalla gola o dalla vagina, grazie a migliaia di lacrimogeni al cs sparati in poche ore, o avere il volto tumefatto per mesi grazie alle sprangate degli sbirri……e i responsabili di ciò devono ricevere da me un trattamento differente, a parte queste mie considerazioni, a voi risulta che sui binari bolognesi qualcuno si sia fatto del male a causa di quell’incendio?

Sono stati i servizi perché noi non ne eravamo a “conoscenza”. Perché, eravate forse a conoscenza dell’attacco al cantiere del 13 maggio 2013 o di altri sabotaggi avvenuti in valle, o altrove? E che differenza c’è tra il cremare un compressore o dei cavi?

È caduta l’accusa di terrorismo, bene, e allora andiamo tutti/e al mare e lasciamo che continuino a devastare quella che adesso è anche la mia Valle?

Possibile che con inchieste e processi ancora in corso, con la quotidiana verifica dell’asservimento dei mass-media al Partito del Tav, con la consapevolezza della generosità di tanti nemici del Tav e non solo, si è ancora così ingenui?

Ma non è finita, perché adesso arriva il peggio, e qui torniamo all’inizio di questo testo, al vero e proprio nocciolo della questione.

Gli aspiranti autocrati a cui mi riferisco, cioè i curatori del sito NOTAV.INFO, per zittire dei loro rivali di web arrivano alla vera e propria delazione. Come differentemente definire la seguente frase in un loro post dal titolo “I burabacio”:

<< […] Ma tanto a loro che importa, gli interessa solo mantenere accesa la fiammella sempre più tenua (la fobia sessista a volte gioca brutti scherzi, n.d.r.) del prossimo gesto individuale che saprà guadagnarsi qualche prima pagina dei tanto disprezzati giornali….fino a qualche annetto fa usavano i loro petardoni postali che qualche rintocco facevano, ora usano qualche straccetto imbevuto di benzina inneggiando alla rabbia generale…chissà che Finimondo! […] >>.

Come si pensa di essere definiti, infami? Collaborazionisti? Sicofanti? Informatori? Merde? Che termine preferite, io li odio tutti.

Quando dite e/o scrivete queste considerazioni, quando le condividete e le diffondete (vedi “Dans Le Rue”, “NoTavGenova” e persino un redattore di Radio Black Out), siete dei pusillanimi.

Antonio Gramsci e Rosa Luxemburg si rivolterebbero nella tomba ad avere degli epigoni simili.

Probabilmente qualcuno/a gli ha fatto notare che “sì, forse, magari, potrebbe essere che stavolta avete cacato a chilometri di distanza dal vasino, esagerato un tantino, che magari qualcuno/a potrebbe davvero essere arrestato grazie alla vostra soffiata”, e quindi loro che fanno? Mettono un cappello su quel post? Si scusano? Avvisano il Ministero della Paura che non volevano affermare ciò che hanno scritto? Nooo, nulla di tutto ciò.

Eliminano dalla Home Page l’articolo in questione, “I burabacio” non si trova più, e quando lo scovi non ha più quel passaggio infame.

Che abilità questi aspiranti leninini, chissà che corsi hanno fatto, o forse le loro arti prestidigitatorie le hanno apprese dalla CMC che, all’indomani del crollo del viadotto sulla Palermo-Agrigento ha fatto scomparire dal proprio sito la pagina dove annunciava la costruzione del viadotto crollato:

www.notav.info

oppure lo hanno imparato da quei “rivoluzionari” milanesi che dopo aver ricevuto aspre critiche per l’opuscolo (diffuso il 10 maggio 2014 “in occasione del corteo di Torino in solidarietà ai quattro e a tutti i No Tav sotto processo”, sich), dal titolo “NO TAV, TERRORISMO E CONTRO-INSURREZIONE PARTE 1. WELCOME TO THE TERRORDOME SMONTARE IL DISCORSO SUL TERRORISMO” [link]

lo hanno tolto dalla circolazione e sostituito con un altro pressoché identico dove erano stati tolti (senza scuse, tantomeno autocritiche) dei passaggi davvero osceni, quali “[…] Il discorso antiterrorista cerca di creare confusione, ma per chi lotta quotidianamente, per chi ha i piedi per terra, non è difficile riconoscere quali gesti sono dalla parte della lotta e quali gesti sono di fatto dalla parte dell’ordine, che siano opera di uno sbirro, di un fascista, di un nichilista o semplicemente di un idiota. […]”

Abilità prestidigitatorie sulle quali è bene riflettere.

Situazioni spiacevoli, che aggiungono merda alla merda già circolante.

Qui non si tratta di aver toccato il fondo, e nemmeno di raschiarlo. Qui, notav.info, ha iniziato proprio a scavare.

Un anarchico attivo contro il Tav, ovunque.

Epifania 2015

Straccetti di benzina, stracci politici e delazione

Non essendo particolarmente internettari, abbiamo letto diversi giorni dopo la loro pubblicazione l’articolo redazionale I burabacio uscito sul sito notav.info e il comunicato, pubblicato sullo stesso sito, del magistrato Imposimato a proposito dei recenti sabotaggi avvenuti contro l’Alta Velocità in Italia. Mentre stavamo ragionando di scrivere una critica ai contenuti del primo articolo e al fatto stesso di pubblicare una presa di posizione su cosa fanno o non fanno i no tav da parte di un magistrato (e nemmemo uno qualsiasi, bensì un PM responsabile di aver seppellito sotto anni di galere decine di rivoluzionari), abbiamo saputo che la prima versione de I burabacio(prontamente sostituita, senza dirlo, cercando in tal modo di cancellare le tracce) era ben peggiore. Ci sarebbe piaciuto che le nostre critiche circolassero anche in Valsusa in modo diretto (a voce e su carta), poco interessati come siamo ai “dibattiti” virtuali tra militanti e componenti politiche. Ma la faccenda è così grave da spingerci alla forma-tempo del comunicato in internet, con tutti i suoi limiti.

Nella prima versione de I burabacio, la redazione di notav.info indica i redattori del sito finimondo.org come coloro che “fino a qualche annetto fa usavano i loro petardoni postali che qualche rintocco facevano, ora usano qualche straccetto di benzina inneggiando alla rabbia generale…” (la seconda versione diventa “andavano in estasi per i petardoni postali … e ora per qualche straccetto di benzina …”).

Indicare pubblicamente degli individui quali autori di determinati reati è, a casa nostra, delazione, pratica indegna per chiunque si consideri rivoluzionario o anche solo genericamente “compagno”. Quando si criticano (o si dileggiano) delle pratiche di azione diretta, c’è la polemica, anche dura, anche aspra. Quando si afferma che Tizio o Caio hanno compiuto questo o quel sabotaggio, si fa qualcosa che è semplicemente inaccettabile. “Delazione” non è parola che usiamo alla leggera, ma con quel peso e con quella precisione che scavano fossati tra chi accetta e chi rifiuta un tale modo di fare.

E siccome in queste faccende la precisione è fondamentale, va detto che di quell’articolo sono responsabili i redattori di notav.info (cioè alcuni militanti del centro sociale Askatasuna e del comitato di lotta popolare di Bussoleno), certo non un generico e inesistente “Signor Movimento No Tav”. Ci sono decine e decine di compagni (e non) che nella lotta valsusina contro il TAV hanno messo idee, impegno e cuore, che non si sono mai dissociati da alcuna pratica di attacco al potere e che non hanno mai indicato nessuno – né direttamente né indirettamente – alla polizia.

Detto ciò, e con la consapevolezza che una simile questione non si affronta attraverso un semplice, ancorché doveroso, comunicato, vogliamo aggiungere qualcosa sulle saccenti e sprezzanti parole con cui i redattori di no tav.info parlano dei “fan di due cavi bruciati” o “qualche straccetto imbevuto di benzina”, loro che sanno, dall’alto della loro scienza, che “il sabotaggio è una pratica seria”.

I sabotaggi di dicembre (come vari altri che li hanno preceduti) hanno dimostrato che l’Alta Velcità è un gigante dai piedi di argilla, che può essere bloccato, danneggiato, sabotato anche con mezzi alla portata di chiunque. Proprio come molte delle azioni che sono avvenute in Valsusa. Questo difendere o condannare la benzina (cos’hanno usato i compagni che si sono rivendicati l’attacco al cantiere di Chiomonte? Le bottiglie hanno più “dignità politica” degli stracci, oppure è la “narrazione tossica” dei media che decide quale sabotaggio sia legittimo e quale no?) a seconda dell’opportunismo del momento (che si spinge fino a far da cassa di risonanza a “uno che di terrorismo se ne intende”… come Imposimato) nasconde ben altro timore: quello di non poter centralizzare, e quindi controllare, la lotta contro il TAV. Per quanto ci riguarda, invece, difendiamo i blocchi di massa come le azioni in pochi, le bottiglie contro i macchinari di un cantiere come gli stracci contro i cavi dei Frecciarossa, le manifestazioni tranquille come i sassi contro la sbirraglia, i sabotaggi in Valsusa come sull’Appennino (e cogliamo anche l’occasione per esprimere tutta la nostra solidarietà ai compagni anarchici perquisiti a Bologna).

Questo, e altro ancora, avremmo voluto dire.

Ma l’attacco contro i redattori di finimondo si è spinto ben oltre.

Saremmo antiquati, ma chiamiamo gatto un gatto. E delazione la delazione.

Che nessuno provi a liquidare tutto ciò come “polemica tra componenti politiche”. Ci sono princìpi che vanno difesi come le barricate.

Trento, 6 gennaio 2015

anarchiche e anarchici di Trento e Rovereto

Azione diretta e sabotaggio: E’ il momento di scegliere, senza più esitare!

<em>“Io non possiedo il cervello: solo paglia”

“Come fai a parlare se non hai il cervello?”

“Non lo so. Ma molta gente senza cervello ne fa tante di chiacchiere”</em>

Riteniamo assolutamente necessario prendere la parola in maniera decisa dopo aver assistito a qualcosa che consideriamo inammissibile. Già da tempo trovavamo preoccupante il diffondersi di determinate pratiche all’interno degli ambiti di lotta. Ora non crediamo sia più possibile soprassedere oltre. Ciò che spesso viene spacciato per disputa ideologica o discussione tra punti di vista ha raggiunto la vera e propria pratica della delazione.

Questo è quanto accaduto con la pubblicazione del testo “I burabacio” nei siti notav.info e infoaut.org, in seguito ai sabotaggi avvenuti nel dicembre scorso alle stazioni di Firenze e Bologna. Siti che, sicuramente, non rispecchiano le posizioni dell’intero movimento No Tav, che a sua volta non può avere certo la pretesa di rappresentare chiunque decida di intraprendere un percorso o una singola azione di contrasto all’Alta Velocità e alle nocività.

Da tempo assistiamo alla pubblica diffusione sul web di testi e controversie inquietanti, episodi ritenuti accettabili da alcuni, spacciati come dibattiti dagli autori o considerati in maniera marginale da altri, ora siamo arrivati ad un punto di non ritorno in cui è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Dalla richiesta di incolumità per un’infiltrata, alle continue dissociazioni e prese di distanza rispetto ad attacchi contro il dominio, inclusi quelli riconducibili alla lotta contro il Tav, fino a tergiversare con tolleranza sulla presenza di collaboratori di Giustizia negli spazi occupati, ecco che si giunge a postare articoli su internet in cui si denunciano pubblicamente presunti responsabili di azioni specifiche (in questo caso i redattori di Finimondo.org, autori del testo “A stormo!”).

Probabilmente il non essere sempre puntuali nell’esprimersi in modo critico riguardo a questi eventi ha fatto si che queste pratiche prendessero campo e scadessero in questo degenero. In nome della strategia politica e di una esasperata ricerca di legittimazione mediatica e sociale, ogni critica radicale all’esistente, espressa attraverso parole e/o azioni, che esula dal già predisposto, viene spesso messa all’indice o, nel migliore dei casi, snobbata.

A dimostrazione di ciò, nel momento in cui gli autori stessi prendono atto della sconvenienza (a proprio svantaggio) di queste degenerazioni vigliacche ed insolenti, di cui si rendono protagonisti, non fanno altro che rivisitare goffamente le proprie parole, negandone la paternità o semplicemente cancellando le parti più gravi dei loro testi, già nati come impellente necessità di pararsi il culo.

Si passa dall’ipocrita ossessione di voler differenziare a tutti i costi gli attacchi che colpiscono solo oggetti inanimati a quelli che coinvolgono anche esseri umani (o presunti tali), giustificando i primi e criminalizzando duramente i secondi; per arrivare alla contraddizione di promuovere una politica che incita, almeno apparentemente, a determinate pratiche (come il sabotaggio) per poi prenderne realmente le distanze, addirittura puntando il dito verso altri.

Proprio perché “il sabotaggio è una pratica seria”, storicamente prassi di chiunque nella storia abbia deciso di mettersi in gioco per combattere una singola ingiustizia come l’intero sistema di dominio, non può essere relegato a diventare oggetto di una campagna specifica, tanto meno necessita di essere legittimato da parte di una qualsiasi assemblea, dall’intellettuale di sinistra di turno o dal politicante di movimento a seconda della convenienza e delle relative manovre repressive.

Riteniamo fondamentale che da ora in poi ognuno si assuma la responsabilità di non far più finta di nulla.

Da parte nostra la presenza delle persone responsabili di delazione (riconducibili ai redattori di notav.info e infoaut.org) ad iniziative pubbliche rimane cosa inaccettabile. A maggior ragione nel momento in cui si arrogano la pretesa di disquisire su sabotaggio, accuse di terrorismo e prigionieri anarchici, come stava per avvenire a Genova il 13 di questo mese.

Ora o in futuro, indipendentemente da dove, si ripresenterà la medesima situazione, continueremo a ritenere la loro presenza non gradita.

Rinnoviamo la nostra solidarietà a chi continua ad opporsi al potere e all’autorità senza mediazioni e pericolosi distinguo.

I presenti all’incontro del 12/01/2015 al Mainasso Occupato, Genova

Infami nel movimento

Udine, 15 gennaio 2015

Prendiamo la tastiera per dire brevemente la nostra su questa questione, sgomenti di fronte al silenzio del movimento. Infatti, fatta eccezione per il sito francese non-fides.fr, per le/i compagn*

trentin* e poch* altr* il silenzio è assordante.

Il fatto: il sito notav.info (gestito da area infoaut) pubblica un articolo redazionale, I burabacio, e il comunicato, pubblicato sullo stesso sito, del magistrato Imposimato (PM responsabile di aver seppellito sotto anni di galera decine di rivoluzionari*) a proposito dei recenti sabotaggi avvenuti contro l’Alta Velocità in Italia. Ne I burabacio (poi vigliaccamente modificato), notav.info indica le/gli autrici/autori di finimondo.org come coloro che «fino a qualche annetto fa usavano i loro petardoni postali che qualche rintocco facevano, ora usano qualche straccetto di benzina inneggiando alla rabbia generale». Notav.info cioè infama delle/dei compagn*, indicandoli agli sbirri, di cui evidentemente si sente collega, come responsabili del sabotaggio No TAV di dicembre a Bologna.

Nel mezzo del più generale delirio complottista e dietrologico, che vorrebbe i servizi segreti o chissà chi autore di tale suddetta azione, in mezzo al più generale delirio pompiere e delatorio,

vogliamo esprimere tutta la nostra solidarietà e vicinanza alle/ai compagn* di finimondo.org e alle/ai compagn* perquisit* a Bologna in seguito all’azione No TAV di dicembre. Condividere il

sabotaggio quando è ormai pratica condivisa in un determinato spazio-tempo lo può fare chiunque, anche chi quest’estate cercava di appropriarsi delle figure di Sole e Baleno all’inaugurazione del

presidio-campeggio a loro dedicato vicino Susa, mentre dalle pagine del proprio giornale nel 1998 l* disprezzava. È troppo facile inneggiare al sabotaggio in Val Susa e augurarsi (per finta) la

generalizzazione sul territorio nazionale della lotta No TAV e poi fuggire spaventati davanti al contrasto fisico dell’Alta Velocità a Firenze e a Bologna. Eh, ma lì ormai il TAV c’è già! E quindi?!

E se anche per quanto riguarda la Val Susa, il Terzo Valico, il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia il progetto AV/AC sarà completato da loro signori speculatori noi che cosa dovremmo fare? Accettarlo?! Guai ad attaccarlo perché ormai c’è già?! Per chi la pensa così evidentemente il sabotaggio in Val Susa non è altro che un feticcio con cui auto-glorificarsi, mentre

la lotta contro l’Alta Velocità ed il dominio tutto se è generalizzata e senza quartiere un mostro da cui guardarsi e da additare ai propri amici sbirri. E soprattutto per noi chi scrive una valanga di merda come I burabacio e chi la condivide non è altro che un infame e come tale va trattato. Di conseguenza, bisognerà muoversi nel procedere della lotta No TAV in Val Susa, per quanto ci riguarda, nella consapevolezza che ci sono degli infami nel movimento. Gli infami e i magistrati non sono meglio degli sbirri e non meglio di loro vanno trattati.

Viva il sabotaggio!

Anarchiche/anarchici

Nota redazionale su “I burabacio”

Pubblichiamo questo post come redazione di notav.info per fare chiarezza su una questione riferibile all’articolo ” I burabacio” pubblicato in data 28/12/2014 su questo sito.

La questione riguarda un errore nell’ultima frase del nostro contributo che in una prima versione poteva lasciar intendere che si volessero attribuire degli atti direttamente ai “quaquaraqua” ai quali è stato dedicato l’articolo. Di questa leggerezza ce ne siamo accorti noi stessi alcune ore dopo la pubblicazione ed abbiamo modificato il testo che potete trovare a questo link

Alcune persone palesemente in malafede ci hanno accusato giorni dopo di aver commesso volontariamente questo errore, utilizzando nei nostri confronti termini talmente inaccettabili da risultare ridicoli, se non subdoli.

Quando erano state persone vicine a chi oggi strumentalizza questo episodio ad additare in rete nomi, tempi e luoghi per attaccare chi aveva (secondo loro) partecipato ad azioni contro il cantiere, un no tav aveva invitato a fare maggiore attenzione a quello che si scriveva(qui l’articolo). In quel caso, però, nè gli autori della “svista” avevano cambiato il testo, che è tuttora in rete tale e quale, nè i loro affini avevano ritenuto fondamentale una simile levata di scudi. Strano!

Ci sembra chiaro che questa vicenda sia stata trattata da questi personaggi in maniera strumentale e che il vero problema sia la critica che viene fatta nell’articolo alla predisposizione di alcuni ad anteporre i propri interessi politici ed ideologici a quelli del Movimento No Tav pur cercando in esso, in seconda battuta, la legittimazione pubblica di tale agire.

Ora come movimento dobbiamo concentrarci sulle prossime date di mobilitazione che ci vedranno impegnati e dedicare le nostre energie ad individuare e praticare quelle forme di lotta che, portate avanti in maniera collettiva, ci permetteranno una volta in più di contrastare la macchina del Tav e tutto il sistema di interessi che ci sta dietro.

Permetteteci però di chiudere con una promessa. In tutti questi anni di intensa lotta abbiamo resistito ad un attacco senza precedenti portato avanti dalla politica dei palazzi, dai mezzi di informazione, dall’azione della magistratura e lo abbiamo fatto senza fare mai un passo indietro, cercando anzi di rilanciare la nostra azione ogni qualvolta è stato possibile. Ciò che sappiamo, quindi, è che non saranno di sicuro delle miserabili accuse a distrarci dal nostro cammino.

Notav.infam

No Tav – Riguardo una malsana pratica inaccettabile

E’ innegabile che il mezzo di comunicazione finisca, in qualche modo, per condizionare anche ciò che si comunica. Internet lo conferma ancora una volta.

I suoi tempi e le sue modalità, pienamente coerenti con quest’epoca, proiettano il nostro comunicare in una dimensione spesso fittizia, superficiale, autorappresentativa, quantitativa e perché no, a volte superflua. Nella rete si può dire tutto, mostrare ogni cosa. Si può essere ciò che si vuole.

Di conseguenza anche l’utilizzo che i movimenti rivoluzionari o antagonisti ne fanno corre questi rischi.

Per questa ragione a volte si può anche scegliere di non dare eccessiva importanza agli scambi, ai dibattiti e alle prese di posizione che la rete ospita. Si può anche scegliere di mostrarsi direttamente nelle pratiche concrete per quel che si è e che si pensa. Lo si fa correndo il rischio di non potersi mostrare sempre a tutti, correndo il rischio di non essere sincronizzati con il tempo che scorre nel web, correndo il rischio, in questi tempi, di non esistere.

Non vogliamo ridurre in queste poche righe un tema complesso come quello dell’utilizzo o meno di internet. Vogliamo però porre l’attenzione su l’esistenza di una possibilità, tra le tante, che spesso non viene presa in considerazione. Ciò non toglie che anche questa sia, tuttavia, una scelta che può aver portato a degli errori: per esempio quello di tacere quando sarebbe stato, invece, il caso di esprimersi anche attraverso questo strumento. Poco male, vada per la prossima volta.

Ma andiamo al nocciolo.

Questa relatività che attribuiamo alla comunicazione virtuale, non solleva chi ne fa uso dalle responsabilità rispetto a ciò che sceglie di comunicare.

Un comportamento delatorio è un comportamento delatorio, in ogni circostanza, in ogni contesto, che sia condizionata dallo strumento del comunicare o meno. Che avvenga su carta stampata, su un social o con i segnali di fumo.

Un comportamento delatorio è un comportamento tra i più detestabili.

E questo lo sanno tutti.

Perfino la morale cattolica ci ricorda che chi fa la spia non è figlio di Maria….

La lotta NO-TAV ci ha appassionato, l’abbiamo sostenuta, l’abbiamo vissuta e abbiamo cercato di diffonderla anche nei territori lontani dalla Val di Susa con il suggerimento di uno slogan che si è mutato in prospettiva: Portare la valle in città, sereni nel sapere che è una lotta popolare all’interno della quale i metodi di lotta più diversi hanno trovato sempre maggiore spazio e rispetto.

Su questa lotta abbiamo scommesso, perché vi abbiamo individuato un motore e un esempio nonostante tutte le contraddizioni e le difficoltà. Crediamo che questa esperienza sia ricca di indicazioni e suggerimenti utili a tutti e tutte coloro che tendono ad una frattura totale con le attuali strutture di potere.

Proprio per questo riteniamo che episodi come la pubblicazione del testo “I burabacio” sul sito Notav.info (nella sua prima versione) non debbano passare nel silenzio (nonostante la goffa correzione).

Sentiamo che sarebbe una leggerezza imperdonabile lasciar passare una cosa del genere nell’indifferenza.

Crediamo che un fatto del genere rappresenti un precedente rischioso e deleterio per quel patrimonio collettivo di lotta che la Valle ha negli anni contribuito ad arricchire.

Roma 15 gennaio 2015

NED – P.S.M.

Regali di Natale

Qualche giorno fa lamentavamo come la discussione intorno agli “incendi di Natale”, potenzialmente ricca di spunti interessanti, fosse deragliata ancor prima di nascere. A più di una settimana di distanza e nonostante l’invito dei compagni di Bologna a farla ritornare sui binari la situazione ci sembra addirittura peggiorata. Proviamo allora a dare noi il nostro contributo: chissà se servirà. Una nota di metodo, prima di iniziare. Il “noi” che parla nello scritto che segue non è da riferirsi né ad un singolo con deliri di onnipotenza né a gruppi particolarmente allargati di compagni: a parlare sono semplicemente i redattori di //Macerie e storie di Torino//.

Sotto sotto una proposta

Ricominciamo daccapo. Nelle notti precedenti al Natale scorso, prima a Firenze e poi a Bologna, qualcuno dà fuoco ai cavi del meccanismo di gestione e controllo traffico della linea ad Alta Velocità. Materialmente i danni sono pochi, ma in tutti e due i casi il sistema va in tilt e dall’alba i ritardi si sommano ai ritardi – e questo è un danno grosso. Nessuno si fa male, né avrebbe potuto farsi male, semplicemente per due volte in pochi giorni la circolazione ferroviaria in quelle tratte è compromessa, a partire da quella dei treni super veloci.

Il collegamento tra questi fatti e la lotta contro il Tav sorge spontaneo, poiché ad andare a fuoco sono state proprio canaline e centraline della nuova linea; del resto sono alcuni anni che, in tutto lo stivale, grupponi di oppositori al treno armati di striscioni e bandiere invadono periodicamente i binari bloccando Frecciarossa, Frecciabianca e Frecciargento – o Tgv di passaggio -, a volte imbrattando le carrozze ma causando sempre ritardi a catena sulle linee. Non è fuori dal mondo che tra le migliaia e migliaia di oppositori al treno super veloce ci sia chi, questo Natale, abbia voluto sperimentare un modo diverso per ottenere lo stesso effetto di quei blocchi già tanto diffusi. Niente di particolarmente nuovo, tra l’altro: meno di un anno fa, dichiaratamente in solidarietà con gli arrestati del 9 dicembre, qualcuno ha bloccato la linea all’altezza di Roma lanciando sui cavi della corrente una catena con alle estremità dei mattoni e nessuno ha espresso sospetti particolari o ha avuto qualcosa da ridire.

Solo chi c’era può dire perché è successo quello che è successo, per carità, ma ci sembra tutto sommato una situazione limpida. Da parte loro i giornalisti e i politici hanno fatto il loro mestiere, e nel solito modo, alludendo a un terrore e a un terrorismo che non stanno né in cielo né in terra: dopo gli incendi di Natale gli utenti abituali dell’Alta Velocità non avranno certo paura a prendere quel treno, semmai sapranno che quel treno è talmente malvisto da… arrivare spesso in ritardo; chi ha subito i ritardi a catena sui treni “normali” pure non ha avuto alcun motivo di essere terrorizzato. In mezzo ai passeggeri ci sarà pure stato qualcuno che, solidale con la lotta contro il Tav, si sarà fatto una risata; e pure qualcuno soddisfatto di avere avuto una buona scusa per perdere qualche ora di lavoro. Gli altri, la maggioranza, si saranno semplicemente incazzati o saran rimasti indifferenti, come per tutti i blocchi fatti con striscioni e bandiere in questi anni: ma non basta certo una coincidenza di luogo, o di data, per alludere alla strage della stazione di Bologna, dell’Italicus o del Rapido 904, che son state terrorismo senza dubbio ma che c’entrano quanto i cavoli a merenda. L’intelligenza dei giornalisti, del resto, è fatto misterioso e insondabile e non è sempre facile capire dove finisca il ragionamento malevolo e la provocazione studiata (come questi accostamenti abusivi) e dove inizi la semplice sciattezza, la tendenza continua alla castroneria (come nel caso delle tag graffitare scambiate per “la rivendicazione dei No Tav”).

Per quanta confusione abbiano seminato giornali e politici, e soprattutto in assenza di elementi contrari che non ci sembra proprio ci siano in questo caso, non ha alcun senso domandarsi, come hanno fatto alcuni: «Ma sarà stato davvero “qualcuno dei nostri”? C’è qualcuno che invece trama nell’ombra?». Ha senso invece che ciascuno si domandi se in questi fatti non ci sia una proposta indirizzata anche a lui, e se questa proposta sia sensata, accettabile; se sia da difendere e rilanciare o, al contrario, da lasciar cadere nel vuoto.

Possibilità da cogliere, oppure no

Del resto un anno e mezzo fa è andata più o meno così. Ci si è svegliati una mattina con la notizia dell’attacco al cantiere del 13 maggio, con i giornalisti e i politici che strillavano e facevan confusione. La “notte del compressore” aveva in sé degli elementi di rottura – sia da un punto di vista organizzativo che della scelta degli strumenti pratici – rispetto a ciò che in quel momento il grosso del “movimento No Tav” era disposto a praticare e sostenere, ma anche di grande continuità: era un passo, una possibilità in più che evidentemente non poteva esser proposta, discussa e organizzata nelle assemblee popolari e nei coordinamenti dei comitati, ma che rispondeva (adeguatamente o meno, non è questo il punto da chiarire qui) a una necessità della lotta. Sta il fatto che qualcuno ha dato la propria lettura della situazione, ne ha discusso e si è organizzato con chi meglio preferiva, e la notte del 13 maggio 2013 ha fatto quel che doveva fare. Non era certo la prima volta che succedeva qualcosa del genere, ma forse mai con tanta forza. E come ha reagito, da parte sua, il “movimento No Tav”? Ha letto quella notte per quello che secondo noi era: una proposta. Tanto per essere chiari, quando parliamo di “movimento No Tav” lo facciamo nella unica accezione che ci piace di questo termine, vale a dire l’insieme vivo, multiforme e privo di una logica univoca di chi si oppone alla costruzione della linea del super-treno. Ed è per questo che non ci si poteva certo aspettare che quella proposta fosse accolta in maniera unanime, né univoca, né tantomeno definitiva. Dove e come verificare un’eventuale unanimità? Come evitare che della “notte del compressore” ciascuno cogliesse solo quel che voleva e poteva, o che magari accogliesse quella proposta obtorto collo per non rimanere fuori dai giochi? E, infine, siamo convinti che «indietro non si torna» è uno slogan che descrive bene fermezza e determinazione, ma non la realtà delle lotte dove si deve esser sempre disposti a ricominciare daccapo. Ma possiamo dire che, per lo meno nel suo aspetto più immediatamente pratico (l’uso del sabotaggio), quella proposta è stata giudicata cosa positiva da una fetta considerevole del movimento, e le parole d’ordine urlate a squarciagola dopo l’arresto di Chiara, Niccolò, Claudio e Mattia ci sembra lo dimostrino sufficientemente. Il suo aspetto di metodo, cioè la possibilità di organizzarsi al di fuori delle assemblee popolari e dei coordinamenti dei comitati, invece, è rimasto tutto sommato in ombra e possiamo dire non sia stato digerito fino in fondo: a volte è accettato, come nel caso dei sabotaggi avvenuti in Valle nell’estate del 2013 contro le ditte coinvolte nell’affare, a volte invece no. E l’aria che tira in questi giorni ci sembra dimostrarlo.

Se non ora…

Torniamo allora ai fatti di Natale. Secondo noi quegli incendi sono stati una buona idea. La linea ad Alta Velocità è, con espressione abusata e banalissima, un gigante dai piedi d’argilla: le truppe asserragliate nel cantiere di Chiomonte non possono certo bastare a sorvegliare centinaia e centinaia di chilometri di binari che, sparsi per tutto lo stivale, sono un po’ i nervi scoperti di una Grande Opera che non è odiata e non ha creato danni solo in Val di Susa. Con la lotta di questi anni i valsusini si son conquistati una simpatia, in tutta Italia, che tanto spesso si è tramutata in sostegno concreto e determinato; e c’è pure chi è contrario al Tav e disposto a battersi al di là delle vicende specifiche della lotta in Valle. Del resto, con le iniziative agli alberghi, alle ditte e i blocchi nelle stazioni, i luoghi nei quali si svolge la lotta si sono già sganciati dal solo cantiere per cui il salto non ci sembrava affatto incomprensibile e il suggerimento di quelle notti di Natale avrebbe potuto esser colto ancora, e altrove: la qualità di iniziative come quelle sta proprio nel loro potenziale aspetto quantitativo, nella possibilità cioè che, non risultando del tutto stonate rispetto al contesto né di difficilissima realizzazione, vengan riprese da altri e ripetute aumentando di incisività. È vero che iniziative come questa natalizia sfuggono, per loro natura, a una discussione preventiva pubblica e pongono pure dei problemi alla discussione nell’immediatezza del poi – giacché si deve sempre badare a che le proprie perplessità non finiscano per indicare ai questurini, per esclusione, i sospetti su cui indagare. Ma è vero pure che, se non ci si sentisse obbligati a rispondere a ogni strillo dei giornali, un modo per confrontarsi lo si potrebbe sempre trovare perché è sempre importante discutere e criticare; ed è vero anche che quando le proposte sono inadeguate ad una determinata situazione semplicemente non troveranno nessuno che le raccoglierà e moriranno da sé. E poi ci si dovrebbe rassegnare al fatto che il “movimento No Tav” non può essere una firma, né un solo contesto organizzativo, ma un insieme molto più vivo ed eterogeneo dove non per forza si deve esser tutti d’accordo e dove nessuno può pretendere di controllare tutto. Questa volta, poi, si è andati oltre con le affermazioni oggettivamente delatorie contenute in un breve post pubblicato da uno dei siti più seguiti del movimento. Affermazioni corrette dai loro stessi autori il giorno successivo, quando però erano ormai circolate ampiamente finendo pure sui giornali. Solo negli ultimissimi giorni gli autori hanno ammesso pubblicamente, sia durante delle assemblee che per iscritto, di aver fatto un errore. È importante che l’abbiano riconosciuto, dato che è fondamentale segnalare che non c’è foga polemica che giustifichi queste scivolate; e se l’avessero fatto prima ci saremmo evitati quella lunga serie di comunicati, redatti con toni e modi diversi, e a volte tutt’altro che precisi, che ne chiedeva loro conto. E si sarebbe potuto discutere di cose più interessanti.

Insomma, quegli incendi ci sembravano una buona idea a Natale e ci sembrano una buona idea anche adesso. Dopodiché, se quella che sembra una buona idea non funziona o non attecchisce ad un certo punto la si può anche metter da parte e… tenersela buona per quando potrà attecchire e funzionare. E forse proprio qui sta il punto. Ognuno di noi può valutare l’adeguatezza di una certa proposta ad una certa situazione e poi concludere: «bella questa idea, peccato che non sia questo il momento migliore». Ma poi l’impegno deve essere concentrato a far sì che si possa far domani quel che non si è potuto fare oggi, perché se alcune condizioni che rendono adeguato un fatto al contesto sono imprevedibili e del tutto sganciate dalla nostra volontà, altre invece dipendono anche da noi, dalla chiarezza dei nostri discorsi, dalla direzione nella quale decidiamo di spingere. Chi ha pensato che i sabotaggi di Natale fossero in teoria una buona idea, ma da mettere in pratica in un altro momento della lotta (magari durante uno dei picchi di combattività del movimento, come subito dopo la caduta di Luca dal traliccio o in alcuni momenti del processo ai quattro del 9 dicembre), se ora parla di quelle iniziative come di disprezzabili «straccetti imbevuti di benzina» non ne favorirà certo la riproposizione ma anzi ne allontanerà la messa in pratica all’infinito. Identico ragionamento si può fare per chi pensa che il sabotaggio sia sì un buono strumento, ma da utilizzare con il contagocce giacché forse non è stato ancora digerito dal grosso del movimento che lo ritiene utilizzabile solo contro il cantiere e le sue propaggini in Valle e non contro le linee che già funzionano: bisognerà allora trovare i modi per favorirne ulteriormente la digestione, con i discorsi e con le proposte pratiche. Ci sembra sia stato fatto l’esatto contrario: capiamo la foga polemica, ma qualcosa non ci torna.

Tutto qua? No, almeno per questa volta vorremmo indicarvi due fattori apparentemente opposti che stanno contribuendo, entrambi, a far mettere da parte troppo frettolosamente la proposta contenuta negli incendi di Natale: l’eterna teoria del complotto e la contrapposizione tra questi episodi e la lotta “in Valle”.

Trame oscure e riflessi condizionati

Esiste in Italia una mentalità diffusa che vuol vedere sempre sotto la superficie delle cose trame nascoste e intelligenze occulte che hanno potere e capacità organizzative per mettere in atto ragionamenti spregiudicati e machiavellici. Ora, di grandi trame nascoste ce ne sono state e ce ne saranno ancora – Piazza Fontana ce l’ha tristemente insegnato. E ci sono e saranno pure sempre delle trame piccoline, fatte di meschini calcoli individuali, come nel caso recente dell’autista di Rinaudo. Ma, vivaddio!, non le si può trasformare nel motore del mondo o, più banalmente, nella chiave di lettura per tutto ciò che non si capisce o non si condivide. Se ci sono degli elementi concreti, fattivi, delle contraddizioni grosse e visibili nei fatti che accadono per come li possiamo conoscere… – passi!, che sorgano dei sospetti. Per fare un esempio semplice: lo scritto di Capodanno attribuito ai Noa, che snocciola a vanvera nomi di compagni, e minaccia, e promette senza nulla fare, è evidentemente una bufala buona per i giornali in vena di titoli roboanti (che sia una bufala studiata e organizzata o, più semplicemente, il parto sghembo di un mitomane non ci azzardiamo a dire). Ma nel caso degli incendi di Natale, l’unica cosa “strana” non sta nel fatto in sé, ma nella narrazione che ne han fatto i giornali, nella demenza manifesta con la quale han preparato le fotogallery con le tag graffitare. Ma che i giornalisti vengan selezionati per sciatteria e scarsa funzionalità delle sinapsi è un mistero che avevamo già svelato da qualche tempo. Oppure dovremmo dar retta al giudice Imposimato che, in virtù della sua lunga esperienza e dall’alto del suo profilo Facebook, ci informa che quegli incendi sono “strategia della tensione”: e chi gliel’ha detto, a costui? E in base a quali elementi, a quale ragionamento, di grazia? E accettare di dare spazio a lui oggi, non è un po’ come se in una qualsiasi lotta del futuro i nostri figli accettassero di farsi dar lezioni da Rinaudo? – con trent’anni di più, imbolsito e con la dentiera sarebbe certo un perfetto esperto di terrorismo…

Siamo seri. Non possiamo fornire alcuna ricetta preordinata per individuare bufale e provocazioni e separare a colpo sicuro, come si dice, il grano dal loglio. Ma pensiamo che come non ce l’abbiamo noi non ce l’abbia nessun altro. Poi è vero: i desideri influenzano lo sguardo, e la fiducia che abbiamo noi nell’iniziativa anche individuale, nella determinazione anche sparpagliata di chi ha voglia di buttarsi nella battaglia contro il super-treno, può giocare brutti scherzi e farci prendere lucciole per lanterne. Ma l’atteggiamento contrario, quello un po’ stitico di chi pretenderebbe che tutto passi sotto il suo controllo preventivo, quello di chi vorrebbe che accadano solo i fatti che lui ritiene opportuno che accadano, ci sembra sortisca effetti peggiori, visto che contribuisce a tarpar le ali a delle possibilità di lotta che poi possono servire a tutti; oppure, il che è più o meno lo stesso, a impedire la discussione su proposte che, come può pure succedere, sono semplicemente sbagliate o mal poste.

Non saranno certo queste poche righe a convertire i complottisti ad ogni costo, ne siamo consapevoli, e siamo pure consapevoli che questa mentalità sospettosa che critichiamo è molto radicata, non affatto esclusiva di gente in malafede: basta farsi un giro nei contesti in cui le lotte riescono a coinvolgere non solo i soliti militanti più o meno professionali ma gente comune, nei contesti in cui il tessersi delle lotte rende possibili discussioni dirette scansando per un attimo il fantasma della “opinione pubblica”, per rendersi conto che l’ipotesi del complotto è un riflesso condizionato che scatta ogni volta che succedono cose che si stenta a comprendere e a condividere. È per questo che chi, come noi, critica questa mentalità, dovrebbe smetterla di urlare, con il sangue agli occhi, «politicante paraculo!» ogni volta che periodicamente la vede riemergere. Non perché non ci sia chi le dà spazio per mero calcolo politico e non per convinzione propria, con l’unico intento di squalificare pratiche che non ritiene opportune in generale o in determinati momenti: c’è, c’è eccome, e continuerà a farlo fintanto che troverà terreno fertile negli ambiti di lotta. E su quel terreno possiamo intervenire solo se sapremo da un lato criticare quel riflesso condizionato e, contemporaneamente, spingere verso la comprensione critica di quei fatti che l’hanno fatto scattare.

Chiusi in canonica

Certo è che identico danno rischiano di farlo, paradossalmente, anche alcuni dei difensori più strenui di questi incendi natalizi. Già, perché, in mezzo a questo calderone, c’è pure chi ha voluto cogliere una contrapposizione netta, nettissima, tra la lotta in Valle e i sabotaggi di Bologna e Firenze: lassù fa tutto schifo, è stato detto, e quei sabotaggi sono un buon modo di non starsene con le mani in mano ma a distanza di sicurezza. Lassù, in montagna, parlamentari, sindaci, magistrati, scrittori imbronciati e scivolosi e ogni risma di animali politici; laggiù, lungo i binari di notte, chi è contro il super-treno ma pure contro il Parlamento, i Municipi, i Tribunali, gli artisti engagés, la bassa politica dei gruppuscoli e chi più ne ha più ne metta. Insomma, gli anonimi e sconosciuti sabotatori natalizi la loro proposta l’avrebbero fatta… agli anarchici! – e neanche a tutti giacché se su Parlamento, Municipi e Tribunali gli anarchici son d’accordo tra di loro, sull’arte e sulla militanza il dibattito è ancora aperto. Se la proposta è questa, è scontato che non si possa allargare più di tanto né tanto meno “tracimare”: gli anarchici sono quelli che sono, hanno le forze che hanno, e il grosso della gente del “movimento No Tav” sui quei temi ha le posizioni più varie e disparate e quindi ne rimarrebbe per forza di cose tagliata fuori. Certo, non c’è mica solo il “movimento No Tav”! Ma non vediamo proprio come e perché uno sfruttato di San Zenone al Lambro, coi coglioni gonfi per una vita di sfruttamento, determinato finalmente a combattere ma del tutto ignaro dei dibattiti di movimento, debba in un impeto di rabbia riprendere questi buoni esempi natalizi. Andrà, molto più probabilmente, a dare una testata al responsabile di Equitalia del suo paese o al suo capo al lavoro: farà cosa buona e giusta, dando magari un esempio contagioso pronto a diffondersi a macchia d’olio e senz’altro da sostenere ma… è un’altra cosa.

Chiariamoci: non siam mica contrari al fatto che gli anarchici, sul Tav o su altro, si facciano vicendevolmente delle proposte, anche in questo modo e anche a distanza. Ma poi non ci si può aspettare che succeda altro oltre a ciò che gli anarchici sono in grado di determinare direttamente. In questo caso: qualche trillo, un po’ di scampanellii… – siam forse carenti in carità di Patria, ma le campane a stormo tenderemmo ad escluderle.

Come sempre, ognuno vede nelle cose quel che ci vuol vedere. E noi negli incendi di Natale ci abbiam voluto vedere una proposta diretta al “movimento No Tav” – che, per fortuna!, è qualcosa di diverso dalla semplice sommatoria di gruppetti politici -, proposta che avrebbe potuto essere accolta e, chissà, forse pure tracimare; se era così, chi ci ha appiccicato sopra quella contrapposizione sicuramente non le ha fatto un buon servizio, contribuendo a rinchiuderla in una disputa tra parrocchie militanti: e le campane di queste parrocchie sì che han suonato a stormo in questi giorni.

macerie

Rumore di specchi, sulle retoriche giustificazioni dei delatori e altre cosette

I castelli di carta ogni tanto vengono giù, certe volte per un soffio di vento, altre perché si inciampa nel tavolo…dando un’occhiata alle vicende di questi ultimi periodi riguardanti la confidenza poliziesca a mezzo internet, mi pare proprio che i virgulti e le virgulte di notav.infam questa gomitata l’abbiano data proprio forte, e che le carte cadendo abbiano scoperto un bel panorama sulla reale faccia -ma ce n’era bisogno!?- di lor signiori/e: quello di arroganti autoritari che non disdegnano nemmeno la delazione pur di attaccare chi ha osato mettere in discussione il dogma e la dottrina notavica.

Di parole, più o meno moderate (ma come si fa ad essere moderati davanti alla delazione? Vien da pensar male…), più o meno condivisibili ne sono state dette molte, come molti sono stati gli isterismi da diva insolentita da parte dei signori confidenti. Ora a distanza di vari giorni la voce degli ormai noti delatori (repetita juvant) torna a farsi sentire, chissà quante volte avranno letto e riletto queste poche righe per sincerarsi di non inciampare nuovamente nel famoso tavolo…eppure il risultato, pur evidentemente frutto di sforzi delle migliori ed illuminate menti dell’ufficio stampa dell’anonima infami, non è poi granché…i nostri cominciano con il giocare con le parole…e l’evidente delazione diventa “un errore nell’ultima frase del nostro contributo”, proprio una bella manipolazione dei contenuti che avrebbe potuto trovare spazio nel libro di Chomsky/Herman “La fabbrica del consenso”; infatti in questo novello scritto dei nostri un’evidente delazione diventa un semplice errore tecnico di scrittura, quindi concettualmente si passa da una questione di sostanza, con tutto ciò che significa, ad una questione meramente tecnica, tentando così un’autoassoluzione attraverso lo svuotamento contenutistico e simbolico di certe affermazioni. Così come nel linguaggio del potere i poveracci che muoiono nelle sue guerre sono definiti “effetti collaterali”, i tristi figuri di notav.infam trasformano la loro delazione in un semplice errore di forma e che come tale secondo loro andrebbe letta ed interpretata. Il meccanismo è il medesimo, i nostri lo usano però in maniera stentata. Purtroppo per lor signori però le parole hanno un peso e certe affermazioni hanno un significato e delle conseguenze che non possono essere eluse semplicemente adducendo a giustificazione la propria buona fede ed un semplice errore…

I nostri poi continuano affermando che la “polemica” non sia frutto d’altro che di una strumentalizzazione tutta politica della vicenda, e ciò sarebbe dimostrato dall’atteggiamento che gli anarchici non avrebbero preso posizione su un documento francese del 2012 che sostanzialmente affermava come il movimento valsusino fosse gestito, nei suoi appuntamenti di “lotta” come ad esempio i campeggi, in maniera verticistica ed autoritaria dagli sgherri dell’Askatasuna…ma su cosa ci sarebbe stato da prendere posizione? Non è forse così? Suvvia, almeno su questo un minimo di sincerità, fatti su fatti lo dimostrano tanto che sembra superfluo passare troppo tempo su questo punto, un’ultima cosa però la vorrei far notare…l’accusa di partigianeria (ma è poi un’offesa accusare qualcuno di essere coerente con le proprie idee?) viene mossa da coloro che nella testata di uno dei siti che gestiscono scrivono “l’informazione di parte”…ahiahiahi, che si mettano d’accordo fra loro stessi almeno. Tornando alla questione di cui sopra, Sarebbe altresì interessante chiedersi e capire come mai certi, anzi molti degli anarchici che frequentano la famosa valle per anni abbiano accettato la marginalizzazione e di subire in sostanziale silenzio certe dinamiche…questo si che avrebbe senso domandarsi…

Torniamo al testo. I cari amici della delazione affermano che portare all’attenzione di chi fosse interessato certe questioni non sarebbe altro che un modo per utilizzare la fama del movimento notav (il minuscolo è voluto) per ricercare legittimazione pubblica: “…del Movimento No Tav pur cercando in esso, in seconda battuta, la legittimazione pubblica di tale agire” Ebbene mi pare palese che nessuno, e basta leggere tutti i comunicati usciti in questi giorni – eccettuando il triste scritto uscito dalle penne romane – ricerchi nessuna legittimità pubblica né all’interno né fuori il movimento trenocrociato, tanto meno i redattori di Finimondo…chi scrive ad esempio non è notav, ma casomai contro l’alta velocità ed il mondo che disegna, e soprattutto non ricerca nessun tipo di legittimità, termine più consono al linguaggio del dominio, a differenza invece di chi pur di mostrare la propria bella faccia in giro è disposto a sedersi sugli sgabelli di Santoro, di condividere palchi con giudici boia come Imposimato, di servirsi dei media di regime come strumento di propaganda.

Tralascio la solenne retorica di movimento che segue, degna della più scafata chiesa e passo direttamente alla chiusa del documento…

“Permetteteci però di chiudere con una promessa. In tutti questi anni di intensa lotta abbiamo resistito ad un attacco senza precedenti portato avanti dalla politica dei palazzi, dai mezzi di informazione, dall’azione della magistratura e lo abbiamo fatto senza fare mai un passo indietro, cercando anzi di rilanciare la nostra azione ogni qualvolta è stato possibile. Ciò che sappiamo, quindi, è che non saranno di sicuro delle miserabili accuse a distrarci dal nostro cammino”.

In parte ciò che è scritto sopra è vero, certi figuri hanno sempre avuto le spalle larghe, si sono difesi dagli attacchi dei magistrati grazie all’appoggio ed alla complicità di…magistrati, si sono difesi egregiamente dagli attacchi dei media sfruttando i media di regime stessi, nella componente d’opposizione (leggasi il fatto quotidiano ad esempio) alle lobbies di potere momentaneamente al dominio; si sono difesi mirabilmente dalla politica dei palazzi mutuandone metodologie, linguaggio e strutture sistemiche, in una legittimazione dell’impianto di dominio che comunque i nostri non disdegnano certo, ma del quale vorrebbero prendere il timone, verniciato di rosso, s’intende!

Una lancia però per questi autoritari la spezzo volentieri, alla fine non fanno che essere conseguenti con le proprie idee, la cosa che in realtà infastidisce di più è come certi libertari ed anarchici abbiano accettato fino ad ora e continuino ad accettare tutto ciò delazione compresa, forse per convenienza politica, forse perché si sono illusi di avere pari “dignità”, forse perché come quei poveri cani che per una vita sono stati bastonati ed ai quali è bastata una carezza “popolare” per farli diventare riconoscenti e fedeli hanno deciso di ingoiare di tutto e di più, nella speranza che chissà, in un prossimo futuro…

L’Aska ed i suoi accoliti non sono il movimento diranno alcuni; chiedo io: “come si è posto il vostro “movimento popolare” davanti alla delazione?” C’è chi fino ad ora ha deciso di partecipare ad un’esperienza nella quale sotto l’alone putrido del “movimento delle mille anime” è sceso in piazza, ha condiviso il piatto e condivide le iniziative con preti, magistrati, ex militari, politici, autoritari di ogni fatta…deciderà ora di continuare a stare fianco a fianco con i delatori? Povera “L’Idea” sacrificata sull’altare del pragmatismo politico…

Solidale con i redattori di Finimondo, anarchico individualista, libero da chiese e convenienze, contro i delatori

M.

Dissociati, delatori e minchioni

Il significato più profondo degli ultimi cinque anni di lotte in Val Susa è la riscoperta della genuinità dello stare assieme resistendo, e il contestuale rifiuto della speculazione politica come tale. L’autonomia del tutto è diventata più importante delle diverse, spesso patetiche autonomie del politico (e dell’ideologico), che pur hanno cercato e cercano di sostituirsi alla condivisione che si sedimenta sull’esperienza. Su questo, la valle non ha guardato in faccia nessuno. Ancora oggi torna ad affermare che un movimento non è la sommatoria di “componenti”, ma un insieme di persone che trasformano sé stesse trasformando il mondo. “No Tav”, di conseguenza, non è un brand che sia possibile usare sul mercato ambiguo della legittimazione politica, avvenga ciò per una lista elettorale o per privatizzare la pratica o l’idea della rivoluzione, dell’insurrezione o del sabotaggio. Il movimento ha i suoi comitati e le sue assemblee per guardarsi negli occhi tra pari e camminare lungo i sentieri della lotta in comune. Diffida di sette e fazioni ideologiche, o dei leaderini che lisciano il pelo a questo o a quel potenziale detrattore per (ri)abilitarsi, (ri)collocarsi, anche a costo di (ri)cacciarsi nel deprimente deserto del prevedibile e dell’inoffensivo.

Per questi individui un gesto politicamente del tutto innocuo, stabilito da un piccolo gruppo, dovrebbe annullare ogni sforzo d’interpretazione e qualsiasi tensione al dibattito. Valutare criticamente un’azione compiuta da qualcuno è per loro, infatti, “dissociazione”. Con questo inquinamento malsano del lessico, irrispettoso delle persone e della memoria rivoluzionaria, tentano di liquidare le critiche al loro punto di vista, cercando riparo da argomenti semplici e diffusi che non sono in grado di controbattere politicamente. Utilizzano un termine coniato dallo stato per gettare nel discredito, squalificandole in anticipo, le analisi altrui, partendo dal presupposto che non si critica pubblicamente un’azione “contro”; e il carattere “contro” (qualunque cosa ciò voglia dire, per loro) di un certo gesto sarebbe il loro intimo conciliabolo, naturalmente, a stabilirlo. Eccoli allora perimetrare la sfera del consentito e del non consentito in termini di espressione e discussione, brandendo la spada dell’insulto su chi ragiona, come ogni rivoluzionario dovrebbe fare, sulle pratiche e sulla loro efficacia. Credono ogni volta che sia il movimento a dissociarsi da loro, e non loro, nel tempo e nei fatti, a dissociarsi dal movimento – ammesso che vi si siano mai sinceramente associati, al netto di ogni mero intento parassitario.

Il dubbio è venuto a chi ha visto trasformare un’assemblea No Tav a Vaie, l’estate scorsa, in un improbabile congressino per disquisire delle fobie ideologiche di un ristretto gruppo di persone. Sguardi imbarazzati di valligiani e compagni. “E ‘sti gran cazzi” nelle menti di tutti noi. (Loro, però, l’ideologia – lo scrissero in quell’occasione – non sono disposti a sacrificarla “neanche alla rivoluzione sociale”: e questo, in effetti, è interessante). Pazienza ne abbiamo avuta tanta. Non è certo stata l’unica occasione. Abbiamo sempre preferito un bicchiere di vino e una fetta di polenta, riderci sopra e sdrammatizzare. Nessuno è perfetto e il movimento ci piace, talvolta, anche per il suo modo di essere un magnifico e simpatico concentrato di follia. Questa volta, però, non è il caso, se è vero che al posto della follia abbiamo trovato una brutta specie di furbizia, la peggiore. Alcuni degli stessi individui, infatti, sono passati da queste ad altre questioni, più delicate, che concernono altri principi. E hanno sostituito l’usuale, risibile insulto della “dissociazione” con un altro, che non fa ridere.

Approfittando cinicamente di un errore commesso per leggerezza, e senza intenzione, dal sito notav.info (che per criticare dei quaquaraqua, per disattenzione, ha potuto lasciar intendere di voler loro attribuire atti che si volevano ascrivere a una più generale attitudine all’insensato), ci hanno deliziati con una tiratina d’orecchie venuta male. Per accusare compagni e compagne (che tutti conoscono, e di cui nessuno ha mai messo in discussione l’integrità) di delazione, occorre presupporre quantomeno l’intenzione di qualcosa di innominabile, ingigantendo un episodio che, per quanto spiacevole, è stato chiuso dopo poche ore da una modifica del testo effettuata autonomamente, una volta che alla redazione è apparso chiaro il possibile fraintendimento del testo. I nostri non hanno invece esitato a giocare col fuoco, presentandosi a un paio di assemblee e insistendo in questa chiacchiera malevola, chiarendo confusamente che quel che avevano scritto non significa “infamia” e che, per carità, bisogna distinguere “delazione” da “delatori”. Alcuni loro amichetti, non volendo apparire da meno ma essendo un po’ timidi, hanno invano tentato di aprire un dibattito: dobbiamo accusarli per “dolo” o semplicemente per “colpa”?

Così, coprendosi di ridicolo senza far ridere nessuno, hanno oscillato per alcune ore tra il linguaggio giudiziario delle macerie di null’altro che della propria onestà intellettuale, e quello delle grottesche distinzioni metafisico-clericali poste a fondamento della scomunica del Concilio di Trento e di Rovereto. Risultato? Nessuno, se non l’invito a sciacquarsi la bocca prima di rivolgere accuse strumentali a comitati e compagni. Però si è immesso tra alcune persone, e tra chi si oppone all’alta velocità o al suo mondo, un insulto abnorme, una sparata abbastanza grossa da non poter essere considerata che una provocazione fuori misura. Perché? Ci dicono: è una questione etica. Allora, saremmo d’accordo. Però che fate, discutete con dei delatori nelle assemblee? Buffoni: sapete benissimo quanto disonesta sia stata questa cosa, e quanto certe barricate capziose voi le abbiate difese oggi strumentalmente, e ieri a intermittenza. Non parlate di principi o di etica perché grazie a questa azione schifosa avete dimostrato di non esserne capaci, subdoli calcolatori quali siete, ipocriti fatti e finiti, non anarchici, ma miserabili politicanti dell’anarchia.

Bravi, ditevi che non è così.

Di questa impresa, risponderete alla vostra storia personale, prima ancora che politica; ma evitate d’ora in poi di ammorbare i luoghi della lotta con le vostre pesantezze e le vostre paranoie, con le inclinazioni depressive del vostro devastante super-io e la vostra irrimediabile presa male. Perché in tanti, in troppi, abbiamo di meglio da fare; e per quanto nel superare il confine che separa il tragico dal ridicolo siate maestri, occorre sempre fare attenzione a non varcarlo al contrario. Minchioni.

Csoa Askatasuna

Confermo: dissociati, delatori e minchioni

Delazioni e compagni di strada

Sulle delazioni e i compagni di strada

Infami , politicanti e pompieri

Abbiamo letto queste poche righe: “Delazioni e compagni di strada“, colle quali alcuni non meglio identificati “compagni con un piede nell’esagono” scrivono, a proposito di Non Fides, che: “è proprio questo sito che ha dato il via all’infelice pratica della delazione nel movimento no-tav”. Ciò, a detta loro, a causa del testo “Il nemico interno in Val Susa“.

Bon, tanto per cominciare, la palma di chi per primo ha pubblicato questo testo, purtroppo non spetta a noi. Quella ennesima denuncia delle pratiche autoritarie dell’Askatasuna ha girato via mail, è stata pubblicata anonimamente su Indymedia Grenoble ed anche altrove, prima che su Non Fides. Tra l’altro, un “autonomo torinese” rispondeva alle critiche contenute in quel testo, attribuendole ad un altro dei siti che l’hanno pubblicato. Capiamo che tutta la cosca dell’Autonomia-Contropotere torinese sia incazzata a causa della figura meschina fatta con la delazione via il sito notav.info, ma suvvia, almeno mettetevi d’accordo fra di voi…

Ma entriamo nel merito. Secondo questi “compagni” (dell’Aska), il testo in questione sarebbe “assai problematico [perché vi] si dice chiaro e tondo che il centro sociale Askatasuna “e i loro amici” avrebbero organizzato l’attacco al cantiere del 31 agosto 2012, gestendo attacchi e ritirate. È un testo che fa accuse precise di una certa rilevanza penale e che non è mai stato corretto.

Come ha già detto giustamente un altro lettore di Indymedia Piemonte, è risaputo che la gestione di quel campeggio (agosto 2012), “assalti” compresi, era in mano agli autonomi. E che molte delle persone che hanno attaccato il cantiere la notte del 31 agosto 2012 siano poi tornate al campeggio, lo dice pure Cosimo Caridi, il giornalista de “Il fatto quotidiano” che proprio gli autonomi hanno invitato (si veda qui, minuto 2).

Ma continuiamo. Immaginiamo che il passaggio a cui si riferiscano gli amichetti dell’Aska non sia uno dei molti in cui si dice che quel campeggio, come troppi altri, sia stato gestito in maniera autoritaria proprio da loro, sotto copertura dei “comitati” o delle “assemblee”. Pensiamo si riferiscano piuttosto a questo: “Gli sbirri non hanno avuto bisogno di intervenire, alcuni leninisti del campeggio hanno fatto la polizia da soli/e, a colpi di “smettetela, non abbiamo le maschere antigas”, “il 31 sì, ma non oggi, non era previsto”, “il 31 attaccheremo massicciamente gli sbirri, ma non ora””. Oppure a questo, poco oltre: “L’appuntamento per attaccare il cantiere del TAV era stato quindi dato per il 31 agosto. […] Di fatto, verso le 22 una decina di sbirri bloccava i sentieri che portano alle loro recinzioni. Si è tenuta una “assemblea” spontanea per decidere cosa fare. Ciò consisteva più nel venire a prendere le consegne dai capi che nel decidere in maniera collettiva il da farsi. Abbiamo quindi fatto marcia indietro, per farci portare a passeggio attraverso le montagne per altre due ore, in giri inutili, tornando alla fine al punto di partenza. Alla fine è stato lanciato un attacco al campo degli sbirri, permettendo di far cadere una quindicina di metri di barriere, di lanciare pietre di dare fuoco a due camion-cannoni ad acqua. Dopo 20 minuti, mentre gli sbirri indietreggiavano, non si sa chi ha dichiarato che l’azione era finita e che bisognava ripartire. È stato intonato il coro di ritirata (“si parte insieme, si torna insieme”) e tutti hanno abbandonato la zona di fronte per riprendere la camminata notturna. Perché partire dopo soli 20 minuti? Di solito gli scontri possono durare diverse ore. Tutto lascia credere che i comunisti hanno avuto paura di ciò che loro non avevano previsto, di ciò che loro non controllavano ed hanno quindi anticipato la ritirata del corteo.

I (loro) compagni con un piede nell’esagono sostengono che questi passaggi sarebbero penalmente rilevanti. In effetti potrebbero avere un certo valore in un tribunale: sono delle attestazioni di buona condotta. La prossima volta che qualcuno dei militanti dell’Aska sarà accusato in seguito a scontri in Val Susa, consigliamo all’avvocato di portare questo testo in tribunale, come prova della non volontà di nuocere degli autonomi torinesi. Perché in questi passaggi c’é scritto che, come tante altre volte, in Val Susa come a Torino, i caporioni dell’Askatasuna si sono comportati da pompieri. Hanno portato a spasso la gente, hanno fatto tagliare loro qualche metro di recinzione, giusto per far fare qualche bella ripresa al loro amico de “Il fatto quotidiano”, e poi tutti a casa! (“Si parte e si torna insieme”, sicuro!) Una volta ancora, come le tante altre in cui parlano con la Digos in piazza, per trattare del percorso di cortei, di cosa fare oppure no.

Gli autori di “Delazioni e compagni di strada” scrivono che il testo “Il nemico interno in Val Susa” non è mai stato corretto né tolto da Non Fides. No, e mai lo sarà. Perché vi si dice una parte di quello che siete, all’Askatasuna: dei politicanti e dei pompieri. Una gran parte del vostro percorso, in Val Susa e altrove, così come, last but not least il vostro comunicato da tamarri in risposta alle giuste critiche a “I burabacio” mostra che siete degli autoritari. Ed il resto lo dice “I burabacio” stesso: siete dei pompieri e pure degli infami. Ecco tutto.

Quanto ai “compagni con un piede nell’esagono”, beh, consigliamo loro un video interessante: “Europe : l’insurrection qui vient ?”, fatto dal giornalista Thierry Vincent, per Canal + (visibile qui). Da buon viscido giornalista (ma di sinistra, pure lui!) Vincent cerca di farsi degli amici fra i “militanti dell’ultrasinistra” in alcuni paesi d’Europa, per intervistarli, filmarne le gesta, etc. Fra altre bassezze, lo ritroviamo l’8 dicembre 2012 alla Clarea. In compagnia di qualche giovane sprovveduto che si è fatto abbindolare? Nient’affatto. Il giornalista scambia commenti e sorrisi con alcuni capoccia dell’Aska. Un occhialuto e riccioluto “militante d’estrema sinistra” lo porta poi a visitare la Credenza, per finire con una bella intervista proprio all’interno dell’Askatasuna.

Consigliamo questo video anche a chi non parla francese: quello che viene detto sono solo sciocchezze, ma è bene che certe facce, certe facce assieme a quelle dei giornalisti, ce le ricordiamo.

Infine, ancora una volta, l’importante per noi, non è rivolgerci a politici, amici di giornalisti e magistrati, a pompieri e delatori. Come già con la nota introduttiva a “I buoni di Natale”, intendiamo rivolgerci ai compagni anarchici, in special modo adesso a quelli che prendono parte alla lotta contro il TAV. Ci ha fatto piacere leggere alcune prese di posizione chiare e forti, in cui si riconosciamo. Purtroppo c’è anche chi cerca di dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, deplorando non tanto la “scivolata” nell’infamia, ma il fatto che questa e le relative risposte abbiano rubato tempo a discussioni su “cose più importanti”. Speriamo che la discussione a proposito di queste “cose più interessanti” non faccia passare in secondo piano la contrapposizione nei confronti di politicanti, autoritari e infami di tutte le risme, anche rossi. E, ancora una volta, ripetiamo: che gli anarchici scelgano il loro campo, senza ambiguità. Noi lo abbiamo fatto.

Alcun* partecipanti a Non Fides.

La leggenda della valle che non c’è di M. e V.

on è semplice sintetizzare in un articolo la questione valsusina ed il ruolo che gli anarchici — alcuni — si sono “ritagliati” al suo interno, la faccenda è molto ampia ed articolata, ci limiteremo quindi a dare la nostra chiave di lettura su certe dinamiche che abbiamo potuto osservare in alcuni anni di permanenza nella famigerata “valle che resiste”. In primis necessita mettere in luce quello che è il modus operandi che i detentori della linea politica di movimento hanno impostato/imposto e che portano avanti, con buona pace degli anarchici/notav.

Partiamo dalla conclusione: in Val di Susa sussistono reali possibilità di rivolta, in essere o in potenza, che possano mirare all’abbattimento delle logiche di dominio quali le conosciamo e con le quali come anarchici confliggiamo quotidianamente? La risposta è no. In Val di Susa lo scenario è quello classico della lotta di cortile che si sostanzia su un territorio certo ampio ma che risente appunto di tutti i limiti dei movimenti «non nel mio giardino». Come abbiamo più volte avuto la possibilità di notare, il movimento valsusino nella sua grande maggioranza non è interessato alle lotte che si svolgono lontano dei suoi confini e se ne trattano lo fanno solo o per strumentalizzazione politica o per una questione di empatia superficiale e tutta “religiosa” che non è quindi interessata a rilevare similitudini e differenze dei conflitti in atto e di trarne un ragionamento generale di critica ed attacco al potere, che infatti non viene rifiutato né messo in discussione ma del quale si chiede sostanzialmente una gestione più “equa”.

Sul piano strettamente locale la cosa si fa ben evidente nei momenti di consultazioni elettorali, sia nazionali, ma in maggior misura — ovviamente — in quelle comunali, quando l’oligarchia di movimento, la stessa che si consulta e stabilisce le linee d’azione in riunioni ristrette prima delle farse decisionali dei cosiddetti “coordinamenti dei comitati” (1), momenti di riunione spacciati per assemblee decisionali orizzontali ma che hanno più il gusto di una comunicazione dei pochi ai molti sulle eventuali azioni da intraprendere, si affanna nella corsa a ricoprire incarichi istituzionali. Inizia così il grande valzer delle oscene alleanze, concupiscenze ed intrallazzi al fine dell’ottenimento del voto, con lo scopo di accrescere la propria popolarità personale e per cercare di conquistare il governo di alcuni comuni interessati dal passaggio dell’Alta Velocità o delle infrastrutture ad essa collegate, per avere la propria briciola di potere ed andarla a far pesare nei colloqui con i supposti nemici dell’organizzazione statale.

Si fa un grande ricorso alla delega, nella gestione ordinaria del movimento (appunto nei coordinamenti dei comitati, quando questi ultimi, ormai ridotti alla stregua di chimera valligiana, vengono rappresentati in tali riunioni da qualche individuo) che in quella straordinaria, come nel caso delle elezioni appunto, quando la possibilità di essere ai vertici amministrativi comunali è ambita, incoraggiata e sostenuta. Durante tali eventi, come anche in altri di maggiore partecipazione di individui che «vengono da fuori» — figure vissute come armi a doppio taglio, ambivalentemente attirate ma anche temute, forse per la libertà d’azione che potrebbero rivendicare e mettere in atto — viene ribadito con orgoglio un concetto fastidioso, quello secondo cui le cose in valle si fanno «a moda nostra», cioè con le nostre modalità, imposte dall’oligarchia e accettate con acquiescenza dalla massa, senza alcuna tolleranza o nel migliore dei casi considerazione di eventuali iniziative di gruppi o individui che escano dal recinto della supervisione valligiana. L’«a moda nostra» rappresenta a tutti gli effetti la linea di demarcazione tra ciò che è possibile o non possibile fare, il quando, il dove, il come e il chi, ed è la dimostrazione di un impianto verticistico ed autoritario che nella retorica movimentizia si dice di rifiutare e combattere ma che nella pratica trova perfetta attuazione.

Val di Susa, la retorica teatralizzante della lotta

Se c’è una cosa che in Val di Susa è stata creata con successo e che ad oggi continua a funzionare piuttosto bene è una retorica di movimento che si palesa in maniera chiara nel momento in cui decide di raccontarsi e di “vendere” il proprio prodotto fuori dai confini piemontesi; la parola “vendere” non è scelta a caso, infatti quello che si può notare passando del tempo in valle e partecipando agli appuntamenti di movimento, è come ogni singolo fatto venga trattato in maniera teatrale e volto a creare immaginario: dal semplice tempo passato davanti ad una rete che diventa una «grande giornata di lotta», ad un tentativo di alcuni di forzare un blocco di polizia in maniera risoluta che diventa un vile attacco violento da parte di quest’ultima nei confronti dei poveri manifestanti lì solo per rivendicare un proprio diritto; ci ritroviamo davanti ad una torsione dei fatti tutta volta a creare un immaginario resistenziale che possa avere appeal da un lato con le anime belle della “società civile”, quindi mai di attacco e sempre di resistenza ad una violenza subita, ma che strizzi anche l’occhio ai rivoltosi sparsi per l’Italia e li invogli a spostarsi in valle dimostrando come l’eroica resistenza valligiana non parli il linguaggio della mera testimonianza o del politicantismo, ma della lotta non mediata alla sopraffazione. Il tutto accettato ed in buona parte rilanciato anche dagli anarchici più addentro alle dinamiche di gestione del movimento.

Non si tratta però solo di una rappresentazione fiorita di quello che accade, ma piuttosto di una creazione di immaginario strumentale a cooptare manovalanza esterna alla valle utilizzando temi e parole d’ordine cari ad esempio all’anarchismo, mostrando una realtà di valle orizzontale, acefala e genericamente “libertaria” che nei fatti non corrisponde alla realtà ma che è utile a convogliare forze sul territorio, manovalanza “specializzata” che può risultare utile nei momenti di conflitto con la forza pubblica e che però come già detto va tenuta bene al guinzaglio, sia per non turbare troppo le popolazioni, sia per non rischiare di sbilanciare gli equilibri interni del movimento; in questo la logica della «grande famiglia» della quale parleremo più avanti si è dimostrata uno strumento perfetto. L’ipocrisia di movimento, l’autorappresentazione spettacolare, l’accettazione delle dinamiche comunicative del potere (mistificazione, ribaltamento di significato e linguaggio, manipolazione dei fatti, ecc…) sono sostanziali del modo di porsi del movimento No Tav, metodologia non condivisa forse dalla totalità dei “movimentisti” che comunque la accettano o come necessità, o per non rischiare di mettere in discussione le posizioni acquisite all’interno del movimento delle &mille anime» — e questo crediamo sia il caso di certi anarchici che fino ad oggi hanno fatto finta di non vedere o hanno minimizzato, o hanno giustificato adducendo ridicole motivazioni.

La creazione della grande famiglia

Il movimento No Tav è figlio anche della società mediaticamente sovraesposta, e come tale ha dovuto crearsi un’immagine sfaccettata quel tanto che basta da risultare appetibile sia ai fruitori dello spettacolo mediatico, sia a coloro che cercano un luogo dove la propria modalità di lotta sia accettata e condivisa. La retorica della grande famiglia in questo è stata lo strumento principe e forse ben studiato per riuscire a marginalizzare quegli elementi che potevano essere poco digeribili agli spettatori del teatro valsusino. Se la presenza di militanti di varia estrazione è stata accettata come necessità strumentale — e per rendersene conto basta parlarne con un qualsiasi “semplice” valligiano — è altresì necessario che le identità specifiche più scomode siano sottaciute o passate in secondo piano, in un’ottica edulcorata volta a presentare il movimento al di fuori degli scenari classici del conflitto. Il marchio è quello della grande famiglia No Tav, siamo tutti No Tav, ecc… In questo scenario la vicenda dei quattro anarchici (diventati poi sette) arrestati per un attacco al cantiere — che i portavoce di movimento, utilizzando le tecniche di cui sopra chiamano «passeggiata notturna» — è esplicativa (2). Il movimento ha sempre parlato dei «suoi ragazzi», dei quattro prigionieri No Tav, omettendo sempre di citarne l’appartenenza “ideologica”, così da rendere più digeribile al pubblico la loro posizione, difficilmente spendibile se identificati come anarchici notoriamente poco “appetibili” ai fruitori dei media di regime; e tutto con buona pace degli altri anarchisti che evidentemente hanno ritenuto utile non agitare troppo quella che un tempo era chiamata «la bandiera dell’ideale», per paura — forse — di perdere l’appoggio mediatico discendente dalle sacre insegne della bandiera trenocrociata.

La «grande famiglia» ha anche un’altra funzione, non è altro infatti che la traslazione del concetto di democrazia utilizzato dalle autorità classiche ma troppo compromesso per essere rivenduto all’interno di un movimento che si palleggia fra l’antipolitica di stampo grillino (3) o da indignados e il sentimento di rivolta di altre comparse sul palco.

La «grande famiglia» è il dogma davanti al quale tutti coloro che hanno deciso di farne parte alzano le mani; così come per la “società civile” l’accusa di antidemocraticità diventa una macchia da lavare dimostrando tutta la propria fedeltà ai dettami democratici, la stessa identica cosa succede all’interno del movimento valsusino dove però la parola democrazia è sostituita con medesimo significato dalle parole — spesso intercambiabili — «grande famiglia» o «movimento popolare», in nome delle quali ogni conflitto generato da questioni sostanziali è ridotto al silenzio. In questo il movimento valsusino è perfettamente reazionario, poiché ha deciso di utilizzare metodi e strutture di creazione del consenso e di gestione della realtà tradizionalmente plasmati ed utilizzati dal potere per annichilire il dissenso e la possibilità che al suo interno si creino reali momenti di conflitto.

In tutto ciò c’è quindi chi ha deciso di non mettere in discussione certe dinamiche e sostanzialmente di avocare all’oggetto collettivo la propria soggettività individuale. L’impianto generale del potere è replicato, ed è bastato solo lavorare un minimo sul linguaggio.

L’investitura popolare diventa così l’obiettivo che sostituisce nella forma ma non nella sostanza il concetto borghese di elezione democratica — cui comunque com’è stato già detto è ricorsa appena possibile — e poco cambia fra il «siamo democraticamente eletti» dei politici e «le popolazioni valligiane sono con noi» dei gestori di movimento; il consenso nudo e crudo è ciò che viene ricercato, nulla di più, ed in ciò il linguaggio grossolanamente popolar/sentimentale di alcuni epigoni del movimento (anche anarchici) la dice lunga sulla verosimiglianza di queste affermazioni.

La gestione del linguaggio e la manipolazione dei fatti sono poi evidenti nel modo in cui sono affrontate le questioni legate alla delazione (4). Il movimento No Tav ha in pratica deciso di non prendere posizione bollando come «lotta fra parrocchie» la vicenda, spostando l’attenzione ed il fulcro della faccenda non sulla questione di sostanza, la delazione e tutto ciò che ne consegue, ma sui contendenti specifici, svuotando di significato un atto gravissimo come la confidenza che viene ridotta a scaramuccia fra bande. Dopo circa un mese dai sabotaggi di Firenze e Bologna (5), l’appello del movimento, gridato forte ed in perfetto stile autoritario, volto ad arrestare anche ogni minimo spunto di pensiero critico individuale, è stato quello di far sì che lo spettacolo movimentizio continuasse, che si continuasse uniti nella lotta, a tutti i costi, e di farla finita una volta per tutte con quelle che sono state archiviate alla bell’e meglio come “polemiche”. In questo gli anarchici “famigli” hanno deciso in buona parte di non turbare gli equilibri all’interno del ventre caldo del movimento popolare, o ignorando la questione, o bollandola anch’essi — utilizzando un linguaggio al limite del pretesco — come “scaramuccia”, magari figlia del mezzo utilizzato (internet) e degli animi esasperati, oppure spostando l’attenzione sulla — a detta loro — vera questione, ovvero i passi indietro del movimento rispetto alla pratica del sabotaggio. Atteggiamenti questi del tutto in linea con la tendenza di parte dell’anarchismo italiano odierno che tende sempre più a minimizzare questioni di sostanza come la delazione, la presenza negli spazi di infami o infiltrati in nome di un «volemose bbene» figlio della convenienza politica, in una logica utilitaristica che dà sinceramente il voltastomaco.

La storia le storie e le favole

Come ogni movimento nazional popolare anche quello No Tav ha bisogno dei suoi santi e dei suoi martiri, e se ad oggi è pronto a giocarsi mediaticamente sui giornali ed in tv feriti ed arrestati, cosa di per sé già deprecabile, non si fa scrupolo nemmeno di agitare a mo’ di santini le foto di Edoardo Massari detto Baleno — o “balengo” da alcuni che ai tempi lo schernivano e che oggi ne fanno apologia — e Maria Soledad Rosas detta Sole, i due anarchici “suicidati” in regime di privazione dalla libertà alla fine degli anni 90, accusati di essere gli esecutori di alcuni sabotaggi avvenuti in valle a danno dell’Alta Velocità… già, nel 1998 qualcuno in valle già sabotava e questi sabotaggi erano deprecati da tanti; fini “intellettuali” oggi fiancheggiatori del movimento come ad esempio il triste filosofo Prof. Vattimo che ai tempi ebbe parole irripetibilmente offensive per la memoria dei due compagni, ora siede tranquillamente al desco assieme a chi magari a quei tempi si era ritrovato solo a difendere i due “martiri” suo malgrado e lo fa con tutti gli onori da tributare ai vip sostenitori di movimento, siano essi magistrati, pennivendoli, famosi scrittori filo-sionisti o quant’altro. Ma, potrebbe dire qualcuno, i tempi sono cambiati e gli errori di tiro si possono correggere e così è sembrato fare qualche tempo fa durante un’intervista il leader di movimento Alberto Perino, che ribadendo la solidarietà del No Tav ai sette arrestati, en passant ammetteva l’errore di valutazione nell’aver mal giudicato i poveri Sole e Baleno qualche annetto prima, quindi tutto risolto… non proprio, ma tant’è, sembra che il mantra «quel che è stato è stato, guardiamo avanti» abbia fatto presa sui più, anche su chi storicamente si è sempre vantato di «non dimenticare».

Alcuni partigiani pseudocritici di movimento — fa tanto libera coscienza agitare il logoro straccio del pensiero autonomo, purché ciò non si sostanzi con una critica troppo radicale all’impianto che ci accoglie! — pur dicendo di condividere tutta una serie di appunti al movimento e affermando di individuarne i limiti oggettivi, nel ritenere che comunque l’importante è “starci dentro” qualsiasi cosa voglia dire — e qualsiasi rospo tocchi ingoiare —, ribadiscono che comunque quello valsusino è l’unico movimento popolare che abbia sdoganato la pratica di sabotaggio come mezzo di lotta. Questo è vero e falso allo stesso tempo.

Se è vero che una famosa assemblea ha ratificato il sabotaggio come pratica ammessa — pur con tutta una serie di steccati — e che questo è un evento più unico che raro in Italia, è altresì palese che ciò sia avvenuto turandosi il naso e per puro calcolo politico: c’era bisogno di rilanciare una lotta che aveva perso appeal fra i militanti antiautoritari italiani ed esteri a causa dello sbilanciamento marcato del movimento verso la piaga elettorale, le presenze “da fuori” in valle cominciavano a stentare (se si eccettuano alcuni bacini d’utenza storici, corresponsabili in certi casi della macchina del consenso valsusina), c’era bisogno di rilanciare il brand in una fetta di “mercato” troppo importante per il movimento che senza la «carne da cannone» da mandare allo sbaraglio per i boschi si troverebbe a dover fare i conti con la quasi totale assenza dei valligiani sulle barricate o comunque con una carenza di “competenze” in determinati frangenti “caldi”… cosa meglio del sabotaggio!? La pratica è patrimonio comune di tante realtà, rimanda ad un’epica di lotta gloriosa, può essere giocata mediaticamente. Il gioco è fatto, anche se il meccanismo ha rischiato di rompersi subito, poiché pochi giorni dopo la famosa assemblea un sabotaggio è avvenuto ed alcuni, sempre i soliti di notav.infam invero, agitarono da subito lo spettro della provocazione, salvo poi ricordarsi che solo alcuni giorni prima i probiviri di movimento avevano legittimato la pratica del sabot e quindi lasciato cadere la questione.

Il sabotaggio quindi diventa mezzo di cooptazione politica, non pratica strategica in una battaglia di liberazione inserita nella guerra contro il dominio, tanto che solo pochi mesi dopo, e siamo ai giorni nostri, gli stessi agitatori dello zoccolo si trovano a trattare alcuni sabotaggi come pratica deprecabile inutile e dannosa per la causa stessa del movimento, al quale farebbe perdere appeal a livello nazionale in un momento in cui le simpatie per il simbolo del trenocrociato sarebbero in ascesa, il tutto in barba alla massima che gli stessi No Tav propagandarono per mezza Italia «portare la valle in città», ovvero agire nei territori contro l’alta velocità nei modi che si ritenevano opportuni… ma oggi no, oggi non si fa!… La convenienza politica prima di tutto!

Anarchici notav, anarchici e No Tav

Se le dinamiche del movimento No Tav non aggiungono nulla alle prospettive di rivolta, è pur vero che comunque si sia voluta affrontare la questione da parte dei rivoltosi non si tratta nient’altro che di una lotta contro una condizione specifica del dominio che però non è interessata ad affrontare le interconnessioni tentacolari dello stesso, ma solo a risolvere la propria questione di quartiere, una classica lotta per la difesa del proprio giardino insomma, ma che nel caos degli accadimenti avrebbe potuto avere qualche spiraglio interessante. Purtroppo la tattica tutta politica dell’entrismo movimentista senza se e senza ma che è stata attuata da certi anarchici non ha fatto altro che legittimare un movimento specifico a rappresentare una sorta di avanguardia rivoluzionaria. Niente di più lontano dalla realtà dei fatti, ovviamente, ma nella creazione di questo falso immaginario alcuni “rivoluzionari” hanno determinate responsabilità.

Già l’accettazione delle dinamiche di gruppo allargato e del vincolo alle decisioni della maggioranza, del dogma del popolarismo in salsa «grande famiglia» non hanno fatto altro che portare in marcia PER ANNI alcuni anarchici a fianco di preti, sindaci, magistrati, ex militari e chi più ne ha più ne metta, e questo in maniera acritica senza che si sia tentato realmente di sviluppare un discorso di critica radicale a certi meccanismi di movimento, ai quali anzi è stato deciso di sottomettersi in un’ottica di pragmatismo tutto politico volto a non rompere un fronte popolare — ghiotta preda per gli affamati di legittimazione e per gli animali da microfono — nel quale evidentemente si è intravisto un bacino di utenza utile ai propri scopi. Invece di portare attraverso le proprie idee e pratiche un approccio di critica sistemico, complessivo, certi anarchici hanno concentrato la critica all’esistente su un unico aspetto, l’opposizione ad una manifestazione localmente presente del potere, trascurando, mettendo da parte, sfumando, diluendo tutti gli altri elementi che hanno la stessa importanza all’interno della rivolta, elementi che costruiscono lo stesso logos di rifiuto ed attacco al dominio.

Per anni la ragion di movimento, tanto somigliante alla ragion di Stato, è stata accettata da buona parte degli anarchici più presenti in valle che si sono felicemente prestati al gioco della politica fatto di compromessi, occhi chiusi, ricerca di consenso. Certo ogni tanto qualche mal di pancia c’è stato, ma il tutto sempre relegato ad una dialettica di movimento che ha sempre sostanzialmente lasciato l’amaro in bocca. Quando alcuni compagni sono stati attaccati dalla grande famiglia per aver scelto di rifiutare la difesa legale nel processo ai 53 per i fatti di Giugno/Luglio 2011 (6), come si sono posti gli anarchici aficionados di valle? A nostra memoria è stato detto poco o nulla, come sono stati trascurati altri accadimenti più o meno grandi sempre bollati come questioni poco importanti o comunque subordinate all’unità movimentista. Il risultato di questa metodologia tutta politica di certi anarchisti a cosa ha portato nel concreto? Se è vero che tanti anarchici hanno scontato mesi di galera e affrontato processi per fatti avvenuti in valle, nel movimento valligiano qual è stato l’apporto della pratica e della teoria anarchiche? Poco o niente, e questo perché si è preferita la ragion di movimento alla chiarezza dei contenuti, perché è stato senzientemente deciso di subordinare la pratica anarchica a convenienze politiche che magari nella testa di certuni avranno avuto anche un senso — che si stenta però a capire — ma che nella sostanza hanno portato solo fallimenti. L’anarchia in valle è stata sacrificata sull’altare di un popolarismo che dell’anarchismo poco ha sempre voluto sapere e che ad oggi non dimostra di aver cambiato minimamente idea. In alcuni casi parlando con certi anarchici si ha decisamente l’impressione che il clima da famiglia allargata (tale però solo se si accettano i dettami di movimento in tutto e per tutto) abbia lenito le sofferenze che anni di militanza si portano dietro e che, grati per le carezze impreviste, siano pronti a darsi anima e corpo al movimento, in una sorta di amor religioso che farebbe invidia anche al più pio dei sacerdoti in odor di santità.

In tutto ciò chi si è posto e si pone contro l’Alta Velocità ed il mondo che ne consegue rifiutando di dirsi No Tav poiché non ne condivide scopi, metodi e mezzi è ignorato, vituperato, dileggiato, diffamato, spiato, chiacchierato (si scusi l’involontaria citazione stil-proudhoniana). Proporre di muoversi autonomamente sulla base delle affinità è ritenuta una inutile perdita di tempo, il rifiuto di partecipare al teatro di movimento è visto come una sostanziale inazione, mentre loro, al grido di «l’importante è esserci» accettano di essere i burattini di coloro che gestiscono sapientemente le trame di movimento. Poi ogni tanto qualcosa accade e qualcuno che fino a quel momento aveva fatto finta di non vedere, magari maneggiando nell’ombra a fianco di interlocutori oggi bollati come irricevibili, apre gli occhietti per un attimo e si sente in dovere di porre le proprie educate rimostranze alle mille anime di movimento, come nel caso del documento «Alle compagne e ai compagni di strada (e di sentiero)» dove gli estensori si stupiscono di una serie di eventi scaturiti però da dinamiche in essere da anni, che loro medesimi quantomeno con il silenzio hanno contribuito a sedimentare e che in quel determinato momento gli si sono rivolte contro (il riferimento è al campeggio itinerante del 2014 ed al coinvolgimento dei sindaci nelle iniziative per i quattro – poi 7 – arrestati). Verrebbe da citare Oscar Wilde, che in una sua massima sosteneva che non si dovrebbe mai discutere con gli idioti, perché ti trascinano al loro livello e ti battono con l’esperienza e questo vale anche con i politicanti e per chi sceglie, come alcuni hanno scelto, di giocare il loro gioco.

Dagli eventi di questa estate qualche scoria è rimasta, e la questione nata dallo scambio di battute fra i redattori di Finimondo e quelli di notav.infam, leggasi Askatasuna e Comitato di Lotta Popolare (CLP) di Bussoleno, ha dato l’impulso ad alcuni per togliersi dei sassolini dalle scarpe ma, si badi bene, sassolini che in certi casi sanno di convenienza politica (ancora) in una lotta egemonica («straccetti di benzina, stracci politici e delazione») sul movimento No Tav che di fatto non entra nella questione dell’essenza di tale realtà, come se averci messo «idee e cuore» assolva dall’aver comunque sostanzialmente accettato la «ragion di movimento», con tutto quello che ne è conseguito.

Lasciamo perdere poi i blandi comunicati usciti da Roma (NED – P.S.M.) o da Torino (il sito Macerie), l’uno quasi pretesco nei toni, l’altro che continua ad eludere/colludere, seppur in maniera più sagacemente articolata, le questioni inerenti la natura del famigerato movimento No Tav.

Sappiamo di non aver affrontato con l’accuratezza che richiederebbero tutti i temi trattati, come sappiamo di aver lasciato fuori dalla porta altre questioni che meriterebbero una trattazione altrettanto approfondita, ma quello che ci preme è aprire una breccia sul reale scenario che si dipana in Val di Susa, sia a pro di chi comunque volesse toccare con mano la questione passando da queste parti, sia per chi fosse interessato ad inserire l’esperienza valligiana in una riflessione più generale sul dominio e sui mezzi che quest’ultimo riesce a far permeare all’interno delle lotte per renderle innocue o più facilmente recuperabili.

(dalla Val Susa)

(1) Il Coordinamento dei Comitati è l’assise generale dei comitati locali No Tav, lo spazio in cui dovrebbero essere discusse le proposte dei vari gruppi, le scadenze di lotta, ecc. Simbolo dell’orizzontalità decisionale del movimento, in realtà il dibattito interno è pressoché assente e la dinamica dei leader è perfettamente in essere, così come quella della delega quasi in bianco. Questo Coordinamento discute di poco o nulla, limitandosi a comunicare e ratificare pubblicamente le decisioni prese in separata sede da una piccola élite (di valle e non) che stabilisce la linea che il movimento deve seguire.

(2) Il 9 dicembre 2013 vengono arrestati quattro anarchici (Chiara, Mattia, Niccolò e Claudio), con l’accusa di aver partecipato ad un assalto notturno contro il cantiere di Chiomonte nella notte fra il 13 e il 14 maggio di quell’anno, conclusosi con l’incendio di alcuni macchinari. Con la medesima accusa verranno arrestati l’11 luglio 2014 altri tre anarchici (Lucio, Francesco, Graziano). Il processo a carico dei primi quattro imputati, che nel corso delle udienze hanno rivendicato la propria responsabilità nei fatti, si è concluso lo scorso 17 dicembre con una condanna a 3 anni e 6 mesi di carcere. È invece caduta l’accusa di «terrorismo» che la Procura aveva cercato di addossare loro.

(3) Beppe Grillo è un noto comico che da anni dà voce a molte proteste contro le politiche del governo, oscillando fra cittadinismo di sinistra e populismo di destra. Nell’ottobre del 2009 ha fondato il Movimento 5 Stelle che, dopo aver conquistato alcune amministrazioni locali, dal febbraio 2013 è presente anche in Parlamento.

(4) Il 28 dicembre 2014, il sito notav.info — considerato «portavoce» del movimento No Tav — ha pubblicato una nota redazionale in cui si accusavano i redattori del sito finimondo.org di essere gli autori dei sabotaggi avvenuti alcuni giorni prima lungo la linea ferroviaria di Firenze e Bologna, nonché di altri reati del passato. Il giorno successivo, il 29, lo stesso articolo è stato diffuso anche da un altro sito legato all’Autonomia torinese, infoaut.org. Accusa ripresa quel giorno stesso anche dal quotidiano La Repubblica. Riacquisita una tardiva consapevolezza, quel giorno stesso gli autonomi piemontesi hanno modificato leggermente il loro testo per cancellare la plateale delazione. Ma il 30 dicembre è stato lo stesso Finimondo a rendere pubblico l’accaduto (qui si può leggere l’articolo tradotto www.non-fides.fr) accusando esplicitamente notav.infam di aver indicato i propri redattori alla polizia. Ne sono seguite polemiche ancora non placate.

(5) Il 21 dicembre 2014 a Firenze, ed il 23 a Bologna, sono avvenuti due sabotaggi incendiari contro la linea dell’Alta Velocità.

(6) Il 27 giugno 2011, dopo una giornata di scontri, oltre duemila agenti dell’ordine sgomberarono il presidio No Tav, ribattezzato «Libera Repubblica della Maddalena», aperto a Chiomonte il 22 maggio precedente sull’area in cui doveva essere realizzato un tunnel geognostico. Il 3 luglio successivo si è svolta una manifestazione di protesta con 60.000 persone. Numerosi manifestanti hanno dato l’assalto alla zona presidiata dalle forze dell’ordine, nel tentativo di rioccuparla. Oltre 200 manifestanti sono rimasti feriti negli scontri e 5 di loro sono stati arrestati. Per queste giornate di scontri, il 27 gennaio 2015 il Tribunale di Torino ha condannato 47 manifestanti a pene che vanno da pochi mesi a oltre 4 anni di detenzione.

(7) Dal 17 al 27 luglio 2014 si è tenuta in Val Susa una marcia No Tav che ha toccato sette paesi, con un campeggio itinerante, mobile. Durante le soste sono state organizzate varie iniziative, fra cui incontri con le amministrazioni locali.

[Avalanche n.4, febbraio 2015]

Punto e inizio

«Fate entrare l’infinito»

No, non c’è un usciere all’ingresso delle im-possibilità umane. Spetta a ciascuno di noi aprire quella porta. Scassinarla, al limite, per trovare una via di fuga da questo grande mondo istituzionale in decomposizione, da questo piccolo mondo rivoluzionario in putrefazione. Perchè le illusioni spacciate dal grande mondo sono scadute, come la mitopoiesi sciorinata dal piccolo mondo. In questo labirinto di riflessi non c’è libera uscita: c’è un pantano in cui si sprofonda, ci sono specchi su cui ci si arrampica. Si entra da esseri umani, e si rimane chiusi dentro da cittadini o da militanti. Annaspanti, senza aria, chi a elemosinare diritti ridicoli, chi ad amministrare rivendicazioni patetiche.

Alla fine dello scorso dicembre, il dado è stato tratto. Una pubblica delazione all’interno del “Movimento”. Con rare ammirevoli eccezioni, un silenzio assordante l’ha accompagnata nei primi giorni. Solo un’invasione di campo da oltre confine – certe fierezze, come certe vergogne, non hanno passaporto – ha smosso le acque. Anelito di vita o aria che gonfia un cadavere? Solo il tempo potrà dirlo. Nessun dubbio però: un Movimento che non si muove davanti ad un fatto simile è una scena, una messa-in-scena, con tanto di ruoli e pause e copioni da rispettare.

Facciamola finita con le ipocrisie. «Compagni! Non ci sono compagni. Io non vi amo. Potete vivere e divertirvi, per me fa lo stesso», diceva un poeta dandy e nichilista quasi un secolo fa. Lo ripetiamo noi oggi. È un vizio di forma, un difetto di linguaggio, che dà adito a tanti equivoci: «com-pagno» è chi mangia lo stesso nostro pane. Ebbene, noi non ne mangiamo di quel pane. A costo di morire di fame.

Non è questione di comunicati e contro-comunicati, di essere o di esserci, di agire o di fare, di bandiera nera o di bandiera rossa. È questione di etica, nonché di intelligenza, minima: non si discute con chi indica alla polizia (per meschina intenzionalità o fessa dabbenaggine, fa lo stesso). E non c’è più nulla da dire nemmeno a chi, con un conta-applausi al posto del cuore e la dignità di uno zerbino, tollera in qualche modo la delazione. Come fa chiunque protegge i delatori con l’omertà, limitandosi a indirette tiratine d’orecchie. Come fa chiunque continua ad accompagnarli per convenienza. E come fa(rà) anche chi terrà loro un broncio temporaneo, avendo dimenticato ogni ostilità permanente (ne abbiamo visti troppi di lupi selvaggi diventare cagnolini da riporto non appena sentono il battito della ciotola). Siamo troppo vecchi per credere nella promessa della menzogna. Siamo troppo giovani per sopportare il fetore della carogna.

Sputiamo sulle tombe di tutti loro, delatori e compagni di delatori. Perché, anche se non se ne sono accorti, sono più morti dei morti. Non esseri umani, fatti di carne e di sangue, ma burattini di paglia da agitare su un palcoscenico.

Tutte queste miserie le lasciamo dietro di noi. Inutile che battano alle nostre spalle, non ci volteremo. Abbiamo una porta da aprire, o al limite da scassinare. Al nostro fianco ci sarà sempre posto per individui animati dal medesimo desiderio – unire il sogno all’azione. Tutti gli altri, se ne stiano alla larga. Perché manteniamo intatta una buona memoria, e non accetteremo mai l’oblio di scambio. Chi tenterà di far scomparire l’avvenuta pubblica delazione con l’incanto della rimozione – solo una scomoda polemica, voltiamo pagina – dovrà rassegnarsi. Talvolta la storia prende vie impreviste per sgusciare fuori dai capitoli chiusi. Anche i ricordi sono riverberi. E come ebbe a dire qualcuno – mai frase fu più appropriata date tutte le circostanze – «siamo soli come le montagne, abbiamo complici ovunque».

Andiamo avanti, sì, cerchiamo di far entrare l’infinito. In quest’epoca di massacri, di vite civili nel sangue e di coscienze rivoluzionarie nel fango, è questa la nobile follia.

10/2/15

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